10 Febbraio 2015

GUGLIELMO DI OCCAM

Filed under: FILOSOFIA,FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 22:30

la vita. studia all’università di Oxford, appartiene all’ordine francescano. deve difendersi, ad Avignone, dall’accusa di eresia; critica la politica ecclesiastica di Giovanni XXII. fugge da Avignone con altri francescani, si rifugia prima in Italia e poi a Monaco presso Lodovico il Bavaro.

GUGLIELMO DI OCCAM
(o Ockham) Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° – m. 1349 o 1350).

LA VITA E LE OPERE
Entrato nell’ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni; riuscito finalmente a fuggire, andò a Pisa con il generale dell’ordine, Michele da Cesena, in contrasto con il papa Giovanni XXII per la questione della povertà dell’ordine, e con il confratello Bonagrazia da Bergamo, presso Lodovico il Bavaro in lotta anch’egli con il pontefice. I tre frati, scomunicati, ebbero piena protezione dall’imperatore e si ritirarono a Monaco di Baviera, dove, in convento, G. scrisse i suoi trattati politici, a sostegno della politica dell’imperatore volta a svincolare l’autorità imperiale da quella del papato instaurandola sul consenso popolare. Al periodo di Oxford appartengono opere di argomento filosofico: Super quatuor libros Sententiarum; o teologico: Quodlibeta septem; Centiloquium theologicum; De sacramento altaris; Tractatus de praedestinatione et praescientia Dei; di argomento logico: Expositio aurea super artem veterem; Summa totius logicae; di filosofia della natura: Quaestiones in octo libros Physicorum; Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis; Expositio super physicam Aristotelis. Al periodo di Monaco appartengono opere di argomento politico: Opus nonaginta dierum; Breviloquium de principatu tyrannico; Tractatus de dogmatibus Iohannis XXII papae; Compendium errorum papae Iohannis XXII; Tractatus contra Benedictum XII; Octo quaestiones de potestate papae; Defensorium contra Iohannem XXII; An princeps pro suo succursu, scilicet guerrae, possit recipere bona ecclesiarum, etiam invito papa; Epistola ad fratres minores in capitulo apud Assisium congregatos; De imperatoris et pontificum potestate. Il più importante dei suoi trattati politici è il Dialogus inter magistrum et discipulum de potestate papae et imperatoris.

IL CARATTERE NOMINALE E FITTIZIO DELL’UNIVERSALE
G. pone al centro del suo pensiero la tesi dell’irripetibile individualità di ciascun essere, legata a una visione contingentistica che ha il suo ultimo fondamento nell’idea dell’infinita potenza di Dio. La realtà è tutta individuale e nessun universale esiste fuori dell’anima; né le idee platoniche, né l’aristotelico e tomistico quod quid est (essenza individuata fondamento oggettivo dei processi astrattivi), né le scotistiche formalitates; l’universale è quindi solo nel soggetto conoscente, operazione di classificazione degli individuali. Nella realtà individuale non v’è distinzione di essenza ed esistenza (sono soltanto due modi diversi di considerare lo stesso oggetto), né distinzione reale tra gli accidenti e la sostanza, essendo i primi modi di concepire la sostanza, e così per le relazioni che sono quindi oggetto della logica, non della metafisica. A questa concezione della realtà corrisponde una psicologia che riconosce il primato alla conoscenza intuitiva che ha per oggetto le cose stesse nella loro esistenza puntuale, e poiché le cose sono contingenti, anche l’ordine di verità cui appartengono le corrispondenti intuizioni è contingente; la conoscenza astrattiva è invece quella che prescinde dall’esistenza, o quella che raccoglie caratteri che paiono comuni a più individui (carattere quindi nominale e fittizio dell’universale, che non ha con gli oggetti né rapporti univoci né analogici). L’universale prodotto dal procedimento astrattivo è una suppositio simplex legata all’oggetto pensato; il termine invece che designa l’individuo una suppositio personalis; dottrina che va collegata con il valore meramente convenzionale del rapporto tra il termine del linguaggio e l’oggetto significato (suppositio materialis): questa complessa dottrina della suppositio e del signum avrà notevoli sviluppi nella logica della scuola occamista.

LA TEOLOGIA
Questa concezione della realtà e questo modo d’intendere il processo conoscitivo hanno le loro corrispondenze nella teologia: cade il valore delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio fondate tutte su un tessuto ontologico, che G. ritiene non valide o non conoscibili; neppure il principio di causalità può essere utilizzato nella prova dell’esistenza di Dio, non essendo possibile escludere un regresso all’infinito. Dio è solo oggetto di fede, e gli attributi divini sono nomi che attribuiamo allo stesso essere. Tra questi attributi G. sottolinea l’onnipotenza, che sta a fondamento di una concezione contingentistica in cui tutti gli esseri, le loro relazioni e gli stessi fondamentali principi logici ed etici dipendono dalla volontà di Dio.

LA FISICA
Molte le critiche all’aristotelismo in ambito fisico: non solo viene positivamente valutato il conoscere intuitivo e sperimentale, ma anche a proposito di alcune dottrine fondamentali, è notevole il contributo di G. al superamento della problematica tradizionale. Si ritrovano, per es., nelle sue opere la teoria dell’impetus (che nega la dottrina aristotelica del movimento dei proiettili come mossi dall’aria circostante e ne attribuisce il movimento alla vis a essi impressa nel lancio) e la teoria dell’intensio et remissio formarum ridotta a termini nominalistici e in qualche modo sperimentali. La teoria dello spazio è connessa da G. al modo di rappresentare il corpo: lo spazio non è diverso dal corpo.

L’AUTONOMIA DELLA FILOSOFIA
Questo complesso di dottrine porta a rivedere profondamente i rapporti tra filosofia e teologia: di quest’ultima è negato ogni valore speculativo e ogni possibilità quindi di usare nel suo ambito tecniche filosofiche: nella teologia è la fede il fondamento e la guida. Per converso, la filosofia, nel suo ambito, è autonoma. Tale autonomia di sfere si riflette anche nell’ambito politico come distinzione e autonomia di Chiesa e Stato, essendo la prima concepita da G. come società spirituale, sicché è negato al papa ogni intervento nel dominio politico. Grande figura di pensatore, G. segna uno dei momenti culminanti della crisi della cultura e della società scolastica quale si era affermata nel corso del 13° sec.: per molti aspetti egli avvia un orientamento di pensiero che avrà larga influenza nei secoli seguenti.

RASOIO DI OCCAM
È così chiamato il principio di cui G. fa grande uso, e cioè pluralitas non est ponenda sine necessitate ponendi, o anche entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem; tale principio indica un canone metodico di semplificazione.

La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham

Ne abbiamo già parlato in diverse occasioni (cfr. l’articolo Le radici del modernismo in Guglielmo di Ockham, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’8/11/17), ma non ci stancheremo di ripeterlo: la deriva della teologia progressista e modernizzante comincia fin dal tardo Medioevo, con la figura del francescano inglese Guglielmo di Ockham (1280-1349), quasi contemporaneo di Dante, il quale per primo si è completamente scordato la semplice evidenza che la teologia è fatta per affiancare, illuminare e sostenere la fede, e non per metterla in crisi e prospettarle difficoltà insormontabili. Qualsiasi filosofo, prima di lui, lo sapeva bene e si sarebbe guardato dal mettersi su una tale strada; qualsiasi filosofo avrebbe considerato un cattivo uso della ragione il fatto di adoperarla non per collaborare con la fede, ma per esserle di scandalo. Lui, invece, no: fermo e sicuro nel suo atteggiamento, nelle sue posizioni, guarda con sovrano disprezzo tutto il tesoro che la teologia ha accumulato prima di lui, lo passa in rassegna e lo dichiara non più utilizzabile, superato, obsoleto, o, quanto meno, bisognoso di radicali riforme. Che cosa ci ricorda, un simile atteggiamento? È  esattamente lo stesso di Karl Rahner e degli altri teologi modernisti che sono riusciti ad esercitare un influsso decisivo sul Concilio Vaticano II e, con ciò, sulla vita della Chiesa cattolica, e perfino sulla sua dottrina.

Il “rasoio di Ockham”? la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino!

Per Ockham, noi non possiamo avere alcuna esperienza di Dio, perché noi abbiamo esperienza solo delle cose sensibili, e tutto il nostro sapere è frutto dell’esperienza. Il suo, quindi, è un empirismo radicale, anzi un vero e proprio sensismo; e affermando che di Dio non si può avere esperienza, egli non solo svaluta o ignora la via mistica, ma demolisce anche la via razionale che conduce, se non a Dio, quanto meno alla certezza della sua esistenza. Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza. Egli è veramente l’iniziatore del pensiero moderno, laddove afferma che la ragione e la fede sono due cose del tutto separate e distinte, e che non vi è possibile convergenza fra esse. Tutti gli sviluppi materialisti e irreligiosi del pensiero moderno sono contenuti, in nuce, in questa idea centrale. Un’idea che verrà sviluppata dai vari Cartesio, Locke, Hume, Kant, e che getta nel cestino della carta straccia secoli e secoli di riflessione teologica e metafisica, non solo cristiana, ma anche pagana, basti pensare a Platone e soprattutto a Plotino. Egli è anche il padre dello psicologismo e del soggettivismo, poiché sostiene che la conoscenza umana si basa sull’intuizione immediata e diretta degli enti, sicché non serve provare la loro esistenza, quando se ne ha esperienza diretta. Il conoscere, per lui, si riduce a un prendere atto di quello che c’è; ma quello che c‘è, in sostanza, si riduce a quel che possiamo esperire con i sensi. È evidente che ciò contrasta con le fondamenta stesse del sentimento religioso, oltre che della Rivelazione: forse che noi abbiamo avuto la conoscenza immediata e diretta dell’Incarnazione del Verbo, o della Santissima Trinità? Si direbbe che Ockham non si renda conto sino in fondo della portata devastante del suo modo d’impostare la relazione tra fede e ragione, anzi, che non si accorga neppure di quanto limitante e mortificante sia la sua idea di ragione. La ragione, in  ultima analisi, si riduce a psicologia, e più precisamente ad “accettazione” dei dati che i sensi inviano alla mente. Qui non c’è più alcuno spazio né per la metafisica, né, a ben guardare, per la teologia stessa: che ci sta a fare un teologo il quale, come san Tommaso (l’apostolo) crede solo a ciò che vede, e se non mette le dita nelle piaghe di Cristo, non crede alla sua Resurrezione? Evidentemente, in una simile prospettiva la teologia è diventata inutile, e se ne potrebbe fare benissimo a meno. Perché non compiere l’ultimo passo, allora, e non tagliare l’ultimo, esile filo che la tiene ancora in vita? Un residuo di pudore o una mancanza di coerenza, magari dovuta a poco nobili ragioni di ordine pratico?

Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza!

Non vogliamo metterci a fare, a nostra volta, della psicologia: ci limitiamo a constatare il fatto. Un teologo il quale riduce la conoscenza a sensismo non è più un teologo, puramente e semplicemente: se avesse un po’ di coerenza, dovrebbe dichiarare finita le teologia e cambiare mestiere. Ma Guglielmo di Ockham non si limita a decostruire tutto l’edificio del soprasensibile, fa anche di più: inventa quel marchingegno infernale che è passata alla storia della filosofia come il “rasoio di Ockham”. La pluralità degli enti metafisici gli dà noia; non  arriva a dichiarare la svendita fallimentare di tutta la metafisica, però decide di attuare una ristrutturazione radicale, eliminandone quanti più enti possibili: merce avariata, buona per le teste dure e superstiziose dei monaci medievali. Ma cos’è il rasoio di Ockham, infine? Lo si può riassumere in queste due formule del nostro pensatore: Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, “si fa inutilmente con molto ciò che si può fare con poco”; e Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, “gli enti non si devono moltiplicare senza necessità.” Siccome noi moderni siamo tutti nipotini di Guglielmo di Ockham e viviamo immersi nel clima antimetafisico e nell’orizzonte immanentistico che sono tipici della modernità, questi concetti ci paiono delle perle di saggezza e siamo portati a vedere nel loro autore, o almeno così ci hanno suggerito i nostri professori di liceo, un simpatico precursore del pensiero moderno (il che rappresenta, di per se stesso, un pregio e una credenziale di nobiltà); tanto che ci sembra quasi impossibile che lui solo vedesse una cosa tanto semplice ed evidente, mentre nessuno  prima di lui ne era stato capace. Tuttavia, se si assume il punto di vista della filosofia classica, compresi Platone e Aristotele, ci si accorge che la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino. Il suo difetto fondamentale è di pretendere che la psicologia soggettiva possa riflettere l’ordine dell’universo. Se a me, singolo uomo, può sembrare una cosa utile non moltiplicare gli enti per non rendermi troppo difficile la comprensione del reale, chi mi dà il diritto d’inferire che il mondo segue il medesimo ordine dei miei pensieri, e che non contempla l’esistenza di enti non necessari? Ma chi stabilisce la necessità di un ente: l’uomo o Dio? Qui si va a toccare la radice irreligiosa della speculazione di Ockham, che egli peraltro sa ben dissimulare, forse perfino a se stesso. Infatti, è ben vero che il Nostro si premura di specificare che il suo “rasoio” si applica  solo alla ricerca speculativa e non all’universo creato da Dio: misera astuzia, che sa più di scappatoia formale che di coerenza logica. Siamo coerenti: se è inutile alla mente moltiplicare gli enti, è anche inutile a Dio crearli. Dire che non si devono moltiplicare gli enti, ma ciò solo sul piano concettuale e non sul piano ontologico, dopo aver ridotto la conoscenza ad esperienza, è un voler salvare capra e cavoli: una debolezza del pensiero, o un’ipocrisia. Se il reale è, per noi, solo ciò che di esso possiamo conoscere empiricamente e psicologicamente, ammettere che forse Dio ragiona in modo diverso, e consente l’esistenza di enti “necessari” che a noi, però, non sembrano tali, è mettere una foglia di fico sulla propria incredulità. Che cosa sia necessario, lo sa Dio; se pretende di deciderlo l’uomo, allora non solo la metafisica, ma anche la fede in Dio diventano inutili. Per salvare le apparenze, non resta che introdurre la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre: una cosa è quel che appare alla ragione umana, e un’altra cosa è la realtà in sé. Dopo Kant, degno successore di Ockham, non ci sarà più bisogno nemmeno di questa foglia di fico: la metafisica verrà messa fra parentesi e spostata in soffitta, dove non darà più fastidio a nessuno; e la filosofia sarà libera di procedere spedita, senza più anticaglie, remore e scrupoli di sorta nei confronti della Cosa in Sé – che, in ultima analisi, è l’Essere.

Anche oggi domina la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre!

Ma sentiamo quel che dice Guglielmo di Ockham, direttamente dalla sua bocca (da: Quodlibeta, II, q. 1; I,, q. 1; traduzione in: A.A. V.V., Galassia filosofia, Firenze, Casa Editrice Bulgarini, 2015, vol. 1, pp. 653-654):

Affermo in primo luogo che non può essere dimostrato dalla ragione naturale che Dio è causa efficiente immediata di tutte le cose. Sia perché non può essere sufficientemente dimostrato che altre cause, ad esempio i corpi celesti, non siano sufficienti a spiegare i molti effetti, e che, quindi, non si ponga invano una causa efficiente IMMEDIATA di essi. Sia perché, se si potesse dimostrare  con la ragione naturale che Dio è causa efficiente  di tutte le cose, e non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa efficiente di tutte le cose, e se non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa parziale necessaria, o insufficiente, del tutto, si potrebbe con uguale facilità dimostrare, con la ragione naturale, che è causa sufficiente di tutto, e allora le altre cause efficienti sarebbero poste inutilmente.

In secondo luogo affermo che non può dimostrarsi con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di alcun effetto, perché non può dimostrarsi in modo soddisfacente che esistono fenomeni effettibili che non siano quelli generabili e corruttibili le cui cause efficienti sono i corpi naturali inferiori e celesti; perché, non si può sufficientemente dimostrare che una qualunque sostanza separata o un qualunque corpo celeste è causato da una qualunque causa efficiente. Neppure si può dimostrativamente affermare che l’anima intellettiva (che è tutta in tutto, e tutta in ogni parte) sia causata da qualche efficiente, poiché non può dimostrarsi che tale anima si trova in noi. Da questo segue necessariamente che non si può dimostrare che Dio sia la causa MEDIATA di alcun effetto, perché se si potesse dimostrare che Dio è causa mediata di un effetto, si potrebbe dimostrare anche che è causa immediata di un altro nel genere della causa efficiente. Ma questa seconda tesi non si può dimostrare, perciò neppure la prima. Per cui si conclude che non può naturalmente dimostrarsi che Dio è causa efficiente totale o parziale di alcun effetto.

Taluni sostengono che è possibile perché – come detto nel libro XII della Metafisica (di Aristotele) – un solo mondo non può avere che un solo principe; ora, poiché si può dimostrare filosoficamente che c’è un mondo solo, come attesta Aristotele nel primo libro “Del cielo”, si può anche dimostrare filosoficamente che c’è un signore solo, ma tale Signore è Dio; dunque ecc.

Si può tuttavia opporre che un articolo di fede non è mai dimostrabile in modo evidente, e siccome la proposizione che vi è un solo Dio è un articolo di fede, quindi ecc. Accingendoci a risolvere tale questione, spiegherà innanzitutto che cosa si debba intendere con il termine “Dio”; risponderò, quindi, alla questione.

Quanto al primo punto dico che del termine “Dio” possiamo dare due diverse definizioni. La prima è questa: Dio qualcosa che supera ogni altra cosa diversa in eccellenza ed in perfezione. La seconda è questa: Dio è l’essere di cui non ne esiste uno migliore e più perfetto..

Quanto al secondo punto dico che, se prendiamo il termine “Dio” nella prima definizione, non possiamo dimostrare in via apodittica che esiste un solo Dio. La ragione è che non si può sapere in maniera evidente se Dio, inteso in tal modo, esista, e quindi non possiamo neppure sapere se Dio, inteso in tal senso, sia soltanto uno. La conseguenza è chiara. La premessa si dimostra così: la proposizione “Dio esiste” non è immediatamente evidente, poiché molti dubitano di essa; non si può neppure dedurre da premesse immediatamente evidenti, poiché ogni argomentazione implica qualcosa di dubbio o di accettare per fede; e non è neppur evidente per l’esperienza, come è chiaro.

Dico inoltre che se si potesse dimostrare in modo evidente l’esistenza di Dio – intendendo “Dio” nel senso indicato dalla prima definizione -, in tal caso si potrebbe anche dimostrare la sua unicità. Infatti, se esistessero due Dei A e B, A sarebbe, in base a quella definizione, un essere più perfetto di qualunque altro, e quindi anche più perfetto di B, e B meno perfetto di A. Nello stesso modo, tuttavia, anche B sarebbe, per definizione, più perfetto di A, e A di B; cosa che è evidentemente contraddittoria. Sicché, ove fosse possibile dimostrare in modo apodittico che Dio esiste nel senso della prima definizione, sarebbe pure possibile dimostrarne l’unicità.

In terzo luogo dico che non è dimostrabile l’unicità di Dio, se intendiamo Dio nel senso della seconda definizione. Però anche questa proposizione negativa – “non si può dimostrare con evidenza che esiste un solo Dio” – non può essere dimostrata a sua volta in modo apodittico; giacché è possibile dimostrare che l’unicità di Dio è indimostrabile solo confutando tutti gli argomenti contrari. Così come non è possibile dimostrare in modo apodittico che le stelle sono di numero pari, o che le persone divine sono tre. Né, tuttavia, si possono dimostrare in modo evidente le proposizioni negative: e cioè che non è possibile dimostrare che le stelle sono pari, e che in Dio vi sono tre Persone.

Dobbiamo però sapere che è possibile dimostrare l’esistenza di Dio se intendiamo “Dio” nel significato della seconda definizione. Altrimenti, infatti, si verificherebbe un processo all’infinito se tra tutti gli esseri ve ne fosse uno del quale non potesse darsene un altro anteriore o più perfetto. Da ciò, per altro, non consegue affatto che di tali esseri ne esista uno solo; noi lo teniamo solamente per fede.

Oggi la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.

Questa citazione, crediamo, era necessaria affinché il lettore possa farsi un’idea del modo di ragionare del Nostro. Senza entrare troppo nel merito  ci vorrebbe uno studio apposito – ci limitiamo a notare con quanto disinvoltura egli riduce le cose a nomi, a definizioni, sfuggendo continuamente al dovere di coerenza di trarre delle precise conclusioni da determinate premesse. La teologia, per lui, è ormai solo un guscio vuoto; un guscio dal quale ogni lumaca può andarsene a spasso per il mondo, nella direzione che più le pare e piace, lasciandosi dietro la sua lunga scia bavosa. Chi è Dio? Questo teologo, questo frate francescano, questo uomo di Dio, non lo sa più; riduce la domanda a una questione nominale, puramente accademica, e dà la risposta che darebbe un professore parlando di cose neutre e astratte: di Dio, dice, si possono dare due definizioni. Come, due definizioni? Ma chi è Dio, per lui? Chi è Dio, per la fede cattolica? Chi è Dio, per la ragione speculativa? Non si sa. Poi egli passa a esaminare le due definizioni, e arriva alla conclusione che nessuna delle due può essere dimostrata in maniera pienamente soddisfacente a lume di ragione. Quindi, conclude impassibile, non resta che appellarsi alla fede, il quale osa dire, davanti alla folla dei fedeli, che la morte di Gesù è una certezza della storia, mentre la sua resurrezione è un atto di fede. Complimenti vivissimi: questi falsi teologi e questi falsi preti sanno solo confondere le acque a un punto tale che il credente, ascoltandoli, non saprebbe più in cosa credere, e gli verrebbe il dubbio d’esser stato preso in giro, lui e i suoi avi, per un paio di migliaia d’anni. Quanto alla teologia, si direbbe che ormai serva solo a sollevare dubbi e a suscitare incredulità. Si noti come Guglielmo di Ockham adoperi la sua notevole dialettica scolastica solo per demolire la verità, mai per affermarla. La sua è un’intelligenza negativa: ama distruggere, non ama costruire. La fede è quella cosa che si crede; ma la ragione, eh, via, la ragione non conduce nella stessa direzione. Con la ragione non si possono dimostrare le cose della fede, neppure l’esistenza e l’unicità di Dio. E si noti con quanta disinvoltura egli fa appello, ma solo quando ciò rientra nella sua linea di pensiero, al senso comune: siccome, dice, non vi è consenso generale sull’esistenza di Dio, poiché molti la negano (nel XIV secolo!), allora bisogna rassegnarsi a considerare l’esistenza di Dio come una cosa tutta da vedere e tutta da chiarire. Come se, per un filosofo, il consenso della gente avesse il benché minimo valore di prova! Ma tutto questo è logico: una volta stabilito, come lui fa, che la realtà è ciò che appare a noi come evidente, è naturale dedurre che l’esistenza di Dio non rientra in tale categoria di enti, o, almeno, non vi rientra per la totalità degli esseri umani.

Dubbi ancora dubbi e sempre dubbi. La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham: dal suo psicologismo passando per Karl Rahner, siamo arrivati al sociologismo

Guglielmo di Ockham, dunque, riduce il discorso teologico a psicologismo e a nominalismo: al punto che era conosciuto, al suo tempo, come Princeps Nominalium, il principe dei nomi. È comodo, per un teologo, spostare la riflessione sul piano dei nomi, cioè delle parole e dei concetti; ci si può lavare le mani, come Ponzio Pilato, quanto agli enti, cioè quanto al reale. Inoltre, in tutto i casi, egli può sempre difendersi dietro il suo stesso nominalismo: Ma io stavo parlando solo del significato delle parole, non delle cose in se stesse!, dirà, con aria offesa, se qualcuno gli domandasse conto delle conseguenze devastanti della sua dottrina. Povera teologia, su quale strada rovinosa si è messa, a partire da Guglielmo di Ockham. Come stupirsi che sia arrivata alle presenti sconcezze e assurdità? L’aborto è un problema sociologico, e bisogna affrontarlo dal punto di vista della sociologia. Così, dallo psicologismo di Guglielmo di Ockham, passando per Karl Rahner,  Dubbi, ancora dubbi e sempre dubbi: la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.

18 Giugno 2013

PLATONE E LA RELIGIONE. LEZIONE MARZO 2020

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Noccioline #18 – PLATONE spiegato FACILE #ScuolaZoo

Platonismo e cristianesimo.

LEZIONE VIDEO DI Giacomo Campanile

Platone, figlio di Aristone del demo di Collito e di Perictione ( Atene, 428/427 a.C. – Atene, 348/347 a.C.), è stato un filosofo e scrittore greco antico. Assieme al suo maestro Socrate e al suo allievo Aristotele ha posto le basi del pensiero filosofico occidentale

Assai notevole fu l’influenza esercitata dal Platonismo sulla formazione della filosofia cristiana, i cui inizi sono paralleli al neoplatonismo; il Platonismo, per la sua apertura a tematiche religiose, fu avvertito dagli scrittori cristiani come la filosofia più vicina al cristianesimo: Giustino ne faceva il culmine del pensiero pagano per il richiamo alla contemplazione della realtà intelligibile; più in generale il concetto platonico di filosofia come purificazione, ritorno al mondo delle idee, assimilazione alla divinità, era ampiamente ripreso come indicazione di quello che anche per i cristiani deve essere la filosofia; del resto la stessa identificazione di filosofia e religione (εὐσέβεια), già maturata in ambiente medioplatonico, era fatta propria dai pensatori cristiani che identificavano la filosofia, come contemplazione – e possesso – di Dio, con la religione che professavano.

Ma al di là della generale concezione della filosofia, molti altri elementi della tradizione platonica erano fatti propri dalla speculazione cristiana dei primi secoli: il concetto di Dio come unità (Uno, monade) trascendente il molteplice (che da lui trae esistenza) e quindi, al di là di ogni distinzione categoriale, inconoscibile e indicibile (principio fondamentale della teologia negativa); il rapporto tra uno e molteplici, tra Dio e mondo scandito secondo il tema della ‘discesa’ e del ‘ritorno’, ritmo circolare in cui il molteplice discende dall’uno scalarmente, attraverso intermediari, per poi ripercorrere il cammino sino all’uno; in particolare, l’idea dell’anima che attinge Dio facendosi ‘una’, ‘semplice’, superando la dispersione del mondo sensibile e ogni distinzione razionale per cogliere l’Uno con un atto che supera l’intelletto.

In questa visione della realtà come processo dell’Uno si tenta di inserire anche la dottrina trinitaria: se facile era l’accostamento tra l’Uno e Dio padre, e tra il νοῦς o λόγος e Verbo figlio di Dio (non senza correre il rischio di farne un’ipostasi inferiore all’uno), più difficile, e pure tentata, fu l’assimilazione dell’anima del mondo con lo Spirito Santo; comunque, anche al di fuori di questi diretti accostamenti, la terminologia platonica è stata largamente utilizzata nell’elaborazione della dottrina teologica cristiana.

In antropologia risulta decisiva l’influenza del dualismo platonico anima-corpo che garantisce l’immortalità dell’anima: quindi autonomia e spiritualità dell’anima, suo stretto legame con il mondo intelligibile e divino della cui natura l’anima partecipa (anche, in alcuni autori cristiani, preesistenza dell’anima e ‘discesa’ nei corpi), in contrapposizione al regno della materia e quindi al corpo inteso come ‘carcere’ del quale ci si deve liberare per ritornare a Dio e riconquistare la propria vera natura (tema in cui anche il conoscere è un processo di liberazione dalle condizioni della materialità).

Sono posizioni che facilmente si incontravano con prospettive etiche e ascetiche del cristianesimo e che anche più profondamente operarono in certe tendenze gnostiche e docetistiche. In generale tutti i temi accennati, che non esauriscono affatto la vasta gamma delle suggestioni platoniche, ebbero una diversa e varia influenza sulla cultura cristiana dei primi secoli, ora agendo in profondità così da conferire un’impronta decisamente platonica alla speculazione cristiana (a prescindere dalle tendenze gnostiche e docetistiche cui si è fatto cenno, poi emarginate, uno degli esempi più cospicui è offerto dal pensiero dello pseudo-Dionigi Areopagita; ma influenze decisive operarono più spesso in precisi settori della speculazione cristiana come quello della dottrina dell’anima, della tematica Dio-Bene-Uno, della teologia negativa, ecc.), ora restando più in superficie, soprattutto a livello di prestiti lessicali o di temi isolati.

Tra i maggiori rappresentanti del p. cristiano dei primi secoli si collocano anzitutto i Padri alessandrini (Clemente e Origene), quindi i Padri cappadoci come Eusebio, Metodio d’Olimpo, Gregorio Nazianzeno, Gregorio di Nissa, Basilio, Evagrio e ancora Teodoreto di Ciro, Nemesio, l’autore del Corpus areopagiticum (o dionysianum). Tra i latini Agostino è l’autore che ha assorbito e utilizzato maggiormente motivi neoplatonici (soprattutto attraverso la lettura di alcune delle Enneadi), convinto della vicinanza tra Platonismo e cristianesimo (egli diceva di ritrovare nei platonici gran parte degli insegnamenti del prologo del Vangelo di Giovanni, ma non la dottrina dell’incarnazione; e moltissimi sono i temi platonici ripresi, come la dottrina dell’anima e dell’illuminazione, la nozione della materia come prope nihil, ecc.: ➔ Agostino). Attraverso l’opera di Agostino il Platonismo ha operato profondamente sulla successiva speculazione cristiana con una serie di temi che vengono trasmessi già cristianizzati e quindi non sempre avvertiti come platonici. Cospicua risulta anche l’influenza del tardo neoplatonismo greco su Boezio, soprattutto dei commentatori di Aristotele come Ammonio, dai quali derivava anche l’ideale di una concordia da realizzare tra Platone e Aristotele, sicché lo stesso Boezio diventerà un tramite di dottrine platoniche al Medioevo.

Risultato immagini per platone VITA

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22 Luglio 2012

Pitagora e la religione. Lezione ottobre 2020

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Pitagora (in greco antico: Πυθαγόρας, Pythagóras; Samo, tra il 580 a.C. e il 570 a.C. – Metaponto, 495 a.C. circa) è stato un filosofo greco. Fu matematico, taumaturgo, astronomo, scienziato, politico e fondatore a Crotone di una delle più importanti scuole di pensiero dell’umanità, che prese da lui stesso il nome: la Scuola pitagorica.

Il suo pensiero ha avuto enorme importanza per lo sviluppo della scienza occidentale, perché ha intuito per primo l’efficacia della matematica per descrivere il mondo[1]. Le sue dottrine segnerebbero la nascita di una riflessione improntata all’amore per la conoscenza. La scuola a lui intitolata fu il crogiolo nel cui ambito si svilupparono molte conoscenze, in particolare quelle matematiche e le sue applicazioni come il noto teorema di Pitagora.

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I misteri orfici e la scuola pitagorica.  La dottrina dell'anima di Pitagora è ispirata alla religione misterica orfica (Orfismo)  Per approfondire. - ppt scaricare

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FILOSOFIA: I PITAGORICI E LA CONCEZIONE MATEMATICA DELLA NATURA

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Il filo di Arianna. Rivista on line per la didattica nelle scuole superiori (ISSN 2036-8458) - I Pitagorici

24 Maggio 2012

Beato Gioacchino da Fiore Abate cistercense 30 marzo

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Gioacchino da Fiore - VIAGGIO ITALIANO

Celico, Cosenza, 1130 c. – Fiore, Cosenza, 30 marzo 1202

Il 30 marzo del 1202 muore nell’eremo calabrese di San Martino a Petrafitta Gioacchino da Fiore, monaco cistercense e poi fondatore dell’Ordine florense. Gioacchino nacque a Celico, in Calabria, attorno al 1130. A circa trent’anni, abbandonò la propria professione e si recò in Terra Santa, dove iniziò ad approfondire quell’amore per le Scritture che non l’avrebbe mai più abbandonato.

Ritornato in patria, dopo un periodo da eremita egli entrò dai cistercensi di Corazzo, di cui divenne abate nel 1177. Presto, però, Gioacchino si convinse dell’inadeguatezza del monachesimo tradizionale di fronte alla crisi che attraversavano allora il mondo civile e quello ecclesiale. Egli diede perciò vita, con alcuni compagni e con la protezione degli imperatori normanni di Sicilia, a un nuovo ordine, a partire dal monastero di San Giovanni in Fiore.

Osteggiato dai cistercensi, che si sentivano traditi dall’abate calabrese, ma difeso da papi e imperatori, Gioacchino morì nell’eremo dove aveva deciso di trascorrere i suoi ultimi giorni, dopo aver lasciato un tesoro inestimabile e particolarmente originale di commentari biblici. Testimone di una radicale povertà evangelica, predicatore di una chiesa umile e «serva del Signore» in mezzo alla violenza delle crociate, Gioacchino passò alla storia per la sua teologia dall’ampio respiro trinitario, e soprattutto per le sue profezie sull’imminente «epoca dello Spirito», che ispireranno molti movimenti di riforma religiosa nel XIII secolo.

Gioacchino da Fiore nacque a Célico (Cosenza) intorno al 1130, da un’umile famiglia d’agricoltori o, secondo altri, da un notaio. Dopo aver visitato la Palestina, si fece frate cistercense e in seguito fu nominato abate.

Tra i vari monasteri di cui fu ospite si ricorda l’abbazia di Casamari. In seguito ad una crisi spirituale, abbandonò l’ordine e dopo un periodo di eremitaggio fondò la congregazione florense, che prende titolo dal monastero di san Giovanni in Fiore, sulla Sila, dove ebbe sede, e che nel 1570 confluì nell’ordine dei cistercensi.

Gioacchino morì intorno al 1202, secondo alcuni a Pietralta o Petrafitta, secondo altri a Corazzo o S. Martino di Canale o S. Giovanni in Fiore. La sua morte avvenne quando san Francesco, nella malattia della prigionia a Perugia, concepiva i primi germi della conversione tutta basata sul principio di povertà.

A Gioacchino è attribuita la predizione degli ordini francescano e domenicano, nonché dei colori dei relativi abiti. Nell’ordine francescano si videro praticamente realizzate le aspettative di Gioacchino; e i francescani rigorosi (veri e propri gioachimiti) si dissero “spirituali” con tipico termine gioachimita dedotto dalla profezia relativa alla Terza Età, da lui detta “dello Spirito Santo”, un’Età di rigenerazione della Chiesa e della società, col ritorno alla primigenia povertà e umiltà.

Gioacchino da Fiore può essere definito monaco, abate, teologo, esegeta, apologeta, pensatore, riformatore, mistico, filosofo, veggente, asceta, profeta.

Da un lato scriveva e predicava, dall’altro si macerava in incredibili penitenze. Nel 1215 il Concilio Lateranense IV condannò una sua opinione relativa al teologo Pietro Lombardo, ma salvaguardò la persona di Gioacchino, perché egli aveva ribadito più volte la sua adesione alla dottrina cattolica e aveva chiesto d’essere corretto dai suoi confratelli o dalla Chiesa stessa, ordinando che tutti i suoi scritti venissero sottoposti al vaglio della S. Sede e dichiarando di ritenere validi solo quelli che la Chiesa stessa avrebbe approvato.

Fra le sue opere è molto importante il Liber figurarum, in cui egli spiega la dottrina cattolica per mezzo di figure simboliche (due delle quali — quella del drago a sette teste e quella dei tre cerchi trinitari — sono presentate in questo sito, accanto alla miniatura di Gioacchino con l’aureola di santo presente nel manoscritto Chigi A.VIII.231 della biblioteca vaticana). Tale Liber è notevole anche dal punto di vista artistico: lo stesso Gioacchino, infatti, fu ritenuto bravo pittore, tanto che sono attribuite a lui l’ideazione e la realizzazione dei mosaici della basilica veneziana di S. Marco.

Subito dopo la sua morte, la vox populi lo proclamò santo e i seguaci inviarono alla S. Sede la documentazione dei numerosi miracoli, ora ripubblicati da Antonio Maria Adorisio. Ciò al fine d’avviare il processo di canonizzazione.
Se da una parte la memoria della santità di Gioacchino fu inquinata da errate interpretazioni della sua dottrina, dovute sia ad avversari sia a seguaci troppo zelanti, nonché dall’attribuzione a lui di false profezie ed opinioni teologiche, dall’altra il papa Onorio III con una bolla del 1220 lo dichiarò perfettamente cattolico e ordinò che questa sentenza fosse divulgata nelle chiese.

Il fervido culto popolare di Gioacchino da Fiore si diffuse presto a largo raggio. Dante Alighieri lo collocò fra i beati sapienti con queste parole: “E lucemi da lato / il calabrese abate Gioacchino / di spirito profetico dotato” (Par. XII). Inoltre Gioacchino è presentato col titolo di beato negli Acta Sanctorum compilati e pubblicati dai gesuiti bollandisti nel 1688, nonché in dizionari ed enciclopedie varie.

E nel rituale dei monaci florensi esisteva la messa in onore del beato Gioacchino che veniva celebrata il 30 marzo (giorno della sua morte), il 29 maggio e in altre occasioni, come pure esisteva un’antifona dei vespri in cui si esaltava il suo spirito profetico (frase poi tradotta da Dante nella Divina Commedia). Ciò ha fatto sì che — a quanto scrivono Emidio De Felice e Orietta Sala nei loro dizionari d’onomastica — si deve al suo carisma la diffusione in Italia del nome personale Gioacchino.
Le sue spoglie — di cui recentemente è stata fatta una ricognizione — si trovano nella cripta dell’abbazia di S. Giovanni in Fiore, comune che ha preso il nome proprio da tale abbazia. Nel 2001 l’arcivescovo di Cosenza-Bisignano mons. Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione per portare presto Gioacchino da Fiore alla piena gloria degli altari e — si ritiene — anche al titolo di “dottore della Chiesa”.

Il gioachimismo cattolico ha avuto un impetuoso risveglio soprattutto col Concilio Vaticano II. Ha fatto leva su Giovanni XXIII e la sua invocazione di «una nuova Pentecoste». Ha contrapposto lo «spirito» del Concilio alla sua «lettera». Ha predicato una nuova Chiesa «spirituale» al posto di quella vecchia «carnale». Soprattutto le correnti progressiste della Chiesa hanno innalzato questo stendardo. Anche il mito della «Chiesa dei poveri» lanciato dal cardinale Giacomo Lercaro e dal suo teologo don Giuseppe Dossetti rimanda a Gioacchino da Fiore, ai fraticelli e a Celestino V, il papa mistico che, unico caso nella storia, rinunciò alle somme chiavi.

Il grande teologo gesuita e poi cardinale Henri De Lubac dedicò negli anni Settanta all´influsso del monaco calabrese due volumi di più di mille pagine, intitolati “La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore”. Il primo è oggi esaurito. Ma il secondo, “Da Saint-Simon ai nostri giorni”, edito da Jaca Book, è ancora disponibile in libreria.

In esso, De Lubac dedica pagine acute all´impronta gioachimita sul pensiero hegeliano e marxista, ma anche su Lamennais, sul messianismo polacco di un Adam Mickiewicz, sui grandi autori russi. Il capitolo conclusivo, purtroppo incompiuto, ha per titolo “Neogioachimismi contemporanei”. De Lubac vi scrive:

«Il “cancro” denunciato dal Concilio provinciale di Arles nel 1262 era una semplice dottrina fantasiosa, una corrente marginale, episodio effimero nella storia cristiana, o al contrario un fenomeno di straordinaria portata, dal seguito incalcolabile? La risposta non appare dubbia. […] Il gioachimismo non è solo riconoscibile in contesti completamente secolarizzati. Esso ispira, come forza ancor viva, movimenti spirituali che non vogliono uscire dai confini del cristianesimo. […] Nella seconda parte del secolo XX assistiamo al suo risveglio nel cuore stesso della Chiesa. Sembra perfino volervi effettuare un ritorno in forze.

Però, rispetto allo stesso Gioacchino, i suoi odierni araldi non annunciano lo sboccio dello Spirito per l´indomani; lo vedono e lo dicono già presente in loro; essi ne sono gli organi. Forse più di Gioacchino, accentuano la cesura tra la Chiesa proveniente dal passato, dichiarata ormai invecchiata, e quella del futuro, che sorge oggi stesso in qualche luogo privilegiato, raggiante di giovinezza. […] Si osserva alla base una concezione lineare del tempo, che crede di non poter accogliere nulla di nuovo se non attraverso il rifiuto dell´antico».

A riprova di questi suoi giudizi, De Lubac cita di passaggio autori «dottrinalmente inoffensivi» come Mario Pomilio con il suo “Il quinto evangelio” e Ignazio Silone «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di gioachimismo».

Ma dedica spazio soprattutto ai teorici della «morte di Dio» e ai teologi della liberazione, da Jean Comblin a Giulio Girardi a Leonardo Boff. Nei quali De Lubac rinviene un gioachimismo senz´altro condannabile, ma anche talmente «confuso» da permettere loro «di sfuggire all´eterodossia cristiana».

E ancora. Tra i grandi teologi imbevuti di gioachimismo, De Lubac prende di mira il gesuita Michel de Certeau e il protestante Jurgen Moltmann, «la cui “Teologia della speranza” riprende per cristianizzarle, ma senza riuscirvi molto bene, le concezioni escatologiche di Ernst Bloch» .

Il capitolo si interrompe sul limitare del primo dopoconcilio, quando «sboccia tutta una fioritura di apostoli dello Spirito al sole della Chiesa, di una Chiesa al tramonto che deve far posto a quella del domani, […] una nuova Chiesa in cui l´amore deve “prendere il posto della legge”».

Avesse proseguito, c’è da scommettere che De Lubac avrebbe incluso nella sua critica Giuseppe Dossetti e il dossettismo. Ossia la corrente intellettuale dominante nel cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX.

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Il libro da rileggere:

Henri de Lubac, “La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore. II. Da Saint-Simon ai nostri giorni”, > Jaca Book, Milano, 1984, pagine 548.

10 Marzo 2011

“Glebalizzazione” il filosofo Diego Fusaro denuncia l’attuale ordine capitalista economico-finanziario, indicando anche le vie dell’emancipazione alla plebe precarizzata, alienata e reificata a vita

Filed under: FILOSOFIA — giacomo.campanile @ 10:00

 

 

Il caso Fusaro, così un marxista diventò maestro per la destra radicale -  Secolo d'ItaliaNel suo “Glebalizzazione” (Rizzoli) il filosofo Diego Fusaro denuncia l’attuale ordine capitalista economico-finanziario, indicando anche le vie dell’emancipazione alla plebe precarizzata, alienata e reificata a vita

Per le anime belle, pure e semplici che non se ne fossero accorte: dal 1989, con la caduta dei regimi comunisti, sono tornati feudatari e servi della gleba. Oggi i primi sono costituiti da una casta di “Signori” capitalisti e globalisti, i secondi da una massa enorme e abbruttita di lavoratori atomizzati, sfruttati e precari in miserabile competizione con gli immigrati forzati. Una moltitudine alienata, priva di coscienza sociale e di classe, di strumenti ideali e politici per rivoltarsi contro un ordine disumano.

Da questa realtà che, a meno che non ci si volti da un’altra parte, abbiamo tutti sotto gli occhi, parte l’analisi del filosofo Diego Fusaro nel suo nuovo libro Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo (Rizzoli, Milano 2019, pp. 322, € 18,00). Ma, per iniziare la battaglia sociale contro l’attuale situazione mondiale, occorre elaborare un lessico condiviso e nuove mappe concettuali, giacché lo straordinario potere capitalista ha inglobato dentro di sé il vecchio linguaggio antagonista, neutralizzandolo all’interno del “politicamente corretto” («il nuovo ordine mentale»). Non a caso, sono proprio le vecchie sinistre, ora rosso-fucsia (insieme a intellettuali, artisti, giornalisti, magistrati, star dello spettacolo, accademici e insegnanti), tra i migliori alleati dei potenti del mondo odierno, anche propagandando l’idea che esso sia inevitabile, desiderabile e, comunque, l’unico possibile. Del resto, per vedere “il re nudo”, sarebbe sufficiente chiamare le cose col proprio nome, definire la realtà per quella che è, sfuggendo a eufemismi e trappole neolinguistiche. Ed evitando quelle contrapposizioni orizzontali (donne/uomini, giovani/vecchi, nativi/immigrati, bianchi/neri, etero/gay; per non dire destra/sinistra, che non esistono più secondo i vecchi schemi) che fanno comodo al Potere perché fanno deviare dall’unica lotta vera, che è quella alto/basso, schiavitù/libertà, conformismo/emancipazione, precarietà/lavoro dignitoso.

Invece, i “Signori” odierni hanno imposto l’idea assolutistica del libero spostamento di persone, merci, idee, tecnologie, ecc., della flessibilità (ovvero precarietà a vita dei lavoratori), della privatizzazione, usando il ricatto del debito (pubblico e privato), della delocalizzazione, dell’outsourcing, dell’immigrazione forzata. Per il turbocapitalismo i nemici da abbattere sono innanzi tutto gli Stati nazionali (e le loro monete), da sostituire con organismi sovranazionali finanziari non eletti e antidemocratici (Organizzazione mondiale del commercio, Banca mondiale, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale, ecc.); ma pure le altre forme comunitarie intermedie (sindacati, chiese, libera scuola statale, famiglie, ecc.), nonché la cultura classica, l’unica a insegnare a impiegare il pensiero critico.

Abbattuti i baluardi della democrazia, della convivenza civile, della comunità, nonché delle differenze culturali e linguistiche, ne consegue che vengano anche meno il welfare state, i diritti sociali e dei lavoratori. Gli sconfitti del nuovo ordine imperialcapitalista sono non solo operai e proletari, ma anche la classe media e la piccola borghesia (si vedano i licenziamenti in massa di bancari e lavoratori del terziario e la loro precarizzazione). L’ideologia che si impone loro per far accettare una condizione umiliante e disumana consiste nel far credere che si viva ancora in regimi democratici, minacciati, per di più, da fascismi inesistenti, nel superamento del radicamento e di ogni forma comunitaria, nella divinizzazione della Rete e dei connessi social, nell’edonismo, nel nomadismo Erasmus, nei “cosmetici” diritti arcobaleno, nell’indifferenziazione e nella massificazione, nell’assecondamento individualistico dei desideri transitori, nel consumismo nichilistico (compreso quello del sesso), nella liberalizzazione delle droghe, nel sostenere movimenti di protesta che sviano dalle vere cause del conflitto e dal vero nemico (alcune incarnazioni sono l’ambientalismo generico e unidirezionale di Greta Thunberg, l’accoglientismo ben finanziato delle ong di Carola Rackete o le insulse sardine), massacrando al contempo le vere contestazioni come quelle dei gilet gialli.

Si confonde l’internazionalismo con lo scialbo e impossibile cosmopolitismo, si demonizzano Stati, sovranità, popolo, culture nazionali, frontiere («il confine come frontiera e come limite non nega il transito, ma evita le invasioni»). Al contrario, sono proprio questi l’unico baluardo al capitalismo globale, con le sue conseguenze mortali e fatali: «polarizzazione della distribuzione della ricchezza», «impiego irrazionale delle risorse del pianeta», «dissesto ecologico», «dominio di un direttorio di potenze industriali», «peggioramento generale delle classi lavoratrici», «svuotamento delle democrazie nazionali a beneficio del mercato sovranazionale». Ma, per fortuna, il polo dominato, non ancora del tutto istupidito, impermeabile al nuovo ordine mentale proprio perché meno “colto” (in senso positivo: non integrato/corrotto nel pensiero unico), diffida della mondializzazione, del globalismo, dell’Unione europea, dell’immigrazione, e crede nell’intervento egualitario dello Stato, nei valori e nei principi costituzionali, nella nazione, nonché nelle tradizioni, da quella linguistica a quelle gastronomiche.

È il popolo, dileggiato dal Potere, politico, economico, culturale, come retrogrado, ignorante, arretrato. Tant’è che il termine populismo è divenuto, insieme a quello di sovranismo, una sorta di insulto. Invece, il sovranismo, inteso come difesa delle prerogative dello stato sociale indipendente e attento ai propri cittadini, e non certo come nazionalismo aggressivo verso gli altri Stati, costituisce l’unica possibile arma di difesa del popolo sfruttato e precarizzato. Il sovranismo può divenire solidale internazionalismo a fronte di un falso cosmopolitismo («il capitale è, per sua essenza, apolide e deterritorializzato»): «Non si può amare l’universale umano se non, concretamente, amando quella parte di umanità con cui si è quotidianamente in relazione, ossia la propria comunità d’appartenenza. […] amare, in astratto, l’umanità significa, in concreto, non amare nessuno e, insieme, accettare le ingiustizie che si abbattono su chi sta intorno a noi. […] l’essenza del falso umanesimo terzomondista [è] che ama l’altro che è distante e odia il prossimo che è vicino». Aggiunge Fusaro: «Si è umani nella misura in cui si è parte di una delle culture di cui si compone storicamente l’umanità».

Attraverso una giusta evoluzione in senso socialista del populismo e del sovranismo attuali, vanno recuperati i valori di patria, Stato, nazione, solidarietà, lotta di classe, ricordando che, accanto a tante storture, essi hanno permesso la nascita del welfare state, liberando gli uomini dall’angoscia della miseria attraverso una legislazione sociale che ha garantito assistenza in caso di disoccupazione, alloggi, scuola, sanità, trasporti, ecc. Per sottacere il fatto che è stata proprio la costruzione dello Stato-nazione a «oltrepassare le identità individuali (religiose, ideologiche, etniche) e porre in essere la figura di un’identità collettiva» basata sulla cittadinanza. In conclusione, solo dal recupero della sovranità statuale nazionale (compresa quella monetaria) e dalla lotta di classe di un popolo riappropriatosi culturalmente della visione vera e non edulcorata o falsata della realtà che potrà riavviarsi la storia dell’emancipazione umana contro il mostro neocapitalista. Perché nella dialettica storica niente è fatale e nulla è immutabile.

25 Febbraio 2008

Dioniso. Una delle grandi divinità dell’Olimpo greco.

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Cronache dal mito – Dioniso, estasi e follia

LEZIONE VIDEO DI Giacomo Campanile

Dioniso. Una delle grandi divinità dell’Olimpo greco.

Nacque da Zeus e da Semele, figlia di Cadmo. Si narrava che questa, per volontà sua o per fraudolento consiglio di Era, avesse chiesto a Zeus di apparirle in tutto il suo splendore, ma rimase incenerita dalla visione del fulmine di Zeus. D., che era ancora nel grembo materno, fu salvato dal rogo grazie al padre che lo cucì dentro la sua coscia, da cui nacque dopo una seconda gestazione divina. Fu quindi affidato alle cure di Ino, sorella di Semele; dopo che questa impazzì, fu cresciuto dalle ninfe del Monte Nisa. Avendo viaggiato in Egitto e Siria, giunse in Frigia presso la dea Cibele, dalla quale apprese quelle danze che divennero parte integrante dei suoi riti, gli orgia.

Dopo avere diffuso la conoscenza dei suoi riti dalla Tracia all’India, giunse a Tebe, città di sua madre dove si fece riconoscere come dio e celebrò gli orgia per la prima volta in terra greca. Il re tebano Penteo gli negò ospitalità ma ne rimase infine vittima, ucciso dalla madre Agave, resa folle dal dio. D. mostrò la sua identità divina anche agli Argivi e sulla nave che lo portava a Nasso. Condusse infine Semele fuori dagli Inferi e con lei prese dimora sull’Olimpo. A Nasso sposò Arianna. 

La teoria di una origine traco-frigia del dio e del suo affermarsi in Grecia in epoca post-omerica è stata contraddetta dalla lettura del suo nome di-wo-nu-so-jo (genitivo) in due tavolette rinvenute a Pilo. D. era considerato l’inventore della vite, del melo, del vino, della birra; gli si attribuiva, inoltre, la crescita e il rinnovarsi della vita dei fiori e degli alberi. Il vino, da lui donato agli uomini, era per i Greci la bevanda che faceva dimenticare gli affanni, che creava gioia nei banchetti, che induceva al canto, all’amore, nonché alla follia e alla violenza e che, nel sacrificio, era strumento di mediazione tra uomini e dei.

Le sue epifanie erano caratterizzate dal polimorfismo: era toro, leone, serpente, capretto, barbaro e greco, giovane e vecchio, femmineo nel vestire e nei capelli fluenti.

D. era invocato nei riti perché rinnovasse il ciclo della vita vegetale, tornasse a far scorrere il vino e, rendendosi personalmente presente tra gli uomini, li possedesse con la sua mania e offrisse loro la possibilità di oltrepassare ritualmente il limite della loro condizione e di avere un contatto più stretto con il divino.

Le più importanti feste in onore di D. erano le piccole Dionisie o Dionisie rurali, in campagna nel mese di posideone; le Dionisie urbane o Lenee, in Atene, nel mese di gamelione, con rappresentazioni drammatiche e processioni; le Antesterie, al principio della primavera (11-13 antesterione), feste della svinatura; le grandi Dionisie, le più importanti, nel mese di elafebolione, con processioni, gare ditirambiche e drammatiche. 

All’inizio del 2° sec. a.C. i misteri di D. penetrarono in Italia con il loro carattere orgiastico; il senato romano nel 186 a.C. proibì i Baccanali, ma nella religione mistica D. ebbe sempre grande importanza fino all’età imperiale.

Jacques Maritain (Parigi, 18 novembre 1882 – Tolosa, 28 aprile 1973) è stato un filosofo francese,

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Filosofo francese (Parigi 1882 – Tolosa 1973), di famiglia protestante, condivise il socialismo radicale di Ch. Péguy, di cui fu amico. Importante per M. fu l’incontro con L. Bloy, in un momento di crisi intellettuale, dalla quale uscì convertendosi al cattolicesimo (1905).

Convinto della possibilità di una reviviscenza del pensiero tomista nel mondo moderno, M. contribuì con padre P. Mandonnet a fondare nel 1924 la Société thomiste e cercò di provare l’attualità e la fecondità dei principî del tomismo, sciolti dal corpo dell’enciclopedia medievale e collegati con problemi e temi del pensiero moderno (La philosophie bergsonienne, 1913; Trois Réformateurs, 1925; Le songe de Descartes, 1932; Les degrés du savoir, 1932; Sept leçons sur l’être, 1934; Quatre essais sur l’esprit dans sa condition charnelle, 1939).

Per il largo pubblico M. è soprattutto l’autore di La primauté du spirituel (1927) sui rapporti tra Chiesa e Stato, uscito nel momento della crisi dell’Action Française, e di Humanisme intégral (1936) sulla possibilità di una società liberale e democratica, eppure cristianamente ispirata: poiché per M. liberalismo e democrazia sono i risultati di un faticoso svolgimento impensabile senza il fermento del Vangelo che ha continuato a operare anche nella storia dell’umanesimo moderno antropocentrico. Discorso poi continuato in altre opere (Les droits de l’homme et la loi naturelle 1942; Christianisme et démocratie, 1943; La personne et le bien commun, 1947; Man and the state, 1951) e che, soprattutto nella forma di un attacco alla tesi di Humanisme intégral, avrebbe suscitato una violenta polemica (1956) da parte di correnti integraliste del cattolicesimo italiano.

Dopo aver partecipato al movimento francese per la resistenza, fu ambasciatore di Francia presso la Santa Sede (1945-48) e professore all’univ. di Princeton dal 1948 al 1960. Da allora visse a Rangueil, presso Tolosa, nel convento dei Petits Frères de Jésus, del p. Charles-Eugène de Foucauld, nel cui ordine era entrato nel dicembre 1971. Con Creative intuition in art and poetry (1953), M. ha arricchito il suo contributo alla delineazione di un’estetica tomistica, ritornando sui temi di Art et scolastique (1920). Del 1965 è il libro di ricordi Carnets de notes, e del 1966 Le paysan de la Garonne, dove in un’analisi dei fenomeni più importanti del mondo cattolico postconciliare M. ribadisce, con una polemica spesso accorata, la necessità di un ritorno al pensiero di Tommaso d’Aquino, e al tempo stesso si dimostra essenzialmente fedele alla propria tesi dei piani autonomi e interdipendenti, cioè al rifiuto di ogni civiltà “sacrale” e alla relativa libertà per il cattolico sul piano dell’azione temporale.

DOMANDE:

COSA SIGNIFICA EVANGELIZZARE?

ESISTE UN DIRITTO ALL’EVANGELIZZAZIONE’

PERCHE’ BISOGNA EVANGELIZZARE?

L’AMORE DI CRISTO COSA CI INDUCE?

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