La Basilica di S.Pietro in Vincoli deve il suo nome alle catene (dal latino vincula, catene) qui conservate e che, secondo la tradizione, furono utilizzate per legare S.Pietro durante la sua prigionia a Gerusalemme e nel Carcere Mamertino. Nel V secolo d.C. l’imperatrice Elia Eudocia, moglie dell’imperatore d’Oriente Teodosio II, ebbe in dono dal Patriarca di Gerusalemme, Giovenale, le catene con le quali, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, S.Pietro era stato imprigionato a Gerusalemme. L’imperatrice inviò le catene alla figlia, Licinia Eudossia, moglie dell’imperatore d’Occidente Valentiniano III, la quale volle donarle personalmente a papa Leone I, detto anche Leone Magno. La Chiesa era già in possesso delle catene utilizzate per la prigionia di S.Pietro nel Carcere Mamertino, cosicché, quando il pontefice accostò le due catene, queste si fusero miracolosamente per divenirne una soltanto.
A ricordo e celebrazione perpetua del miracolo, nel 442 d.C. fu edificata la basilica di S.Pietro in Vincoli, anche grazie all’aiuto dell’imperatrice Licinia Eudossia (per cui la chiesa è conosciuta anche come Basilica Eudossiana) e qui furono custodite le catene, tuttora visibili sotto l’altare (nella foto 1). La chiesa fu ricostruita al posto di una preesistente denominata “Ecclesia Apostolorum” (ovvero “Chiesa degli Apostoli”) che andò distrutta per cause ignote. Negli anni 1956-1960, sotto la direzione di Antonio Maria Colini, il pavimento della navata centrale fu smantellato al fine di effettuare scavi archeologici che riportarono alla luce tutte le fasi precedenti al V secolo. Fu così che vennero rinvenuti una serie di edifici sovrapposti, appartenenti a “domus” aristocratiche di età repubblicana ed imperiale. Le strutture più superficiali furono in gran parte tagliate ed utilizzate come fondazioni per la realizzazione della chiesa. Gli strati più profondi restituirono resti di abitazioni medio-repubblicane (IV-III secolo a.C.), sopra le quali furono rinvenute due case della fine del II secolo a.C. con splendidi mosaici policromi figurati. Il livello più superficiale, fortemente danneggiato dalle sepolture e dai rifacimenti del pavimento della chiesa, restituì invece una grande domus databile inizialmente al periodo neroniano, della quale sono visibili tre bracci di un criptoportico che chiudeva un cortile rettangolare con una vasca centrale e giardini, probabilmente appartenente alla Domus Transitoria o alla Domus Aurea. Nel III secolo il cortile con giardino fu chiuso per ampliare la sala maggiore dell’edificio che acquistò così un ambiente quadrato con trifore sui tre lati liberi.
Successivamente a questo ambiente fu innestata un’abside, realizzando in tal modo una grande aula absidata di metri 34×10, per la quale non si può escludere una funzione cultuale, probabilmente una domus ecclesiae: il primo edificio ecclesiastico fu realizzato sfruttando proprio tali strutture. La basilica eudossiana del V secolo venne più volte restaurata, da papa Adriano nel 790 circa, da Sisto IV e da Giulio II: di questi ultimi due, rispettivamente zio e nipote, possiamo notare il simbolo araldico della famiglia della Rovere sui capitelli che ornano le quattrocentesche colonne del portico, opera di Meo del Caprino, che costituisce l’ingresso della basilica (nella foto in alto sotto il titolo). L’interno è a tre navate absidate, divise da colonne a capitello dorico: la navata centrale presenta il soffitto a cassettoni ornato dall’affresco con il miracolo delle catene. La navata destra conserva, al primo altare, la tela di “S.Agostino” del Guercino, mentre al secondo altare vi sono due ritratti attribuiti al Domenichino. La sacrestia custodisce un pavimento ad intarsi marmorei che si ritiene proveniente dalle Terme di Traiano, ma senza alcun dubbio il monumento per cui la chiesa è famosa in tutto il mondo è il famosissimo “Mosè” di Michelangelo (nella foto 2), destinato ad ornare il monumento funebre di Giulio II nella basilica di S.Pietro in Vaticano. Quando la tomba gli fu commissionata, nel 1505, Michelangelo trascorse otto mesi a Carrara alla ricerca di blocchi di marmo perfetti, ma, al suo ritorno, il papa aveva spostato il suo interesse alla volta della Cappella Sistina, a cui Michelangelo lavorò tra il 1508 ed il 1512, e quindi il progetto venne accantonato. Dopo la morte di Giulio II, nel 1513, e l’elezione di Leone X, il progetto fu ridimensionato e trasferito per la sua esecuzione nella chiesa di S.Pietro in Vincoli. Quando Michelangelo riprese il lavoro alla tomba, completò solo il “Mosè” ed i “Prigioni” prima che Clemente VII e Paolo III lo convinsero a lavorare al “Giudizio Universale” nella Cappella Sistina in Vaticano.
Il Mausoleo di Giulio II fu così terminato dagli allievi del Maestro e consiste in una semplice facciata con sei nicchie per le statue (nella foto 3), ben poca cosa rispetto all’originario progetto dell’artista che avrebbe voluto realizzare una tomba con 40 statue. I “Prigioni”, un gruppo di sei statue di figure incatenate in varie pose come prigionieri, oggi sono nella Galleria dell’Accademia a Firenze (i quattro non-finiti) ed al Museo del Louvre a Parigi (i due quasi-finiti). Fortunatamente però la bellissima scultura marmorea raffigurante “Mosè” è tuttora conservata in questa chiesa. Le curiose corna che adornano la testa della statua dovrebbero essere i raggi della Divina Sapienza, ma in seguito ad un’errata traduzione dal testo ebraico del Vecchio Testamento si sono tramutati in corna. Mosè, con lo sguardo accigliato e fiero, siede solennemente con le Tavole della Legge in mano. Su un ginocchio si potrà notare una lieve linea di frattura legata ad una famosissima leggenda secondo la quale Michelangelo avrebbe colpito la statua in quel punto con il mazzuolo gridandogli: “Perché non parli?“. Ai lati del Mosè vi sono le statue ritenute di Lia e Rachele, simboli della vita attiva e contemplativa, che Michelangelo fece completare da Raffaello di Montelupo. Sopra il Mosè vi è la statua giacente di Giulio II, a lungo attribuita a Maso del Bosco, anche se ultimamente, dopo i restauri del 2000, si ritiene possa essere opera dello stesso Michelangelo. Le restanti figure in alto sono, a sinistra, una Sibilla ed a destra un Profeta, anch’esse opera di Raffaello di Montelupo, mentre la scultura raffigurante una Madonna in piedi con il Bambino, quasi a vegliare sul corpo del pontefice defunto, fu realizzata da Scherano da Settignano.
La navata sinistra conserva il monumento funebre di Mariano Vecchiarelli, raffigurato, con il gusto macabro tipico del barocco, tra due scheletri. Importante un’icona a mosaico del VII secolo dove S.Sebastiano, vestito da soldato, è raffigurato vecchio e barbato, secondo l’iconografia originale bizantina, diversa da quella successiva romana che lo trasformò invece in un bellissimo giovane. Segue l’altare con la “Deposizione dalla Croce” attribuita al Pomarancio e, alla fine della navata, il monumento funebre del cardinale Nicola Cusano (nella foto 4, opera di Andrea Bregno), dal 1448 al 1464 cardinale titolare della chiesa di S.Pietro in Vincoli. Cusano deriva dalla sua città di origine Cusa (Kues, ora Bernkastel-Kues, in Germania), ma il suo vero nome era Nikolaus Krebbs (da krebs, che in tedesco significa aragosta, da cui lo stemma cardinalizio che vediamo nella parte inferiore del monumento). Accanto alla chiesa si trovava il convento iniziato verso la metà del Quattrocento proprio per volere di Nicola Cusano. I lavori proseguirono con il cardinale Francesco della Rovere, futuro papa Sisto IV e nel 1489 fu affidato ai Canonici Regolari del Ss.Salvatore. All’altro pontefice della famiglia della Rovere, Giulio II, si devono gli ulteriori interventi che videro la definitiva sistemazione del convento e l’erezione del chiostro, attribuito tradizionalmente a Giuliano da Sangallo.
Dopo il 1870, con il pericolo incombente di vedersi confiscare il convento, secondo la nuova legislazione dello Stato Italiano, i Canonici Regolari escogitarono una finta vendita con la condiscendente famiglia milanese dei Vimercati. Scoperto l’inganno, però, le autorità competenti espropriarono l’intero convento ed obbligarono i Vimercati a lasciare la città. Il complesso divenne quindi proprietà dello Stato, che destinò la parte destra a Regia Scuola di Ingegneria ed affittò l’altra ala agli stessi Canonici: oggi è sede della Facoltà di Ingegneria Civile e Industriale. Il chiostro (nella foto 5) è situato all’interno della Facoltà: sui suoi lati, liberati dalle vetrate che un tempo li chiudevano per ospitare alcune aule, sono tornate a correre le arcate. Queste (otto nei lati lunghi e sette nei corti) sono sorrette da colonne con capitelli ionici che mostrano lo stemma della Rovere. Sotto i suoi portici non si aprono più i vari ambienti necessari alla vita monastica ma gli attrezzati istituti della facoltà.
A testimoniare l’originaria funzione è rimasto il caratteristico pozzo (nella foto 6, simbolo della Facoltà di Ingegneria), ancora al suo posto nel centro del cortile, inquadrato in un’edicola impostata su colonne binate ioniche che sostengono la trabeazione ed il timpano. Anche qui troviamo i riferimenti roveriani: il nome del cardinale Sisto, sotto il quale fu iniziato, e lo stemma sono posti sul timpano, mentre l’iscrizione sulla trabeazione ricorda il cardinale Leonardo con il quale fu terminato, probabilmente nel 1517. Il progetto è attribuito ad Antonio da Sangallo, che lo realizzò con la collaborazione di Simone Mosca.
Il cortile ospita anche una piccola fontana (nella foto 7) costruita nel 1642, costituita da una vasca ottagonale a fior di terra, al centro della quale si erge una colonnina che sostiene il catino di forma circolare nel cui centro si eleva, da un piccolo petalo, un piccolo zampillo d’acqua. Le api presenti ai bordi della fontana non lasciano dubbi circa la famiglia che commissionò il lavoro, in quanto simbolo araldico dei Barberini. Infatti una lunga iscrizione inserita in una cornice molto elaborata, situata sotto i portici del chiostro, così recita: “DISCE HOSPES AQUAE HUIUS PERENNITATEM E SCATEBRA INEXAUSTA EA EST ANTONII CARDINALIS BARBERINI LIBERALITAS DISCE SUAVITATEM EAM APES PROFUNDUNT SAPOR IN AQUIS CAETERIS VITIUM IN HAC MEL ET NECTAR EST NULLA MELIOR INFLUAT IN HORTOS AQUA DUM APES PROPINANT MELLEAM FLORES USURAM BIBUNT – D THOMAS MENTIUS ABBAS GENERALIS GRATIAE REFERENDAE SITIENS A D MDCXLII”, ovvero “Sappiate stranieri che quest’acqua perenne che proviene da una fonte inesauribile è un dono del cardinale Antonio Barberini. Sappiate che tale dolcezza proviene dalle api che tolgono il sapore delle scorie nelle acque rimanenti e riversano in esso miele e nettare. Non c’è acqua migliore che si riversi nei giardini, finché le api offrono i fiori bevono il dolce beneficio. D.Thomas Menti Abate Generale Gratia Referenda Anno Domini 1642”.