15 Aprile 2015

Marsìlio da Padova

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Rettore dell’Università di Parigi, nel 1324 pubblica il Defensor Pacis. presupposto: la teoria aristotelica dell’uomo come animale sociale. lo Stato ha il suo fondamento nel consenso popolare. il sovrano dev’essere eletto dal popolo; il papa deve essere eletto dal concilio.

Politico e teologo (n. Padova tra il 1275 e il 1280 – m. Monaco di Baviera tra il 1342 e il 1343), figlio di Bonmatteo dei Mainardini, notaio dell’università di Padova. Svolse studî di medicina a Padova, in un ambiente dominato dalla figura di Pietro d’Abano, conseguendo il dottorato. Recatosi a Parigi, si iscrisse alla facoltà delle Arti divenendone maestro e in seguito rettore (1313). Qui scrisse l’opera sua maggiore, il Defensor pacis (1324), e strinse rapporti con i maestri averroisti, in particolare con Giovanni di Jandun. Venne altresì in contatto con la dottrina della povertà evangelica sostenuta dagli Spirituali francescani, alcuni dei quali, come Guglielmo di Occam, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo, trovarono rifugio alla corte dell’imperatore Ludovico, dove, dopo la condanna pontificia del Defensor pacis, anch’egli riparerà. Nella sua opera M. intende svolgere un’analisi razionale della natura del potere politico, considerando non le varie forme di governo (come Aristotele nella Politica), ma le strutture stesse dell’organizzazione politica, il legislatore, la legge, il governo. La “totalità dei cittadini” (universitas civium) è la fonte unica della legge (legislator); il governo è l’espressione della totalità dei cittadini che lo elegge e ne controlla gli atti. Il governo quindi non è fonte di diritto, ma è sottoposto alla collettività. La legge, peraltro, non trae la sua forza da un principio naturale o divino, ma esclusivamente dalla volontà dei cittadini o nella loro totalità, dai sapienti agli artigiani, o nella “parte più valente” (valentior pars), lasciando fuori chi per natura è incapace di deliberare. In questa prospettiva, certamente originale, la legge trae valore dal suo essere tale, legge positiva, espressione di una volontà collettiva, imposta per il “bene vivere” della collettività. Il corpo politico è autonomo nell’imporre la legge, nettamente distinto dalla Chiesa, collettività dei fedeli che non può esercitare alcun potere positivo, (contro la tesi canonistica della “pienezza dei poteri” del pontefice), né può possedere beni terreni (secondo quanto insegnavano i maestri francescani vicini a M.). La Chiesa è la “totalità dei fedeli” (universitas fidelium) e ad essa spettano il controllo sull’autorità ecclesiastica, l’elezione dei sacerdoti e del papa (attraverso il concilio cui anche i laici devono prendere parte). Così radicalmente distinti, Chiesa e Stato sono autonomi nelle loro sfere: alla Chiesa spetta il compito di ammaestrare, ma non di scomunicare; allo Stato o Impero quello di esercitare il potere politico nella persona dell’imperatore; all’imperatore compete anche il supremo controllo sulla conformità degli atti papali alle decisioni conciliari e alla fede. Di queste sue teorie M. tentò anche una pratica realizzazione allorché, sceso in Italia al seguito di Ludovico il Bavaro nel 1327, organizzò la cerimonia dell’11 gennaio 1328 in cui l’imperatore ricevette le insegne del potere dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo romano; e ancora quando ispirò i documenti imperiali che dichiaravano deposto Giovanni XXII e nominavano l’antipapa Niccolò V. Tornato in Germania, M. compose anche il De iurisdictione imperatoris in causis matrimonialibus, poi rifuso nel Defensor minor (1342), e il De traslatione imperii.

 

MARSILIO DA PADOVA: PENSIERO
 Marsilio da Padova, rettore dell’università di Parigi e monaco, si trova nella capitale del regno Capetingio quando si sviluppa la lotta tra Filippo IV detto “il Bello” e Papa Bonifacio VIII.

Testimone di questo scontro lo vede parte di un vivace contesto culturale in cui si muoveva, la vita culturale dell’Accademia parigina. Egli scrisse “Defensor Pacis” che lo renderà talmente noto da favorire la sua ascesa come consigliere politico di Ludovico Il Bavaro, Imperatore del Sacro Romano Impero del Regno della Germania. Marsilio lo accompagnò a Roma nel 1327 nella sua incoronazione che avvenne ad opera del popolo romano anziché per rito pontificio.
La legittimità della sovranità non arriva dal Papa ma dal popolo.
Marsilio propagandava la necessità di un impero laico che avrebbe portato alla diffusione di una laicizzazione generale.
Tanto è vero che nel 1356 verrà emanata la Bolla d’Oro che stabilì che l’imperatore doveva essere eletto da un Concilio che metteva insieme laici e uomini religiosi (4 sono principi laici, anche se ispirati religiosamente,e 3 sono Arcivescovi).

CONCEZIONE POLITICA MARSILIO DA PADOVA
 Marsilio arriva a dire che tutto quanto non è dimostrabile per mezzo della ragione non è politico. Il politico è autonomo da un giudizio morale.
Con Marsilio, a differenza di quanto aveva detto Tommaso d’Aquino (in cui ordine naturale e spirituale sono in una dimensione parallela e complementare) vi è un’assoluta separatezza. tra ordine naturale e ordine spirituale.
La comunità dei cittadini ha la sovranità, civis è la civitas, la cittadinanza quale unica fonte legittima della legge. Il potere legislativo spetta al popolo.
Il Governo, di conseguenza, ha una delega da parte del popolo ma se chi governa lo fa in modo improprio non ha l’autorità per mantenere quel ruolo. Se ben governi mantieni il ruolo ma se mal governi è legittimo che tu venga sostituito. L’individuo che fa parte di questa comunità, nel momento in cui tale comunità esprime la sua sovranità, sarà obbligato a rispondere alle leggi che la comunità si da nell’ organizzare la propria vita.
C’è un processo di laicizzazione a 360°.

MARSILIO DA PADOVA: PENSIERO POLITICO
 Marsilio nega il primato non solo temporale ma anche spirituale del Papa; siamo in presenza del trasferimento del papato ad Avignone in Francia e la sua nomina passa tra asprissime lotte tra le famiglie romane, dette nobiltà nera .
Il pontefice non è infallibile, non è dotato di quell’aurea divina, ma il suo potere è una stratificazione che si è creata nella storia, di un primato che era morale e che poi si è fatto politico. Il Papa esprime una tipologia di potere, e Marsilio laicizza e disincanta la visione sacrale del suo ruolo. L’autorità a lui negata viene data al Concilio Ecumenico che dovrà eleggere il Papa ed è fonte di sovranità. Per Marsilio il clero è composto da cittadini che di fatto sono uguali ai laici di fronte alle leggi dello stato e il Papa, nel momento in cui usurpa l’autorità del re, è un perturbatore della comunità cristiana. Ricordiamoci che Marsilio è l’intellettuale di corte di Filippo IV Il Bello.

 

10 Febbraio 2015

GUGLIELMO DI OCCAM

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la vita. studia all’università di Oxford, appartiene all’ordine francescano. deve difendersi, ad Avignone, dall’accusa di eresia; critica la politica ecclesiastica di Giovanni XXII. fugge da Avignone con altri francescani, si rifugia prima in Italia e poi a Monaco presso Lodovico il Bavaro.

GUGLIELMO DI OCCAM
(o Ockham) Filosofo e politico (n. Occam, Surrey, fine sec. 13° – m. 1349 o 1350).

LA VITA E LE OPERE
Entrato nell’ordine francescano, studiò a Oxford, dove nel 1319 era professore. In questo periodo si occupò particolarmente di problemi filosofici; accusato di eresia, dovette (1324) presentarsi alla curia papale, in Avignone, dove fu trattenuto per quattro anni; riuscito finalmente a fuggire, andò a Pisa con il generale dell’ordine, Michele da Cesena, in contrasto con il papa Giovanni XXII per la questione della povertà dell’ordine, e con il confratello Bonagrazia da Bergamo, presso Lodovico il Bavaro in lotta anch’egli con il pontefice. I tre frati, scomunicati, ebbero piena protezione dall’imperatore e si ritirarono a Monaco di Baviera, dove, in convento, G. scrisse i suoi trattati politici, a sostegno della politica dell’imperatore volta a svincolare l’autorità imperiale da quella del papato instaurandola sul consenso popolare. Al periodo di Oxford appartengono opere di argomento filosofico: Super quatuor libros Sententiarum; o teologico: Quodlibeta septem; Centiloquium theologicum; De sacramento altaris; Tractatus de praedestinatione et praescientia Dei; di argomento logico: Expositio aurea super artem veterem; Summa totius logicae; di filosofia della natura: Quaestiones in octo libros Physicorum; Summulae in libros Physicorum o Philosophia naturalis; Expositio super physicam Aristotelis. Al periodo di Monaco appartengono opere di argomento politico: Opus nonaginta dierum; Breviloquium de principatu tyrannico; Tractatus de dogmatibus Iohannis XXII papae; Compendium errorum papae Iohannis XXII; Tractatus contra Benedictum XII; Octo quaestiones de potestate papae; Defensorium contra Iohannem XXII; An princeps pro suo succursu, scilicet guerrae, possit recipere bona ecclesiarum, etiam invito papa; Epistola ad fratres minores in capitulo apud Assisium congregatos; De imperatoris et pontificum potestate. Il più importante dei suoi trattati politici è il Dialogus inter magistrum et discipulum de potestate papae et imperatoris.

IL CARATTERE NOMINALE E FITTIZIO DELL’UNIVERSALE
G. pone al centro del suo pensiero la tesi dell’irripetibile individualità di ciascun essere, legata a una visione contingentistica che ha il suo ultimo fondamento nell’idea dell’infinita potenza di Dio. La realtà è tutta individuale e nessun universale esiste fuori dell’anima; né le idee platoniche, né l’aristotelico e tomistico quod quid est (essenza individuata fondamento oggettivo dei processi astrattivi), né le scotistiche formalitates; l’universale è quindi solo nel soggetto conoscente, operazione di classificazione degli individuali. Nella realtà individuale non v’è distinzione di essenza ed esistenza (sono soltanto due modi diversi di considerare lo stesso oggetto), né distinzione reale tra gli accidenti e la sostanza, essendo i primi modi di concepire la sostanza, e così per le relazioni che sono quindi oggetto della logica, non della metafisica. A questa concezione della realtà corrisponde una psicologia che riconosce il primato alla conoscenza intuitiva che ha per oggetto le cose stesse nella loro esistenza puntuale, e poiché le cose sono contingenti, anche l’ordine di verità cui appartengono le corrispondenti intuizioni è contingente; la conoscenza astrattiva è invece quella che prescinde dall’esistenza, o quella che raccoglie caratteri che paiono comuni a più individui (carattere quindi nominale e fittizio dell’universale, che non ha con gli oggetti né rapporti univoci né analogici). L’universale prodotto dal procedimento astrattivo è una suppositio simplex legata all’oggetto pensato; il termine invece che designa l’individuo una suppositio personalis; dottrina che va collegata con il valore meramente convenzionale del rapporto tra il termine del linguaggio e l’oggetto significato (suppositio materialis): questa complessa dottrina della suppositio e del signum avrà notevoli sviluppi nella logica della scuola occamista.

LA TEOLOGIA
Questa concezione della realtà e questo modo d’intendere il processo conoscitivo hanno le loro corrispondenze nella teologia: cade il valore delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio fondate tutte su un tessuto ontologico, che G. ritiene non valide o non conoscibili; neppure il principio di causalità può essere utilizzato nella prova dell’esistenza di Dio, non essendo possibile escludere un regresso all’infinito. Dio è solo oggetto di fede, e gli attributi divini sono nomi che attribuiamo allo stesso essere. Tra questi attributi G. sottolinea l’onnipotenza, che sta a fondamento di una concezione contingentistica in cui tutti gli esseri, le loro relazioni e gli stessi fondamentali principi logici ed etici dipendono dalla volontà di Dio.

LA FISICA
Molte le critiche all’aristotelismo in ambito fisico: non solo viene positivamente valutato il conoscere intuitivo e sperimentale, ma anche a proposito di alcune dottrine fondamentali, è notevole il contributo di G. al superamento della problematica tradizionale. Si ritrovano, per es., nelle sue opere la teoria dell’impetus (che nega la dottrina aristotelica del movimento dei proiettili come mossi dall’aria circostante e ne attribuisce il movimento alla vis a essi impressa nel lancio) e la teoria dell’intensio et remissio formarum ridotta a termini nominalistici e in qualche modo sperimentali. La teoria dello spazio è connessa da G. al modo di rappresentare il corpo: lo spazio non è diverso dal corpo.

L’AUTONOMIA DELLA FILOSOFIA
Questo complesso di dottrine porta a rivedere profondamente i rapporti tra filosofia e teologia: di quest’ultima è negato ogni valore speculativo e ogni possibilità quindi di usare nel suo ambito tecniche filosofiche: nella teologia è la fede il fondamento e la guida. Per converso, la filosofia, nel suo ambito, è autonoma. Tale autonomia di sfere si riflette anche nell’ambito politico come distinzione e autonomia di Chiesa e Stato, essendo la prima concepita da G. come società spirituale, sicché è negato al papa ogni intervento nel dominio politico. Grande figura di pensatore, G. segna uno dei momenti culminanti della crisi della cultura e della società scolastica quale si era affermata nel corso del 13° sec.: per molti aspetti egli avvia un orientamento di pensiero che avrà larga influenza nei secoli seguenti.

RASOIO DI OCCAM
È così chiamato il principio di cui G. fa grande uso, e cioè pluralitas non est ponenda sine necessitate ponendi, o anche entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem; tale principio indica un canone metodico di semplificazione.

La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham

Ne abbiamo già parlato in diverse occasioni (cfr. l’articolo Le radici del modernismo in Guglielmo di Ockham, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’8/11/17), ma non ci stancheremo di ripeterlo: la deriva della teologia progressista e modernizzante comincia fin dal tardo Medioevo, con la figura del francescano inglese Guglielmo di Ockham (1280-1349), quasi contemporaneo di Dante, il quale per primo si è completamente scordato la semplice evidenza che la teologia è fatta per affiancare, illuminare e sostenere la fede, e non per metterla in crisi e prospettarle difficoltà insormontabili. Qualsiasi filosofo, prima di lui, lo sapeva bene e si sarebbe guardato dal mettersi su una tale strada; qualsiasi filosofo avrebbe considerato un cattivo uso della ragione il fatto di adoperarla non per collaborare con la fede, ma per esserle di scandalo. Lui, invece, no: fermo e sicuro nel suo atteggiamento, nelle sue posizioni, guarda con sovrano disprezzo tutto il tesoro che la teologia ha accumulato prima di lui, lo passa in rassegna e lo dichiara non più utilizzabile, superato, obsoleto, o, quanto meno, bisognoso di radicali riforme. Che cosa ci ricorda, un simile atteggiamento? È  esattamente lo stesso di Karl Rahner e degli altri teologi modernisti che sono riusciti ad esercitare un influsso decisivo sul Concilio Vaticano II e, con ciò, sulla vita della Chiesa cattolica, e perfino sulla sua dottrina.

Il “rasoio di Ockham”? la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino!

Per Ockham, noi non possiamo avere alcuna esperienza di Dio, perché noi abbiamo esperienza solo delle cose sensibili, e tutto il nostro sapere è frutto dell’esperienza. Il suo, quindi, è un empirismo radicale, anzi un vero e proprio sensismo; e affermando che di Dio non si può avere esperienza, egli non solo svaluta o ignora la via mistica, ma demolisce anche la via razionale che conduce, se non a Dio, quanto meno alla certezza della sua esistenza. Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza. Egli è veramente l’iniziatore del pensiero moderno, laddove afferma che la ragione e la fede sono due cose del tutto separate e distinte, e che non vi è possibile convergenza fra esse. Tutti gli sviluppi materialisti e irreligiosi del pensiero moderno sono contenuti, in nuce, in questa idea centrale. Un’idea che verrà sviluppata dai vari Cartesio, Locke, Hume, Kant, e che getta nel cestino della carta straccia secoli e secoli di riflessione teologica e metafisica, non solo cristiana, ma anche pagana, basti pensare a Platone e soprattutto a Plotino. Egli è anche il padre dello psicologismo e del soggettivismo, poiché sostiene che la conoscenza umana si basa sull’intuizione immediata e diretta degli enti, sicché non serve provare la loro esistenza, quando se ne ha esperienza diretta. Il conoscere, per lui, si riduce a un prendere atto di quello che c’è; ma quello che c‘è, in sostanza, si riduce a quel che possiamo esperire con i sensi. È evidente che ciò contrasta con le fondamenta stesse del sentimento religioso, oltre che della Rivelazione: forse che noi abbiamo avuto la conoscenza immediata e diretta dell’Incarnazione del Verbo, o della Santissima Trinità? Si direbbe che Ockham non si renda conto sino in fondo della portata devastante del suo modo d’impostare la relazione tra fede e ragione, anzi, che non si accorga neppure di quanto limitante e mortificante sia la sua idea di ragione. La ragione, in  ultima analisi, si riduce a psicologia, e più precisamente ad “accettazione” dei dati che i sensi inviano alla mente. Qui non c’è più alcuno spazio né per la metafisica, né, a ben guardare, per la teologia stessa: che ci sta a fare un teologo il quale, come san Tommaso (l’apostolo) crede solo a ciò che vede, e se non mette le dita nelle piaghe di Cristo, non crede alla sua Resurrezione? Evidentemente, in una simile prospettiva la teologia è diventata inutile, e se ne potrebbe fare benissimo a meno. Perché non compiere l’ultimo passo, allora, e non tagliare l’ultimo, esile filo che la tiene ancora in vita? Un residuo di pudore o una mancanza di coerenza, magari dovuta a poco nobili ragioni di ordine pratico?

Le cinque prove di san Tommaso d’Aquino? No, per Guglielmo di Ockham nessuna di esse fornisce una dimostrazione convincente della sua esistenza!

Non vogliamo metterci a fare, a nostra volta, della psicologia: ci limitiamo a constatare il fatto. Un teologo il quale riduce la conoscenza a sensismo non è più un teologo, puramente e semplicemente: se avesse un po’ di coerenza, dovrebbe dichiarare finita le teologia e cambiare mestiere. Ma Guglielmo di Ockham non si limita a decostruire tutto l’edificio del soprasensibile, fa anche di più: inventa quel marchingegno infernale che è passata alla storia della filosofia come il “rasoio di Ockham”. La pluralità degli enti metafisici gli dà noia; non  arriva a dichiarare la svendita fallimentare di tutta la metafisica, però decide di attuare una ristrutturazione radicale, eliminandone quanti più enti possibili: merce avariata, buona per le teste dure e superstiziose dei monaci medievali. Ma cos’è il rasoio di Ockham, infine? Lo si può riassumere in queste due formule del nostro pensatore: Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora, “si fa inutilmente con molto ciò che si può fare con poco”; e Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, “gli enti non si devono moltiplicare senza necessità.” Siccome noi moderni siamo tutti nipotini di Guglielmo di Ockham e viviamo immersi nel clima antimetafisico e nell’orizzonte immanentistico che sono tipici della modernità, questi concetti ci paiono delle perle di saggezza e siamo portati a vedere nel loro autore, o almeno così ci hanno suggerito i nostri professori di liceo, un simpatico precursore del pensiero moderno (il che rappresenta, di per se stesso, un pregio e una credenziale di nobiltà); tanto che ci sembra quasi impossibile che lui solo vedesse una cosa tanto semplice ed evidente, mentre nessuno  prima di lui ne era stato capace. Tuttavia, se si assume il punto di vista della filosofia classica, compresi Platone e Aristotele, ci si accorge che la “riduzione” proposta da Ockham è qualcosa di simile a una potatura talmente rozza e selvaggia, da provocare la morte di tutte le piante del giardino. Il suo difetto fondamentale è di pretendere che la psicologia soggettiva possa riflettere l’ordine dell’universo. Se a me, singolo uomo, può sembrare una cosa utile non moltiplicare gli enti per non rendermi troppo difficile la comprensione del reale, chi mi dà il diritto d’inferire che il mondo segue il medesimo ordine dei miei pensieri, e che non contempla l’esistenza di enti non necessari? Ma chi stabilisce la necessità di un ente: l’uomo o Dio? Qui si va a toccare la radice irreligiosa della speculazione di Ockham, che egli peraltro sa ben dissimulare, forse perfino a se stesso. Infatti, è ben vero che il Nostro si premura di specificare che il suo “rasoio” si applica  solo alla ricerca speculativa e non all’universo creato da Dio: misera astuzia, che sa più di scappatoia formale che di coerenza logica. Siamo coerenti: se è inutile alla mente moltiplicare gli enti, è anche inutile a Dio crearli. Dire che non si devono moltiplicare gli enti, ma ciò solo sul piano concettuale e non sul piano ontologico, dopo aver ridotto la conoscenza ad esperienza, è un voler salvare capra e cavoli: una debolezza del pensiero, o un’ipocrisia. Se il reale è, per noi, solo ciò che di esso possiamo conoscere empiricamente e psicologicamente, ammettere che forse Dio ragiona in modo diverso, e consente l’esistenza di enti “necessari” che a noi, però, non sembrano tali, è mettere una foglia di fico sulla propria incredulità. Che cosa sia necessario, lo sa Dio; se pretende di deciderlo l’uomo, allora non solo la metafisica, ma anche la fede in Dio diventano inutili. Per salvare le apparenze, non resta che introdurre la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre: una cosa è quel che appare alla ragione umana, e un’altra cosa è la realtà in sé. Dopo Kant, degno successore di Ockham, non ci sarà più bisogno nemmeno di questa foglia di fico: la metafisica verrà messa fra parentesi e spostata in soffitta, dove non darà più fastidio a nessuno; e la filosofia sarà libera di procedere spedita, senza più anticaglie, remore e scrupoli di sorta nei confronti della Cosa in Sé – che, in ultima analisi, è l’Essere.

Anche oggi domina la dottrina della doppia verità, come sempre hanno fatto tutti gli eretici, dai seguaci di Averroè fino a Giordano Bruno e oltre!

Ma sentiamo quel che dice Guglielmo di Ockham, direttamente dalla sua bocca (da: Quodlibeta, II, q. 1; I,, q. 1; traduzione in: A.A. V.V., Galassia filosofia, Firenze, Casa Editrice Bulgarini, 2015, vol. 1, pp. 653-654):

Affermo in primo luogo che non può essere dimostrato dalla ragione naturale che Dio è causa efficiente immediata di tutte le cose. Sia perché non può essere sufficientemente dimostrato che altre cause, ad esempio i corpi celesti, non siano sufficienti a spiegare i molti effetti, e che, quindi, non si ponga invano una causa efficiente IMMEDIATA di essi. Sia perché, se si potesse dimostrare  con la ragione naturale che Dio è causa efficiente  di tutte le cose, e non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa efficiente di tutte le cose, e se non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa parziale necessaria, o insufficiente, del tutto, si potrebbe con uguale facilità dimostrare, con la ragione naturale, che è causa sufficiente di tutto, e allora le altre cause efficienti sarebbero poste inutilmente.

In secondo luogo affermo che non può dimostrarsi con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di alcun effetto, perché non può dimostrarsi in modo soddisfacente che esistono fenomeni effettibili che non siano quelli generabili e corruttibili le cui cause efficienti sono i corpi naturali inferiori e celesti; perché, non si può sufficientemente dimostrare che una qualunque sostanza separata o un qualunque corpo celeste è causato da una qualunque causa efficiente. Neppure si può dimostrativamente affermare che l’anima intellettiva (che è tutta in tutto, e tutta in ogni parte) sia causata da qualche efficiente, poiché non può dimostrarsi che tale anima si trova in noi. Da questo segue necessariamente che non si può dimostrare che Dio sia la causa MEDIATA di alcun effetto, perché se si potesse dimostrare che Dio è causa mediata di un effetto, si potrebbe dimostrare anche che è causa immediata di un altro nel genere della causa efficiente. Ma questa seconda tesi non si può dimostrare, perciò neppure la prima. Per cui si conclude che non può naturalmente dimostrarsi che Dio è causa efficiente totale o parziale di alcun effetto.

Taluni sostengono che è possibile perché – come detto nel libro XII della Metafisica (di Aristotele) – un solo mondo non può avere che un solo principe; ora, poiché si può dimostrare filosoficamente che c’è un mondo solo, come attesta Aristotele nel primo libro “Del cielo”, si può anche dimostrare filosoficamente che c’è un signore solo, ma tale Signore è Dio; dunque ecc.

Si può tuttavia opporre che un articolo di fede non è mai dimostrabile in modo evidente, e siccome la proposizione che vi è un solo Dio è un articolo di fede, quindi ecc. Accingendoci a risolvere tale questione, spiegherà innanzitutto che cosa si debba intendere con il termine “Dio”; risponderò, quindi, alla questione.

Quanto al primo punto dico che del termine “Dio” possiamo dare due diverse definizioni. La prima è questa: Dio qualcosa che supera ogni altra cosa diversa in eccellenza ed in perfezione. La seconda è questa: Dio è l’essere di cui non ne esiste uno migliore e più perfetto..

Quanto al secondo punto dico che, se prendiamo il termine “Dio” nella prima definizione, non possiamo dimostrare in via apodittica che esiste un solo Dio. La ragione è che non si può sapere in maniera evidente se Dio, inteso in tal modo, esista, e quindi non possiamo neppure sapere se Dio, inteso in tal senso, sia soltanto uno. La conseguenza è chiara. La premessa si dimostra così: la proposizione “Dio esiste” non è immediatamente evidente, poiché molti dubitano di essa; non si può neppure dedurre da premesse immediatamente evidenti, poiché ogni argomentazione implica qualcosa di dubbio o di accettare per fede; e non è neppur evidente per l’esperienza, come è chiaro.

Dico inoltre che se si potesse dimostrare in modo evidente l’esistenza di Dio – intendendo “Dio” nel senso indicato dalla prima definizione -, in tal caso si potrebbe anche dimostrare la sua unicità. Infatti, se esistessero due Dei A e B, A sarebbe, in base a quella definizione, un essere più perfetto di qualunque altro, e quindi anche più perfetto di B, e B meno perfetto di A. Nello stesso modo, tuttavia, anche B sarebbe, per definizione, più perfetto di A, e A di B; cosa che è evidentemente contraddittoria. Sicché, ove fosse possibile dimostrare in modo apodittico che Dio esiste nel senso della prima definizione, sarebbe pure possibile dimostrarne l’unicità.

In terzo luogo dico che non è dimostrabile l’unicità di Dio, se intendiamo Dio nel senso della seconda definizione. Però anche questa proposizione negativa – “non si può dimostrare con evidenza che esiste un solo Dio” – non può essere dimostrata a sua volta in modo apodittico; giacché è possibile dimostrare che l’unicità di Dio è indimostrabile solo confutando tutti gli argomenti contrari. Così come non è possibile dimostrare in modo apodittico che le stelle sono di numero pari, o che le persone divine sono tre. Né, tuttavia, si possono dimostrare in modo evidente le proposizioni negative: e cioè che non è possibile dimostrare che le stelle sono pari, e che in Dio vi sono tre Persone.

Dobbiamo però sapere che è possibile dimostrare l’esistenza di Dio se intendiamo “Dio” nel significato della seconda definizione. Altrimenti, infatti, si verificherebbe un processo all’infinito se tra tutti gli esseri ve ne fosse uno del quale non potesse darsene un altro anteriore o più perfetto. Da ciò, per altro, non consegue affatto che di tali esseri ne esista uno solo; noi lo teniamo solamente per fede.

Oggi la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.

Questa citazione, crediamo, era necessaria affinché il lettore possa farsi un’idea del modo di ragionare del Nostro. Senza entrare troppo nel merito  ci vorrebbe uno studio apposito – ci limitiamo a notare con quanto disinvoltura egli riduce le cose a nomi, a definizioni, sfuggendo continuamente al dovere di coerenza di trarre delle precise conclusioni da determinate premesse. La teologia, per lui, è ormai solo un guscio vuoto; un guscio dal quale ogni lumaca può andarsene a spasso per il mondo, nella direzione che più le pare e piace, lasciandosi dietro la sua lunga scia bavosa. Chi è Dio? Questo teologo, questo frate francescano, questo uomo di Dio, non lo sa più; riduce la domanda a una questione nominale, puramente accademica, e dà la risposta che darebbe un professore parlando di cose neutre e astratte: di Dio, dice, si possono dare due definizioni. Come, due definizioni? Ma chi è Dio, per lui? Chi è Dio, per la fede cattolica? Chi è Dio, per la ragione speculativa? Non si sa. Poi egli passa a esaminare le due definizioni, e arriva alla conclusione che nessuna delle due può essere dimostrata in maniera pienamente soddisfacente a lume di ragione. Quindi, conclude impassibile, non resta che appellarsi alla fede, il quale osa dire, davanti alla folla dei fedeli, che la morte di Gesù è una certezza della storia, mentre la sua resurrezione è un atto di fede. Complimenti vivissimi: questi falsi teologi e questi falsi preti sanno solo confondere le acque a un punto tale che il credente, ascoltandoli, non saprebbe più in cosa credere, e gli verrebbe il dubbio d’esser stato preso in giro, lui e i suoi avi, per un paio di migliaia d’anni. Quanto alla teologia, si direbbe che ormai serva solo a sollevare dubbi e a suscitare incredulità. Si noti come Guglielmo di Ockham adoperi la sua notevole dialettica scolastica solo per demolire la verità, mai per affermarla. La sua è un’intelligenza negativa: ama distruggere, non ama costruire. La fede è quella cosa che si crede; ma la ragione, eh, via, la ragione non conduce nella stessa direzione. Con la ragione non si possono dimostrare le cose della fede, neppure l’esistenza e l’unicità di Dio. E si noti con quanta disinvoltura egli fa appello, ma solo quando ciò rientra nella sua linea di pensiero, al senso comune: siccome, dice, non vi è consenso generale sull’esistenza di Dio, poiché molti la negano (nel XIV secolo!), allora bisogna rassegnarsi a considerare l’esistenza di Dio come una cosa tutta da vedere e tutta da chiarire. Come se, per un filosofo, il consenso della gente avesse il benché minimo valore di prova! Ma tutto questo è logico: una volta stabilito, come lui fa, che la realtà è ciò che appare a noi come evidente, è naturale dedurre che l’esistenza di Dio non rientra in tale categoria di enti, o, almeno, non vi rientra per la totalità degli esseri umani.

Dubbi ancora dubbi e sempre dubbi. La teologia inizia a morire con Guglielmo di Ockham: dal suo psicologismo passando per Karl Rahner, siamo arrivati al sociologismo

Guglielmo di Ockham, dunque, riduce il discorso teologico a psicologismo e a nominalismo: al punto che era conosciuto, al suo tempo, come Princeps Nominalium, il principe dei nomi. È comodo, per un teologo, spostare la riflessione sul piano dei nomi, cioè delle parole e dei concetti; ci si può lavare le mani, come Ponzio Pilato, quanto agli enti, cioè quanto al reale. Inoltre, in tutto i casi, egli può sempre difendersi dietro il suo stesso nominalismo: Ma io stavo parlando solo del significato delle parole, non delle cose in se stesse!, dirà, con aria offesa, se qualcuno gli domandasse conto delle conseguenze devastanti della sua dottrina. Povera teologia, su quale strada rovinosa si è messa, a partire da Guglielmo di Ockham. Come stupirsi che sia arrivata alle presenti sconcezze e assurdità? L’aborto è un problema sociologico, e bisogna affrontarlo dal punto di vista della sociologia. Così, dallo psicologismo di Guglielmo di Ockham, passando per Karl Rahner,  Dubbi, ancora dubbi e sempre dubbi: la teologia non è più il luogo delle risposte, ma delle domande senza risposta: del silenzio di Dio. Ai nuovi teologi piace ascoltare il suono della propria voce mentre formulano domande alle quali nessuno può rispondere: neanche Dio, visto che nessuno può averne conoscenza.

6 Febbraio 2015

Friedrich Nietzsche. Filosofia e religione. Ottobre 2019

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 09:33

Noccioline #20 – FRIEDRICH NIETZSCHE spiegato FACILE #ScuolaZoo

Friedrich Wilhelm Nietzsche Röcken, 15 ottobre 1844 – Weimar, 25 agosto 1900, è stato un filosofo, poeta, saggista, compositore e filologo tedesco.

Considerato tra i massimi filosofi e scrittori di ogni tempo, ebbe un’influenza controversa, ma indiscutibile, sul pensiero filosofico, letterario, politico e scientifico del mondo occidentale nel XX secolo.

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Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno (tedesco: Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen) è il titolo di un celebre libro del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, composto in quattro parti, la prima nel 1883, la seconda e la terza nel 1884, la quarta nel 1885.

Gran parte dell’opera tratta i temi dell’eterno ritorno, della parabola della morte di Dio, e la profezia dell’avvento dell’oltreuomo, che erano stati precedentemente introdotti ne La gaia scienza. Definito dallo stesso Nietzsche come “il più profondo che sia mai stato scritto”, il libro è un denso ed esoterico trattato di filosofia e di morale, e tratta della discesa di Zarathustra dalla montagna al mercato per portare l’insegnamento all’umanità.

Il libro racconta i viaggi fittizi e la pedagogia di Zarathustra: il nome del personaggio protagonista è tratto da quello dell’antico profeta (altrimenti detto Zoroastro) fondatore dell’antico credo iranico indicato come Zoroastrismo il cui testo sacro è costituito dall’Avestā; basato sul monoteismo e la contrapposizione di bene e male.

Il libro racconta i viaggi fittizi e la pedagogia di Zarathustra: il nome del personaggio protagonista è tratto da quello dell’antico profeta (altrimenti detto Zoroastro) fondatore dell’antico credo iranico indicato come Zoroastrismo il cui testo sacro è costituito dall’Avestā; basato sul monoteismo e la contrapposizione di bene e male.

2 Ottobre 2014

La Scuola di Alessandria. Religione filosofia e teologia. Lezione ottobre 2019

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE,Teologia — giacomo.campanile @ 07:50

La Scuola di Alessandria. Religione filosofia e teologia.

La grande Biblioteca di Alessandria

Il Faro di Alessandria, una delle Sette Meraviglie del Mondo

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Il Faro di Alessandria è considerato una delle realizzazioni più avanzate ed efficaci della tecnologia ellenistica.

Venne costruito tra il 300 a.C. e il 280 a.C. sull’isola di Pharos, di fronte al porto di Alessandria d’Egitto. Si ritiene che la torre del faro fosse alta 134 metri! Il faro rimase in funzione per sedici secoli: nel 1303 e nel 1323 due terremoti lo danneggiarono irreparabilmente. Le sue rovine furono recuperate in mare ed utilizzate nel 1480 dal sultano d’Egitto Quaitbay per costruire un forte nelle vicinanze.

 

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Alessandria, la grande città antica situata all’Ovest del delta del Nilo, fu fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C. grazie ad una posizione geografica strategica divenne ben presto una città cosmopolita di commercio e di grande scambio culturale tra le civiltà egiziana, orientale, greca e giudaica. Fu il luogo per eccellenza della fioritura dell’ellenismo ovvero della civiltà greca pagana, con particolare riferimento alla filosofia.

Alessandria conobbe un grande sviluppo dell’arte, della vita intellettuale e di tantissime correnti filosofico-religiose, il tessuto culturale era in continuo fermento impregnato di stoicismo, neoplatonismo, gnosticismo, giudaismo. Qui fu realizzata la più grande Biblioteca, le cui stime parlano di una raccolta di 500.000 rotoli inerenti tutto lo scibile umano.  Calpestarono il suolo di Alessandria personaggi del calibro di Callimaco, Euclide, Archimede, Ipparco, Filone, Ammonio, Plotino e molti altri.

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Già dal III secolo a.C. era presente una comunità giudaica ellenizzata che dette l’impulso per la traduzione greca della Bibbia, diventata famosa come Settuaginta (LXX), perché, secondo la leggenda, sarebbe stata realizzata da 70 saggi.

La cristianizzazione dell’Egitto iniziò con la missione dell’ebreo Marco, l’evangelista.

Durante il primo secolo Alessandria era una città cosmopolita dove convivevano differenti popoli e varie credenze religiose. Vi erano egiziani, greci, romani, etiopi e la lingua più parlata era il greco.
Fin dalla fondazione della città portuale, per opera di Alessandro il Grande, si erano sviluppate varie correnti culturali: l’orientale, erede delle tradizioni babilonesi, persiane e indiane (vediche); l’egiziana, erede delle antiche religioni dei faraoni, all’interno della quale si adoravano ancora Horus, Iside e Osiride; e la greca, con gli dei del pantheon olimpico.
Ad Alessandria però vi erano anche dei giudei adoratori di YHWH, e fin dal secondo secolo a.C. vi era stato un certo intercambio culturale tra la cultura giudaica e quella greca, in quanto era stato tradotto al greco il Tanakh, ovvero i libri che ora conformano l’Antico Testamento (la Bibbia dei settanta).
Uno dei più famosi saggi giudei di Alessandria del I secolo fu Filone, che individuava il demiurgo o Logos di Platone come il Dio della tradizione ebraica.

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A partire dal II secolo si sentì la necessità di difendere la fede cristiana contro possibili attacchi esterni. Fu questa la ragione che la scuola alessandrina si sviluppò e fiorì, proprio nella città dove era più diffuso lo gnosticismo, una tendenza opposta al Cristianesimo apostolico.

I due filosofi più conosciuti che divulgavano la fede gnostica ad Alessandria erano Basilide e Valentino, entrambi attivi nel secondo secolo.
Le quattro caratteristiche della scuola alessandrina furono: il contenuto metafisico nella predicazione della fede, l’influenza platonica, la direzione concettualmente idealistica e il metodo di interpretazione allegorico di vari passaggi scritturali.
Uno dei più importanti decani della scuola alessandrina fu Panteno, che diresse la scuola a partire dal 181 d.C.

Durante l’assenza di Panteno, la direzione della scuola alessandrina fu assunta dall’ateniese Clemente (Atene, 150 d.C. – Cesarea di Cappadocia, 215 d.C.).
Per Clemente tra la filosofia greca e le Sacre Scritture esiste una relazione armoniosa voluta da Dio.

Il Creatore ha dato la Legge ai giudei e la filosofia ai greci. Entrambe vengono da Dio ed entrambe conducono a Cristo.
Sia il pensiero di Clemente Alessandrino che quello dei suoi predecessori (come Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia) e dei suoi successori (Origene, Alessandro di Gerusalemme) furono caratterizzati dal riconoscimento del valore del pensiero di Platone, il filosofo che per primo ha ammesso l’esistenza di un piano metafisico, non con la fede, ma con la ragione.

Clemente Alessandrino

Nei filosofi cristiani alessandrini però vi è il riconoscimento della superiorità del Cristianesimo sulla filosofia greca, perché la Verità, che i greci avevano solo sfiorato, con la descrizione del Logos, con il Cristianesimo si è rivelata in tutta la sua pienezza.

In quest’ottica non si può parlare di ellenizzazione del Cristianesimo, ma di cristianizzazione del mondo ellenico.

Per loro Gesù Cristo è la Verità ultima, ed è venuto per completare non solo la legge giudaica, ma anche la filosofia greca, in quanto ci ha svelato se stesso, il Logos che si è fatto carne.

Il Cristianesimo pertanto, oltre ad essere l’unica vera religione, è per loro l’unica vera filosofia divina.

Sappiamo che il Cristianesimo apostolico si basava sul pentimento dei propri peccati e la fede in Gesù Cristo per ottenere la salvezza, mentre lo gnosticismo era incentrato sulla conoscenza, o gnosi, per raggiungere l’unione con Dio.

Clemente alessandrino indica una terza via, in quanto per lui la fede e la conoscenza stanno in una relazione intima.

La fede per Clemente è il fondamento della gnosi.

Per lui ogni credente può essere gnostico, ma lo gnostico ecclesiastico è il perfetto cristiano.
La prima opera di Clemente fu il Protrettico, (dal greco “esortazione”, scritto possibilmente tra il 180 d.C. e il 200 d.C. Era un esortazione alla conversione al Cristianesimo rivolta ai pagani e soprattutto ai culti dei greci.
La sua seconda opera fu il Pedagogo, dove al cristiano viene insegnata la disciplina e una vita di rettitudine.

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La terza opera di Clemente alessandrino è denominata Stromateis (Miscellanea), perché analizza molti argomenti con lo scopo di individuare la giusta vita cristiana attraverso la fede e la conoscenza, che secondo lui avrebbero portato alla vera gnosi.
In pratica le tre opere sono legate da un filo sottile. E come fosse Gesù Cristo stesso che prima esorta a intraprendere il cammino della conversione, quindi insegna la retta via da percorrere ed infine come un maestro, indica la via da percorrere attraverso la fede, per la vera conoscenza.
Clemente scrisse anche altre opere tra le quali si ricordano le Disposizioni che furono dei commenti alla Bibbia e ad alcuni testi non canonici, come l’epistola di Barnaba e l’Apocalisse di Pietro.
Nel 202 l’imperatore Settimio Severo ordinò la persecuzione dei cristiani nella parte orientale dell’impero e in Egitto.

Clemente alessandrino fu così costretto a lasciare l’Egitto e la direzione della scuola passò ad Origene Adamanzio.
Clemente si diresse a Cesarea di Cappadocia, nell’attuale Turchia centrale, dove si dedicò alla Chiesa locale in quanto il vescovo Alessandro era stato imprigionato. Morì a Cesarea di Cappadocia pochi anni dopo probabilmente nel 215 d.C

Origene Adamanzio.

Durante quegli anni la scuola alessandrina era diretta da Origene Adamanzio (Alessandria, 185 d.C. – Tiro, 254 d.C.), “uomo di acciaio o di diamante”, etimologicamente “l’indomabile”. Possedeva una scienza enciclopedica ed è annoverato tra i pensatori più grandi e originali di ogni tempo, autore di innumerevoli opere che hanno influenzato tutta le teologia dei secoli a seguire.uno dei principali filosofi del Cristianesimo antico.

Origene esortava alla pratica delle virtù, alla conquista della perfezione morale e spirituale mediante la prassi ascetica.

È importante sottolineare il fatto che all’epoca solo la frequenza alla Scuola poteva essere motivo di persecuzioni.
Nel terzo secolo la convinzione che la Verità fosse stata rivelata contemporaneamente agli ebrei con la Bibbia, e ai greci con la filosofia, e la credenza che essa si fosse incarnata nella persona di Gesù Cristo, si scontrarono con il pensiero dei filosofi neo-platonici, tra i quali si ricordano Ammonio Sacca, Plotino e Porfirio.

La Scuola era sistemata in un edificio pubblico a fianco del museo del Serapeo dove si trovava la Biblioteca, era aperta a tutti, uomini e donne senza nessuna distinzione di credo e ceto sociale. Considerati da molti studiosi i maggiori esponenti del cristianesimo integrale,

Clemente ed Origene svilupparono e diffusero sia l’insegnamento exoterico (popolare, esteriore) che quello esoterico (riservato, interiore) della dottrina di Cristo in conformità alle parole del Salvatore.

Nel 250-253 . fu colpito dalla persecuzione di Decio e morì a seguito delle torture subite. Origene fu autore di numerosissimi scritti; Eusebio (come testimonia s. Girolamo) ne avrebbe elencati oltre mille: lavori sul testo biblico, commenti, scritti teologici e polemici, lettere.

Ma la vastissima produzione è andata in gran parte perduta.

La Scuola di Alessandria

Prima del Cristianesimo la città di Alessandria fu fiorente e cosmopolita, la più grande del mondo antico.

Aveva gran fama per le sue scuole, soprattutto quella del Museo che Tolomeo Primo istituì nel terzo secolo avanti Cristo, con la sua biblioteca che conteneva più di 500.000 volumi che toccavano ogni branca di sapere, oltre alla scuola di Serapione e alle scuole giudaiche che erano sparse in tutto l’Egitto.
Possiamo dire che Alessandria era un luogo unico nel quale fiorirono diverse colture: egiziana, ellenistica e giudaica.
In quell’ambiente la Chiesa ritenne di dover fondare un’istituzione catechistica per affrontare e rispondere ai pensieri di quelle scuole.
San Girolamo testimonia che San Marco fu colui che gettò i fondamenti della Scuola cristiana di Alessandria come mezzo di approfondimento del Cristianesimo su una base salda.
La scuola catechistica di Alessandria fu la più antica scuola catechistica del mondo. Il primo ordinamento teologico nacque lì, come anche l’interpretazione simbolica della Bibbia. La prima questione di cui si occupava è scoprire il significato spirituale in ogni parte della Bibbia e dietro le righe.


 

Origene   Adamantio

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All’inizio la Scuola era dedicata ai catecumeni che chiedevano di essere battezzati, sia dei Giudei che dei Gentili, per insegnare loro tutti i dettagli del credo cristiano e prepararli a ricevere il dono del Battesimo. La sua porta era spalancata per accogliere gente di diverse religioni, di ogni livello sociale e categoria lavorativa. Nel secondo secolo ebbe un efficace impatto sulla vita della Chiesa. La scuola di Alessandria divenne la più importante istituzione di insegnamento religioso della Cristianità.

Molti eminenti vescovi da molte parti del mondo ricevettero la loro istruzione in quella scuola da parte di studiosi quali Atenagora, Clemente, Didimo ed il grande Origene , considerato il padre della teologia ed attivo anche nel campo del commento e degli studi comparativi della Bibbia.

Origene scrisse oltre 6.000 commentari alla Bibbia, oltre al suo famoso Hexapla. Molti studiosi, come S. Girolamo, visitarono la scuola di Alessandria per scambiare idee e comunicare direttamente con i suoi studiosi. Lo scopo della scuola di Alessandria non si limitava ai soli argomenti teologici poiché lì si discuteva anche di scienze, di matematica e di studi umanistici: il metodo del commento tramite domanda e risposta nacque lì e, 15 secoli prima di Braille, venivano usate da studenti ciechi tecniche di intaglio nel legno per leggere e scrivere.

Critica alla scuola di Alessandria.

La visione di Dio
come il risultato di una sostituzione dell’eros pagano
– all’agape cristiana, « Non si è visto
che vi è un abisso tra la visione escatologica… e la contemplazione mistica di Dio, e che la prima non è che un modo di esprimere la realizzazione perfetta della comunione cristiana ». Cosí, tutta la mistica cristiana apparirà come una deviazione, come una deformazionnica del cristianesimo primitivo.
Indipendentemente dal Nygren, P. Festugière arriva
alle medesime conclusioni, per quel che concerne l’ideale
della vita contemplativa. Nel suo articolo Ascèse et con
templation’ cosí si esprime: « Parallelamente a (lla) tta
dizione specificamente cristiana, viene a svilupparsi
partire dal III secolo un’altra tradizione, in cui cio
viene da Gesú si mescola a un elemento di sapienza
greca e se ne lascia talvolta assorbire. L’origine di questo
movimento è facilmente percepibile: si tratta della scuola di Alessandria, di Clemente e Origene »2. P. Festugière
non si ferma qui. Come il Nygren, sebbene con mag-
giori riserve, egli vede in quasi tutta la mistica speculativa posteriore il risultato di una sintesi, di una simbiosi
tra Atene e Gerusalemme.
« Le maglie della catena sono facilmente riconoscibili
sono tutti i dottrinari della contemplazione in Oriente, Evagrio, Gregorio
Nisseno, Diadoco di Fotica, lo Pseudo-Dionigi; in Occi-
dente Agostino e (nella misura in cui segue sant’Agostino) Gregorio Magno »
Cercheremo di renderci conto in seguito, esaminando
la dottrina della visione di Dio in Gregorio Nisseno, in
Diadoco e Dionigi, in che misura possa essere accolta a
loro riguardo la tesi di P. Festugière. Per il momento
Ci limiteremo a un rapido esame della visione di Dio net
due grandi maestri del Didaskaleion alessandrino.

Origene, nei quali P. Festugière vede i fondatori di quella che egli chiama « spiritualità filosofica»
la definisce cosí: « E una mistica, intellettualistica o
superintellettualistica, che conduce a un genere di vita
esclusivamente contemplativo nel quale non vi è piú
posto per l’azione, anche se ispirata dall’amore ». « Es-
sere perfetto equivale a contemplare, e contemplare è vedere Dio di una visione immediata »

Cit. Losky teologica mistica chiesa d’oriente. Pag 280.

 

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14 Febbraio 2014

Socrate e il cristianesimo. Lezione novembre 2019

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 11:15

Socrate e il cristianesimo

LEZIONE VIDEO DI Giacomo Campanile

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Socrate (Atene 469-399 a.c.)  nacque da padre scultore e da madre levatrice. Dopo un primo interesse per la filosofia della natura passò a trattare temi etici-esistenziali. Valoroso soldato durante la guerra del Peloponneso..

Non lasciò alcuna opera scritta (questione socratica). Fu accusato di non credere agli dei ufficiali dello stato e di corrompere i giovani Nel 399 a.c fu condannato a bere la cicuta e affrontò la morte con grande dignità (martire della filosofia).

Per Socrate la filosofia è un esame incessante di se stessi e degli altri. Fu una figura di eccezionale importanza nella storia della filosofia mondiale. Fu modello insuperato di chiarezza di pensiero, di impegno morale e di coerenza di vita.

In epoca moderna ha preso corpo un interessante topos sulla figura di Gesù, che consiste nell’operare un confronto tra lui e Socrate. Questa operazione, implicita già in Erasmo da Rotterdam, viene successivamente esplicitata e attestata in vari autori, di cui è un esempio J.-J. Rousseau col suo romanzo pedagogico Emilio, del 1762, dove si legge: «Se la vita e la morte di Socrate sono di un saggio, la vita e la morte di Gesù Cristo sono di un Dio».

Il confronto acquista maggiore spessore in Hegel. Secondo qualche interprete, nella sua Vita di Gesù, del 1795, la presentazione di Gesù e del suo messaggio richiamerebbe la figura di Socrate, in quanto anche il Nazareno connoterebbe la sua dottrina secondo i princìpi della ragione filosofica e della coscienza morale. Certo è che già nello scritto Religione popolare e cristianesimo, del 1794, e precisamente nel Frammento 2, Hegel aveva stabilito un accostamento esplicito tra i due, o meglio tra i discepoli dell’uno e quelli dell’altro a tutto vantaggio dei socratici (Socrate «non aveva alcun modello secondo cui forgiare il loro carattere… Ognuno dei suoi scolari fu maestro per sé… Nessuno dovette abbandonare casa e paese»), notando anche la differenza tra Socrate e Gesù a proposito dell’atteggiamento di fronte alla morte (Socrate «morì da greco»!).

Non mancano poi pubblicazioni più recenti su di un dichiarato paragone tra i due. Persino su Google si può trovare il blog di un laboratorio filosofico, Briciole di filosofia, in cui si accosta Gesù a Socrate, tanto da scoprire tra i due ben nove somiglianze così elencate:

1 Sia Socrate che Gesù non hanno mai scritto nulla, la loro vita, la loro morale e la loro religione ci sono state filtrate da altri scrittori.

2 Socrate e Gesù hanno vissuto in povertà, applicandosi, nella loro esistenza, nel dialogo e nella pedagogia del popolo.

3 Sia Socrate che Gesù non si occupano di filosofie metafisiche ma dell’uomo, insegnando rispettivamente a vivere secondo la virtù e secondo l’amore.

(4) Sia Socrate che Gesù invitano l’uomo al rispetto delle leggi terrene.

(5) Ambedue sono stati condannati a morte per motivi meramente politici.

(6) Ambedue sono morti precocemente e ingiustamente, il che sarebbe il punto in comune più forte tra i due («Le loro figure non avrebbero avuto la stessa fortuna letteraria se fossero morti di vecchiaia o per un’overdose di barbiturici »).

(7) Sia Socrate che Gesù vanno incontro alla morte senza paura, anzi sembra quasi che l’attendessero con impazienza, fiduciosi che la vita nell’aldilà sia migliore di quella nell’aldiquà.

(8) Ambedue, dopo la propria vita, hanno ispirato sètte e religioni (quella ispirata da Socrate è la religione interna all’Accademia, che è esistita fino al VI secolo d.C.).

(9) Sia Socrate che Gesù sono stati gli iniziatori di un movimento ideologico- culturale che ha portato allo sgretolamento delle società in cui essi sono vissuti (rispettivamente con la rottura del connubio tra apollineo  e dionisiaco, almeno secondo Nietzsche, e con la proclamazione dell’uguaglianza tra tutti gli uomini, compresi gli schiavi).

Naturalmente è ben possibile elencare tra i due una serie di differenze, che vanno dall’assimilazione della rispettiva eredità culturale (greca vs giudaica) alla diversa posizione di fronte alla morte imminente (serenità vs timore), dalle circostanze dell’insegnamento (stanzialità vs itineranza) alle sue modalità proprie (maieutica vs annuncio  evangelico) fino al cuore stesso del messaggio (l’uomo come psyché e la virtù come conoscenza vs regno di Dio e adesione personale alla figura di Gesù). Tutti questi fattori distanziano irrimediabilmente l’uno dall’altro i due personaggi.

In ogni caso, per uno studioso delle origini cristiane, e per un neotestamentarista in particolare, abituato a lavorare concretamente sui testi, questo tipo di accostamento resta su di un piano piuttosto astratto e comunque generico, perciò insoddisfacente. Come direbbe un riconosciuto classicista qual è Luciano Canfora proprio sul caso in questione, questo tipo di accostamento sta «sul versante della retorica piuttosto che su quello della ricerca». 

I Greci e l’impronta giudaica Il confronto tra Gesù e Socrate, implicito già in Erasmo da Rotterdam e successivamente esplicitato in Rousseau, Hegel e ora persino nei blog filosofici su Google, solleva l’interrogativo sull’identità del Nazareno. A questo paragone dedica un agile riflessione l’esegeta Romano Penna nel volumetto “Gesù e Socrate. Cultura greca e impronta giudaica” , in uscita da Edb (pagine 48, euro 5,50). Dal volume abbiamo anticipato le pagine del primo capitolo.

Socrate e Gesù? Parallelismo forzato

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26 Ottobre 2013

Soren Kierkegaard, filosofo danese. Il pensiero e la colpa.

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11 Ottobre 2013

Cartesio: vita, filosofia e pensiero. Il fondatore della filosofia moderna

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 08:34

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Dio come causa della Sua idea in me

In me infatti esiste l’idea di Infinito, come condizione della mia consapevolezza della mia imperfezione, della mia finitezza

Come infatti potrei accorgermi che dubito, che desidero, cioè che qualcosa mi manca e non sono del tutto perfetto, se in me non fosse alcuna idea di un ente più perfetto, dal raffronto col quale io riconoscessi le mie imperfezioni?
E di questa idea non posso essere io la causa. Si tratta infatti di una idea perfetta, e non di qualcosa che progressivamente si perfezioni: è vero infatti che la mia conoscenza progredisce, ma non riguardo a questa idea, che è tutta attuale, e dunque non può venire da un graduale sviluppo.

Ora, una causa deve essere proporzionata all’effetto, per cui si deve escludere che una causa imperfetta possa produrre un effetto perfetto. L’idea di Dio che è in me è perfetta, io invece sono imperfetto, tant’è vero che dubito. Dunque non posso essere io la causa dell’idea di Infinito che è in me, né lo potrebbe essere alcun essere finito e imperfetto, ma solo lo stesso Infinito. Che perciò deve esistere, come unica causa adeguata alla Sua idea in me.

Dio come causa del mio esistere
Se mi fossi fatto io, mi sarei dato oltre all’essere (che è più difficile), anche le perfezioni (che rispetto all’essere sono cosa più facile): ma invece sono imperfetto.

Un altro filosofo, Caterus gli fece notare che questa è la seconda via di S.Tommaso; ma Cartesio rispose che la sua è diversa: non partendo da una serie di cause, che potrebbe essere infinita, ma dall’io come pura res cogitans.

Dio come causa del mio persistere
Non solo Dio deve essere affermato come causa del mio cominciare ad essere, ma anche come causa del mio continuare ad esistere. Senza il suo continuo sostegno infatti non potrei perdurare nell’esistenza.

Dio come evidenza a-priori
Infine C. ritiene valida la via scelta da S.Anselmo, quella a-priori: l’esistenza di Dio si deduce dalla Sua essenza, così come l’avere gli angoli interni uguali a un angolo piatto si deduce dall’essenza del triangolo.

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18 Giugno 2013

Kant e la Religione. Lezione novembre 2019

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 09:40

Noccioline #19 – IMMANUEL KANT spiegato FACILE #ScuolaZoo

Limiti della gnoseologia kantiana. Soggettivismo, relativismo.

Distruzione della metafisica tradizionale.

 

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Giordano Bruno, filosofo e religioso italiano

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Nel 1578, è a Ginevra, città dov’è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio e si veste di cappa, cappello e spada, aderisce al calvinismo.

Il 20 maggio 1579 s’iscrive all’Università come “Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra”. In agosto accusa il professore di filosofia Antoine de la Faye di essere un cattivo insegnante e definisce “pedagoghi” i pastori calvinisti. È probabile che Bruno volesse farsi notare, dimostrare l’eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d’insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo era mirata a questo scopo; Bruno fu in realtà indifferente a tutte le confessioni religiose: nella misura in cui l’adesione a una religione storica non pregiudicasse le sue convinzioni filosofiche e la libertà di professarle, egli sarebbe stato cattolico in Italia, calvinista in Svizzera, anglicano in Inghilterra e luterano in Germania.

Arrestato per diffamazione, viene processato e scomunicato. Il 27 agosto del 1579 è costretto a ritrattare; lascia allora Ginevra.

A Venezia il 23 maggio,Mocenigo presentò all’Inquisizione una denuncia scritta, accusando Bruno di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità divina e nella transustanziazione, di credere nell’eternità del mondo e nell’esistenza di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di Maria e le punizioni divine.

Quel giorno stesso, la sera del 23 maggio del 1592, Giordano Bruno fu arrestato e tratto nelle carceri dell’Inquisizione di Venezia, in san Domenico a Castello.

A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.

L’Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant’Uffizio.

Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia: ribadì l’infinità dell’universo, la molteplicità dei mondi, il moto della Terra e la non generazione delle sostanze

Il filosofo sostiene che la Terra è dotata di un’anima, che le stelle hanno natura angelica, che l’anima non è forma del corpo, e come unica concessione, è disposto ad ammettere l’immortalità dell’anima umana.

Il 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell’immortalità dell’anima, la sua concezione dell’infinità dell’universo e del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino.

Nell’interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all’abiura, ma il 16 cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra

L’8 febbraio 1600, al cospetto dei cardinali inquisitori, è costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza che lo scaccia dal foro ecclesiastico e lo consegna al braccio secolare. Giordano Bruno; terminata la lettura della sentenza. Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, viene condotto in piazza Campo de’ Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.

PENSIERO

Il Dio di Giordano Bruno è da un lato trascendente, in quanto supera ineffabilmente la natura, ma nello stesso tempo è immanente, in quanto anima del mondo: in questo senso, Dio e Natura sono un’unica realtà da amare alla follia, in un’inscindibile unità panenteistica di pensiero e materia, in cui dall’infinità di Dio si evince l’infinità del cosmo, e quindi la pluralità dei mondi, l’unità della sostanza, l’etica degli “eroici furori”. Questi ipostatizza un Dio-Natura sotto le spoglie dell’Infinito, essendo l’infinitezza la caratteristica fondamentale del divin

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