30 Aprile 2015

Religione e musica. M.Mengoni, Esseri umani.

Filed under: CANZONI,LEZIONI 2014-15 — giacomo.campanile @ 11:16

mengonilode

Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui » (1 Gv 4, 16).

Deus caritas est

MARCO MENGONI

Esseri Umani – Testo

Oggi la gente ti giudica,
per quale immagine hai.
Vede soltanto le maschere,
e non sa nemmeno chi sei.

Devi mostrarti invincibile,
collezionare trofei.
Ma quando piangi in silenzio,
scopri davvero chi sei.

Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani
che hanno coraggio,
coraggio di essere umani

Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani.
credo negli esseri umani
che hanno coraggio,
coraggio di essere umani.

Prendi la mano e rialzati,
tu puoi fidarti di me.
Io sono uno qualunque,
uno dei tanti, uguale a te.

Ma che splendore che sei,
nella tua fragilità.
E ti ricordo che non siamo soli
a combattere questa realtà.

Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani che hanno coraggio,
coraggio di essere umani.

Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani che hanno coraggio,
coraggio di essere umani.

Essere umani.

L’amore, amore, amore
ha vinto, vince, vincerà.
L’amore, amore, amore
ha vinto, vince, vincerà.

L’amore, amore, amore
ha vinto, vince, vincerà.
L’amore, amore, amore,
ha vinto, vince, vincerà.

Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani che
hanno coraggio,
coraggio di essere umani.

Credo negli esseri umani.
Credo negli esseri umani.
Cedo negli esseri umani che hanno coraggio,
coraggio di essere umani.

21 Aprile 2015

Il mistero della Santa Sindone

Filed under: LEZIONI 2014-15,Religione — giacomo.campanile @ 08:01

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La Sindone di Torino, nota anche come Sacra o Santa Sindone, è un lenzuolo di lino conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l’immagine di un uomo che porta segni interpretati come dovuti a maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nella passione di Gesù. La tradizione cristiana identifica l’uomo con Gesù e il lenzuolo con quello usato per avvolgerne il corpo nel sepolcro.

Il termine “sindone” deriva dal greco σινδών (sindon), che indicava un ampio tessuto, come un lenzuolo, e ove specificato poteva essere di lino di buona qualità o tessuto d’India. Anticamente “sindone” non aveva assolutamente un’accezione legata al culto dei morti o alla sepoltura, ma oggi il termine è ormai diventato sinonimo del lenzuolo funebre di Gesù.

Le esposizioni pubbliche della Sindone sono chiamate ostensioni (dal latino ostendere, “mostrare”). Le ultime sono state nel 1978, 1998, 2000, 2010 e 2013. L’attuale ostensione è nel 2015, dal 19 aprile al 24 giugno

15 Aprile 2015

PREDICA AGLI UCCELLI – GIOTTO

Filed under: ARTE,LEZIONI 2014-15,LEZIONI DI RELIGIONE,Religione,Senza Categoria — giacomo.campanile @ 10:52

PREDICA AGLI UCCELLI – GIOTTO

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La Predica agli uccelli è la quindicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto.
Fu dipinta verosimilmente tra il 1295 e il 1299. Misura 270×200 cm, più breve delle altre scene perché si trova sulla controfacciata.
Questo episodio appartiene alla serie della Legenda maior (XII,3) di san Francesco: “Andando il beato Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica; e tutto ciò vedevano i compagni in attesa di lui sulla via.
Secondo la tradizione, la predica agli uccelli ebbe luogo sull’antica strada che congiungeva il castello di Cannara a quello di Bevagna. Oggi il punto dove San Francesco d’Assisi fece il miracolo è segnalato da una pietra sita in località Piandarca nel Comune di Cannara in un’area ancora oggi incontaminata, raggiungibile attraverso un sentiero che inizia appena fuori il paese e si snoda attraverso i campi.

Giotto di Bondone, forse diminutivo di Ambrogio o Angiolo, conosciuto semplicemente come Giotto (Vespignano, 1267 circa — Firenze, 8 gennaio 1337). Venne affidato alla bottega di un pittore, Cenni di Pepi, detto Cimabue, iscritto alla potente Arte della Lana, che abitava nella parrocchia di Santa Maria Novella.
Il Vasari racconta come Giotto fosse capace di disegnare una perfetta circonferenza senza bisogno del compasso, la famosa “O” di Giotto.
Importante per la sua formazione fu il viaggio che intraprese a Roma prima di entrare a far parte del cantiere di Assisi.
Giotto è il protagonista delle decorazioni del registro inferiore della basilica di Assisi, dipinge un ciclo decorativo composto da 28 affreschi dedicati alla vista di San Francesco.
Giotto di pinge questo scene con uno stile tutto nuovo: basta con lo stile bizantino e le rappresentazioni bidimensionali, immette le scene in un mondo che diventa reale utilizzando i chiaroscuri per dare volume, la visione prospettica e armoniosa.

Orfeo. Il cantore che ammaliava l’uomo e la natura

Filed under: LEZIONI DI RELIGIONE,Religione — giacomo.campanile @ 10:47

ORFEO – Simboli, miti e leggende

LEZIONE VIDEO DI Giacomo Campanile

Orfeo

Il cantore che ammaliava l’uomo e la natura

Nel panorama del mito e della religiosità greca, Orfeo occupa un posto particolare: figlio della musa Calliope, riceve in dono da Apollo una magica lira con cui è capace di incantare gli elementi della natura, oltre che l’uomo. Il tentativo di riportare dall’oltretomba nel mondo dei vivi la moglie Euridice lo condurrà a una tragica fine. Al suo nome è collegato l’orfismo, un insieme di norme di vita e concezioni religiose che rappresentava, per i Greci, una scelta alternativa ai culti ufficiali

Il mito

La zona di origine dei racconti legati a Orfeo è probabilmente la Tracia, una regione a nord della Grecia considerata a metà tra mondo barbaro e mondo civile. Tracio è Eagro («selvaggio»), il re che si unisce alla musa Calliope generando Orfeo. Apollo gli fa dono di uno strumento musicale a sette corde, che Orfeo modifica aggiungendovene altre due: è una straordinaria lira al cui suono gli animali feroci si placano, i sassi si muovono, gli alberi ondeggiano; anche l’uomo è affascinato dall’armonia di Orfeo, che placa gli affanni e rigenera l’animo.

La sua è una musica apollinea, non violenta e sfrenata come quella di Dioniso (il romano Bacco), una musica che insegna il rispetto dell’ordine naturale e della purezza. Orfeo, come altri leggendari cantori quali Lino, Tamiri o Museo, è collocato dal mito greco in un tempo antichissimo, prima di Omero, e la sua poesia è sempre denotata da un alone di mistero; appartiene alla generazione degli eroi che partecipano all’impresa di Giasone e della nave Argo: è proprio lui, anzi, che al suono della lira muove le travi che da sole vanno a comporre la chiglia della nave; in seguito si imbarca con gli Argonauti e li allieta nelle lunghe notti di navigazione con il suo canto rasserenante, che racconta la nascita del mondo e della natura.

L’amore e la morte

Orfeo si innamora della ninfa Euridice e la chiede in sposa, ma il giorno delle nozze il pastore Aristeo, apicoltore, impazzisce e vuole rapirla.

Euridice si lancia in una fuga disperata ma calpesta un serpente che la morde, uccidendola. Orfeo è disperato ma riesce con la sua musica ad affascinare Ade (il romano Plutone) e Persefone (la romana Proserpina) che gli concedono di riportarla in vita: né lui né Euridice, però, dovranno voltarsi a guardare indietro durante la salita dagli inferi, pena il ritorno nel regno dei morti, questa volta per sempre.

Orfeo scende nell’oltretomba e assieme a Euridice comincia la fuga verso la vita. Ma la curiosità tradisce Euridice, che si volta ed è costretta a restare per sempre negli inferi. Orfeo intona un lamento drammatico per la sua sposa, giurando che non amerà mai più altre donne, commuovendo tutta la natura. Ma un gruppo di baccanti, seguaci di Dioniso, ode il canto di Orfeo: in preda all’estasi dionisiaca, decise a punire Orfeo per il suo giuramento, lo uccidono e fanno a pezzi il suo corpo. Una pestilenza disastrosa si abbatte però sul paese: Apollo, irato per la perdita del fedele cantore, ordina come espiazione che venga costruito un tempio a Orfeo. La sua testa, che le onde del mare hanno portato fino all’isola di Lesbo, è ritrovata da un pescatore, e continuerà a dare vaticini per sempre, mentre la lira intonerà ancora un’armonia melodiosa.

L’orfismo

Collegato alla mitica figura di Orfeo è, in Grecia, l’orfismo, una delle esperienze più affascinanti e misteriose della religiosità antica. Più che un vero e proprio culto ufficiale, l’orfismo era un complesso di concezioni sulla natura, l’origine del mondo e il destino dell’uomo, nonché un modo di vita basato su comportamenti ritenuti eticamente giusti e puri (orphikòs bìos «vita orfica»).

Si trattava di una fede iniziatica e misteriosa, che cioè non si avvaleva di culti pubblici; solo pochi, infatti, venivano ammessi alla conoscenza e alla pratica dei riti religiosi. Gli orfici divenivano tali dopo un cammino di preparazione e di prove, e compivano i loro riti in disparte dalla comunità cittadina: per questo spesso erano oggetto di discriminazioni e disprezzo.

L’iniziato all’orfismo cercava con la divinità – in particolare con Dioniso – un rapporto individuale attraverso la lettura dei numerosi testi orfici che spiegavano la nascita del mondo e i precetti del culto. Doveva inoltre vivere secondo i precetti della natura: non poteva cibarsi di carne, perché credeva nella reincarnazione delle anime; non poteva, ugualmente, cremare il defunto. Doveva assicurarsi la salvezza dell’anima – un concetto che proprio con l’orfismo comincia a diffondersi fra i Greci d’età classica – attraverso rinunce e privazioni, rigore morale e purezza.

Orfeo (gr. ᾿Ορϕεύς, lat. Orpheus; etimologia discussa, forse da una radice comune al gr. ὀρϕανός e lat. orbus, con un significato di “solitudine”, “privazione”, che ricorre in nomi e termini aventi riferimento agli inferi)

MITOLOGIA

Personaggio della mitologia greca, figlio di Eagro (Οἴαγρος, il “solitario agreste”), e di una delle Muse (Polinnia o Calliope), cantore che piega al suono della sua lira gli animali e tutta la natura. I due miti salienti legati alla sua figura sono quello della katàbasis (discesa agli inferi) che egli compie per riportare in vita la sposa morta, Euridice, e quello della morte avvenuta per sbranamento da parte delle mènadi. Entrambi i miti hanno varianti: secondo una versione Orfeo sarebbe riuscito a riportare Euridice dagli inferi, mentre secondo quella diventata classica, pur avendo persuaso con il suo canto le divinità infere, sarebbe fallito nell’impresa, per aver violato la condizione di non voltarsi indietro lungo il percorso verso la terra in cui doveva precedere la donna; quanto alla morte, essa viene attribuita anche al fulmine di Zeus.

Mentre questi due miti non sono esclusivamente suoi (sia discese negli inferi sia morti per sbranamento o per fulmine si riscontrano in miti di altri eroi), Orfeo appare coinvolto, probabilmente in modo secondario, anche in altri miti (per es., egli partecipa all’impresa argonautica). Originaria sembra invece la localizzazione del personaggio nella Tracia, centro di diffusione di movimenti religiosi a carattere mistico-orgiastico confluiti nel culto dionisiaco e, appunto, nel cosiddetto orfismo. Infatti, l’importanza della figura mitica di Orfeo non si fonda tanto sui racconti variamente modellati nella tradizione poetica, quanto sul fatto che egli era il prototipo mitico di coloro che aderivano al movimento religioso che oggi chiamiamo orfismo; egli ne sarebbe stato il fondatore e autore di vari scritti “teologici” che andavano sotto il suo nome. Sullo sfondo di quel poco che si conosce intorno a questo movimento, acquistano però un significato particolare anche i miti menzionati: la preoccupazione orfica per l’immortalità spiega, almeno in parte, la katàbasis di Orfeo, mentre lo sbranamento del fondatore trova un singolare riscontro nella versione orfica della morte di Dioniso Zagreo, fanciullo divino sbranato dai Titani (ma in origine, più probabilmente, dalle mènadi). Solo una più precisa conoscenza dell’orfismo, delle sue origini, della sua consistenza come movimento e del suo vero indirizzo, permetterebbe di valutare gli elementi del mito, distinguendo quelli più antichi da quelli più recenti, quelli d’origine sacra da quelli poetici. Così, per es., i rapporti di Orfeo con Apollo che figura anche come suo padre e che come dio della lira gli è vicino, appaiono (per es., nella versione eschilea del mito) in contrasto con il culto di Dioniso cui Orfeo si sarebbe opposto; mentre d’altra parte sia il mito di Orfeo sia l’orfismo presentano elementi indubbiamente dionisiaci. Non bisogna però dimenticare che Apollo e Dioniso nella realtà religiosa greca non erano in contrasto, e a Delfi erano venerati insieme; secondo una leggenda antica la testa di Orfeo ucciso, insieme con la lira, avrebbe raggiunto, trasportata dalle onde del mare, l’isola di Lesbo, dove la testa dava oracoli in un tempio di Dioniso, mentre la lira era conservata nel tempio di Apollo. Nel 4° sec. a. C., con le nuove tendenze razionalistiche, si cominciò a dissentire sulla personalità di Orfeo e a negare (con Aristotele) la sua esistenza.

IL MITO NELLA LETTERATURA, NELL’ARTE E NELLA MUSICA

La letteratura ellenistica e l’arte figurativa trattarono il mito di Orfeo sempre più liberamente, e i Romani lo derivarono dagli alessandrini: si ricordino la descrizione nelle Metamorfosi di Ovidio e l’episodio finale del 4° libro delle Georgiche di Virgilio.

L’arte della tarda antichità ha prediletto il motivo di Orfeo che ammansisce le fiere (noto fin dal 1° sec., ma diffuso specialmente fra il 3° e il 6°), che fu adottato anche dall’arte cristiana, con varie implicazioni allegoriche (fra le quali quella del buon pastore). Nell’arte moderna il mito di Orfeo fu numerose volte soggetto di quadri e sculture. Tra i primi vanno ricordati alcuni chiaroscuri di Mantegna nella sala degli Sposi nel castello ducale di Mantova (con la punizione di Orfeo, tema che ricorre anche in taluni cassoni nuziali fiorentini), l’Orfeo di G. Bellini (collez. Widener, Filadelfia), i disegni di Leonardo per le scene della favola di Orfeo che doveva rappresentarsi a Mantova, diversi piatti di Casteldurante, di Urbino e di altri centri, la statua di P. Francavilla, e poi dipinti di D. Dosso, del Tintoretto, Rubens, Bruegel il giovane, N. Poussin, Corot, Delacroix, Spadini, i bozzetti di scena e il film di J. Cocteau, il film di M. Camus ecc.

Via via la rievocazione della storia di Orfeo ha assunto vari significati, da quello etico-pratico delle prime raffigurazioni del Rinascimento, all’espressione del dominio dell’arte sugli istinti animali, e, in direzione opposta, all’enunciazione della nullità della poesia di fronte all’avversione del destino, o della estraneità della poesia dal mondo.

Il mito di Orfeo, nelle letterature moderne, fu celebrato da A. Poliziano nella Favola di Orfeo (1480) – dalla quale è tratto il libretto (di A. Striggio) della favola in musica Orfeo (1607), di C. Monteverdi -, da Lope de Vega nella commedia El marido más firme (1625), da Calderón de la Barca nell’auto El divino Orfeo (1663). Nel sec. 20° il mito di Orfeo è stato più volte rielaborato da J. Cocteau, nel teatro (con la tragedia Orphée, 1927) come nel cinema (Orphée, 1950; Le testament d’Orphée, 1960).

Tra le opere musicali, oltre a quella di Monteverdi, vanno ricordate: La morte di Orfeo (1619) di S. Landi; Orfeo (1647) di L. Rossi; Orfeo e Euridice (1762, su versi di R. Calzabigi) di Chr. W. Gluck; L’anima del filosofo (Orfeo e Euridice) (1791 circa, ma rappresentato solo nel 1951 a Firenze) di F. J. Haydn; il poema sinfonico Orpheus (1854) di F. Liszt; l’opera comica Orphée aux Enfers (1858) di J. Offenbach; il mimodramma Orphée (1913; rappresentato 1926) di J. Roger-Ducasse; Orpheus und Eurydike (1926) di E. Křenek; il dramma musicale Orfeu da Conceição (1956) di V. de Moraes, da cui fu tratto il film Orfeu negro (1959) di M. Camus.

Òrfeo
(gr. Orphéus, lat. Orpheus)

Caratteristiche e genealogia
Mitico cantore trace, che i greci ponevano fra i capostipiti della loro tradizione poetica e musicale, accanto a Lino – che secondo alcune testimonianze sarebbe stato il maestro di Orfeo, secondo altre suo fratello – e comunque prima di Omero e di Esiodo, che talvolta erano addirittura inseriti fra i suoi discendenti. Unanimi sono le fonti antiche nell’attribuirgli per madre una delle nove Muse, per lo più Callìope. Il padre è talvolta indicato nel re di Tracia Eagro, talvolta invece nel dio Apollo (cf. Apollodoro, Biblioteca I 3, 2). I tratti di eccezionalità artistica a lui attribuiti si riassumono nel diffuso motivo leggendario che vuole Orfeo capace di incantare con la sua musica non solo gli uomini, ma anche le fiere, o addirittura gli elementi del regno vegetale (Euripide, Baccanti, 562-564) e della natura inanimata (Apollonio Rodio, Argonautiche I 25-27).

Vicende mitiche
Due sono i racconti cui Orfeo è tradizionalmente legato: il viaggio degli Argonauti alla volta della Colchide, per recuperare il vello d’oro, e la catabasi infernale (discesa agli inferi) cui lo costrinse la morte della moglie Euridìce. Alla spedizione guidata da Giasone Orfeo diede un contributo fondamentale, vincendo nel canto le Sirene e impedendo così che l’equipaggio cedesse alle lusinghe del loro canto (Apollonio Rodio, Argonautiche IV 891-911). La discesa nell’Ade è invece un racconto al cui tragico finale è rimasta legata, attraverso i secoli, la fama di Orfeo. Il cantore aveva preso in moglie Euridice, figlia di Nèreo e di Dòride. Un giorno la giovane donna fu morsa da un serpente – mentre tentava di fuggire Aristèo intenzionato a usarle violenza, secondo la versione del mito raccolta da Virgilio nel IV libro delle Georgiche – e così trovò la morte. Amandola intensamente ed essendo incapace di trovare consolazione, Orfeo decise di scendere agli inferi per convincere le divinità sotterranee a restituirgli, contro ogni legge di natura, la sposa perduta. Al suo ingresso nell’Ade, le più tenebrose e feroci creature che secondo il mito popolavano il mondo sotterraneo furono incantate e commosse dal suo canto: non seppero resistergli né le Erinni, né il cane Cèrbero, né Persèfone né Ade stesso. Così a Euridice fu concesso il ritorno alla luce, al solo patto che durante la risalita Orfeo, che avrebbe dovuto precedere la moglie, non si voltasse mai indietro per gettarle uno sguardo. Incapace di resistere, o accecato per volere del destino, Orfeo si voltò quando ormai il viaggio di ritorno stava per essere compiuto. Allora Euridice svanì nel nulla e a Orfeo fu vietato di rivedere ancora la propria sposa. Per lunghi mesi il cantore trascorse il suo tempo a piangere e a cantare dolcemente la moglie perduta: alla sua musica si ammansivano le bestie feroci, si sommuovevano le querce. Finché, avendo irritato le Baccanti di Tracia con l’ostinazione del suo lutto e con il rifiuto di cedere nuovamente all’amore e ai piaceri della vita, Orfeo fu ucciso e smembrato: i brani del suo corpo furono sparsi dalle Baccanti per i campi e la sua testa fu gettata nel fiume Ebro. Secondo tradizioni posteriori, il capo di Orfeo sarebbe infine approdato sulle coste di Lesbo, garantendo all’isola – patria fra gli altri di Saffo e di Alceo – una secolare fortuna nell’àmbito del canto e della musica.

Orfeo e il cosiddetto “orfismo”
Il nome di Orfeo fu ben presto legato a un movimento di carattere filosofico-religioso assai discusso tanto per la sua origine, quanto per le sue dottrine e per la sua stessa natura di tradizione unitaria e omogenea: è il cosiddetto “orfismo”, che già Erodoto (Storie II 81), e con lui molti studiosi moderni, mette in relazione da una parte con la religione dionisiaca (lo smembramento di Orfeo ricorda da vicino la storia mitica dello stesso Dioniso), dall’altra con la setta dei pitagorici e con il cosiddetto pitagorismo, complesso di dottrine filosofiche e misteriche che si richiamano al filosofo samio Pitagora (attivo a Crotone, in Magna Grecia, a partire dal 530 a.C. ca.).

Sotto il nome di Orfeo sono giunti sino a noi testi di varia epoca e di diverso contenuto: ottantasette Inni (preghiere agli dèi) foggiati sul modello degli Inni omerici, ma ispirati a una religiosità ben diversa dalla religiosità classica tradizionale; un poema epico dal titolo Argonautiche orfiche; un poema dedicato alle virtù delle pietre e intitolato Lithiká («Versi sulle pietre»); infine, un corpus di oltre 360 frammenti (fra brani in versi, brani in prosa, testimonianze dottrinarie) provenienti da diverse fonti. Mentre è universalmente riconosciuto che gli Inni, le Argonautiche orfiche e i Lithiká devono essere attribuiti ad epoca relativamente tarda (nessuno di essi è certamente anteriore al II secolo d.C.), tra i frammenti orfici si celano senza dubbio testi o dottrine risalenti almeno al VI-V secolo a.C. Essi veicolano un sapere assai composito, che va da teorie teogoniche e cosmogoniche eterodosse (nella tradizione orfica ricoprono un ruolo fondamentale divinità come Chrónos, il «Tempo», Phánes, dio ermafrodita, Eros, l’Amore, e infine Dioniso [Zagréus], oggetto di sacrificio rituale – smembramento e cottura – da parte dei Titani, con successiva ‘resurrezione’) a un nutrito insieme di rivelazioni relative all’oltretomba e ai destini delle anime dopo la morte, sino all’elaborazione di pratiche tabuistiche e dietetiche miranti alla purificazione dell’anima dai suoi legami con il corpo e con la vita terrena. In questo nucleo di dottrine escatologiche (la credenza nella vita ultraterrena e nell’immortalità dell’anima) e di prescrizioni catartiche (fra cui spicca l’astensione dalla carne e dal sacrificio animale – uno dei capisaldi della religione antica – nonché una rigida pratica di castità o di temperanza sessuale) gli studiosi sono concordi nell’individuare uno dei tratti originari dell’orfismo.

È soprattutto dal V secolo a.C. che il fenomeno dovette assumere una marcata visibilità sociale, quando il messaggio dell’orfismo – se mai si trattò di un messaggio unitario – venne affidato soprattutto alla predicazione di apostoli itineranti, non di rado accusati di ciarlataneria (durissimo è il giudizio che ne dà Platone nella Repubblica, 364b-365a, descrivendoli come truffatori particolarmente assidui nelle case degli ateniesi più facoltosi). Testimonianze relative a tali predicazioni si trovano quindi in Erodoto, in Euripide (è tratteggiato con le caratteristiche del tipico orfico l’Ippolito dell’omonima tragedia: cf. vv. 952-954) e nel comico Aristofane. In ogni caso, anche se alcuni aspetti dell’orfismo possono essere considerati sicuri e relativamente stabili (in particolare la fede nell’immortalità dell’anima e nella sua eventuale reincarnazione, con tutte le pratiche rituali e iniziatiche legate a tali credenze), gli studiosi sono oggi molto prudenti nel considerare il movimento come una ‘setta’ organizzata e compiutamente stratificata: si ha piuttosto la sensazione di trovarsi di fronte a un fenomeno complesso, frastagliato, estremamente differenziato sia in senso sociologico, sia in senso dottrinario.

Quanto ai numerosi testi attribuiti a Orfeo, è certo che tale uso sia da mettere in relazione con la diffusa pratica della pseudoepigrafia (falsa attribuzione di testi a personaggi illustri) che fra VI e V secolo a.C. interessò pressoché tutti i cantori e i sapienti della tradizione più antica, ivi comprese figure ritenute spesso ‘storiche’ come Omero ed Esiodo. A tempi recenti risale la scoperta delle cosiddette ‘laminette orfiche’: un corpus di ca. 20 lamine d’oro recanti iscrizioni, ritrovate in Italia meridionale, a Creta e in Tessaglia, databili al IV-III secolo a.C. (la più antica e celebre fra esse viene da Hippònion [Vibo Valentia] e si data al 400 a.C. ca.) e contenenti per lo più istruzioni relative al viaggio oltretombale delle anime iniziate alla dottrina di Orfeo: notevole è il ruolo in esse giocato dalla dea Mnemosyne («Memoria»), l’unica in grado di garantire gli iniziati contro l’oblio che li condannerebbe a un’eterna e umiliante metempsicosi, e dal mito del dio Dioniso-Zagréus, dalla cui uccisione per mano dei Titani deriverebbe – recando con sé le tracce di quella colpa originaria – la stirpe dei mortali. Gli studi più recenti tendono a mettere in relazione tali dottrine con le sette pitagoriche attive nell’Italia meridionale e manifestamente contigue a forme rituali e sapienziali caratteristiche del cosiddetto ‘orfismo’.

La leggenda principale narra della discesa agli inferi di Orfeo da vivo. Dopo che la sua amata Euridice morì morsicata da un serpente, si presentò nell Ade per riprenderla incantando con il suo canto il cane Cerbero e il re e la regina dei morti (Plutone e Persefone). Egli ottenne la restituzione alla condizione di camminare avanti senza voltarsi finché non avessero entrambi raggiunta la loro dimora terrena. Tuttavia Orfeo proprio quando intravide il primo barlume di luce si voltò e, vide Euridice che immediatamente svanì come ombra. Orfeo, desolato, tornò nelle regioni della Tracia qui andò cantando un pianto tale da commuovere gli animali. Zeus, spinto dalla compassione, lo privò della vita mediante un suo fulmine. Marco Sartor ­– Classe IVC – Anno Scolastico

Leonardo Da Vinci. Un genio del Rinascimento. Religione, arte. Lezione maggio 2019

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Leonardo Da Vinci. Un genio del Rinascimento. Religione, arte.

Leonardo Da Vinci. Un genio del Rinascimento. Religione, arte.

Breve biografia della vita e delle opere del genio universale Leonardo da Vinci

L’Annunciazione è un dipinto a olio e tempera su tavola (98×217 cm), attribuito a Leonardo da Vinci, databile tra il 1472 e il 1475 circa e conservato nella Galleria degli Uffizi di Firenze.

ULTIMA CENA – LEONARDO DA VINCI

L’Ultima Cena è un dipinto parietale a tempera grassa su intonaco di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell’ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

 

VERGINE DELLE ROCCE – LEONARDO DA VINCI

ULTIMA CENA – LEONARDO DA VINCI

 

VERGINE DELLE ROCCE – LEONARDO DA VINCIRisultati immagini per Vergine delle Rocce

La seconda versione della Vergine delle Rocce è un dipinto a olio su tavola di Leonardo da Vinci, conservato nella National Gallery di Londra.
La prima versione del dipinto, è invece al Museo del Louvre.
Il dipinto venne commissionato dai confratelli dell’Immacolata Concezione di Maria di Milano per il loro altare nella chiesa di San Francesco Maggiore, ma ci furono dei problemi e si arrivò a una seconda versione poi effettivamente esposta nella chiesa, ora scomparsa.

Marsìlio da Padova

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE,Religione — giacomo.campanile @ 10:34

Rettore dell’Università di Parigi, nel 1324 pubblica il Defensor Pacis. presupposto: la teoria aristotelica dell’uomo come animale sociale. lo Stato ha il suo fondamento nel consenso popolare. il sovrano dev’essere eletto dal popolo; il papa deve essere eletto dal concilio.

Politico e teologo (n. Padova tra il 1275 e il 1280 – m. Monaco di Baviera tra il 1342 e il 1343), figlio di Bonmatteo dei Mainardini, notaio dell’università di Padova. Svolse studî di medicina a Padova, in un ambiente dominato dalla figura di Pietro d’Abano, conseguendo il dottorato. Recatosi a Parigi, si iscrisse alla facoltà delle Arti divenendone maestro e in seguito rettore (1313). Qui scrisse l’opera sua maggiore, il Defensor pacis (1324), e strinse rapporti con i maestri averroisti, in particolare con Giovanni di Jandun. Venne altresì in contatto con la dottrina della povertà evangelica sostenuta dagli Spirituali francescani, alcuni dei quali, come Guglielmo di Occam, Michele da Cesena, Bonagrazia da Bergamo, trovarono rifugio alla corte dell’imperatore Ludovico, dove, dopo la condanna pontificia del Defensor pacis, anch’egli riparerà. Nella sua opera M. intende svolgere un’analisi razionale della natura del potere politico, considerando non le varie forme di governo (come Aristotele nella Politica), ma le strutture stesse dell’organizzazione politica, il legislatore, la legge, il governo. La “totalità dei cittadini” (universitas civium) è la fonte unica della legge (legislator); il governo è l’espressione della totalità dei cittadini che lo elegge e ne controlla gli atti. Il governo quindi non è fonte di diritto, ma è sottoposto alla collettività. La legge, peraltro, non trae la sua forza da un principio naturale o divino, ma esclusivamente dalla volontà dei cittadini o nella loro totalità, dai sapienti agli artigiani, o nella “parte più valente” (valentior pars), lasciando fuori chi per natura è incapace di deliberare. In questa prospettiva, certamente originale, la legge trae valore dal suo essere tale, legge positiva, espressione di una volontà collettiva, imposta per il “bene vivere” della collettività. Il corpo politico è autonomo nell’imporre la legge, nettamente distinto dalla Chiesa, collettività dei fedeli che non può esercitare alcun potere positivo, (contro la tesi canonistica della “pienezza dei poteri” del pontefice), né può possedere beni terreni (secondo quanto insegnavano i maestri francescani vicini a M.). La Chiesa è la “totalità dei fedeli” (universitas fidelium) e ad essa spettano il controllo sull’autorità ecclesiastica, l’elezione dei sacerdoti e del papa (attraverso il concilio cui anche i laici devono prendere parte). Così radicalmente distinti, Chiesa e Stato sono autonomi nelle loro sfere: alla Chiesa spetta il compito di ammaestrare, ma non di scomunicare; allo Stato o Impero quello di esercitare il potere politico nella persona dell’imperatore; all’imperatore compete anche il supremo controllo sulla conformità degli atti papali alle decisioni conciliari e alla fede. Di queste sue teorie M. tentò anche una pratica realizzazione allorché, sceso in Italia al seguito di Ludovico il Bavaro nel 1327, organizzò la cerimonia dell’11 gennaio 1328 in cui l’imperatore ricevette le insegne del potere dalle mani di Sciarra Colonna, rappresentante del popolo romano; e ancora quando ispirò i documenti imperiali che dichiaravano deposto Giovanni XXII e nominavano l’antipapa Niccolò V. Tornato in Germania, M. compose anche il De iurisdictione imperatoris in causis matrimonialibus, poi rifuso nel Defensor minor (1342), e il De traslatione imperii.

 

MARSILIO DA PADOVA: PENSIERO
 Marsilio da Padova, rettore dell’università di Parigi e monaco, si trova nella capitale del regno Capetingio quando si sviluppa la lotta tra Filippo IV detto “il Bello” e Papa Bonifacio VIII.

Testimone di questo scontro lo vede parte di un vivace contesto culturale in cui si muoveva, la vita culturale dell’Accademia parigina. Egli scrisse “Defensor Pacis” che lo renderà talmente noto da favorire la sua ascesa come consigliere politico di Ludovico Il Bavaro, Imperatore del Sacro Romano Impero del Regno della Germania. Marsilio lo accompagnò a Roma nel 1327 nella sua incoronazione che avvenne ad opera del popolo romano anziché per rito pontificio.
La legittimità della sovranità non arriva dal Papa ma dal popolo.
Marsilio propagandava la necessità di un impero laico che avrebbe portato alla diffusione di una laicizzazione generale.
Tanto è vero che nel 1356 verrà emanata la Bolla d’Oro che stabilì che l’imperatore doveva essere eletto da un Concilio che metteva insieme laici e uomini religiosi (4 sono principi laici, anche se ispirati religiosamente,e 3 sono Arcivescovi).

CONCEZIONE POLITICA MARSILIO DA PADOVA
 Marsilio arriva a dire che tutto quanto non è dimostrabile per mezzo della ragione non è politico. Il politico è autonomo da un giudizio morale.
Con Marsilio, a differenza di quanto aveva detto Tommaso d’Aquino (in cui ordine naturale e spirituale sono in una dimensione parallela e complementare) vi è un’assoluta separatezza. tra ordine naturale e ordine spirituale.
La comunità dei cittadini ha la sovranità, civis è la civitas, la cittadinanza quale unica fonte legittima della legge. Il potere legislativo spetta al popolo.
Il Governo, di conseguenza, ha una delega da parte del popolo ma se chi governa lo fa in modo improprio non ha l’autorità per mantenere quel ruolo. Se ben governi mantieni il ruolo ma se mal governi è legittimo che tu venga sostituito. L’individuo che fa parte di questa comunità, nel momento in cui tale comunità esprime la sua sovranità, sarà obbligato a rispondere alle leggi che la comunità si da nell’ organizzare la propria vita.
C’è un processo di laicizzazione a 360°.

MARSILIO DA PADOVA: PENSIERO POLITICO
 Marsilio nega il primato non solo temporale ma anche spirituale del Papa; siamo in presenza del trasferimento del papato ad Avignone in Francia e la sua nomina passa tra asprissime lotte tra le famiglie romane, dette nobiltà nera .
Il pontefice non è infallibile, non è dotato di quell’aurea divina, ma il suo potere è una stratificazione che si è creata nella storia, di un primato che era morale e che poi si è fatto politico. Il Papa esprime una tipologia di potere, e Marsilio laicizza e disincanta la visione sacrale del suo ruolo. L’autorità a lui negata viene data al Concilio Ecumenico che dovrà eleggere il Papa ed è fonte di sovranità. Per Marsilio il clero è composto da cittadini che di fatto sono uguali ai laici di fronte alle leggi dello stato e il Papa, nel momento in cui usurpa l’autorità del re, è un perturbatore della comunità cristiana. Ricordiamoci che Marsilio è l’intellettuale di corte di Filippo IV Il Bello.

 

LA CONVERSIONE DI SAN PAOLO – PARMIGIANINO

Filed under: ARTE,LEZIONI 2014-15,Religione — giacomo.campanile @ 10:31

La Conversione di San Paolo è un dipinto del Parmigianino, soprannome di Girolamo Francesco Maria Mazzola, conservato nel Kunsthistorisches Museum a Vienna.
Racconta un episodio biblico tratto dagli Atti degli Apostoli: il romano Saulo persecutore dei Cristiani è sulla strada di Damasco, quando all’improvviso si squarcia il cielo e il Signore gli parla..
A seguito di questo episodio Saulo diventato cieco si convertirà e recupererà la vista a seguito del battesimo.


Girolamo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino (Parma, 11 gennaio 1503 — Casalmaggiore, 24 agosto 1540), è stato un pittore italiano, fondamentale esponente della corrente manierista; deve il soprannome alle sue origini.

ULTIMA CENA – LEONARDO DA VINCI

Filed under: ARTE,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 10:27

ULTIMA CENA – LEONARDO DA VINCI

Leonardo da Vinci - The Last Supper high res.jpg

L’Ultima Cena è un dipinto parietale a tempera grassa su intonaco di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell’ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

Il Cenacolo è un dipinto parietale ottenuto con una tecnica mista a secco su intonaco[1] (460×880 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e realizzato su commissione di Ludovico il Moro nel refettorio del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.

Si tratta della più celebre rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Nonostante ciò, l’opera – a causa della singolare tecnica sperimentale utilizzata da Leonardo, incompatibile con l’umidità dell’ambiente – versa da secoli in un cattivo stato di conservazione, cui si è fatto fronte, per quanto possibile, nel corso di uno dei più lunghi restauri della storia, durato dal 1978 al 1999 con le tecniche più all’avanguardia del settore. In oltre 17 anni, l’Olivetti (società finanziatrice del progetto dal 1982 al 1999) sostenne per il restauro un costo di circa 7 miliardi di lire.

« Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Di’, chi è colui a cui si riferisce?». Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. »   (Giovanni 13, 21-26 Gv13,21-Gv13,26)

Il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13:21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi apostoli. L’opera si basa sulla tradizione dei cenacoli di Firenze, ma come già Leonardo aveva fatto con l’Adorazione dei Magi, l’iconografia venne profondamente rinnovata alla ricerca del significato più intimo ed emotivamente rilevante dell’episodio religioso. Leonardo infatti studiò i “moti dell’animo” degli apostoli sorpresi e sconcertati all’annuncio dell’imminente tradimento di uno di loro

Appunti sulla composizione del Cenacolo

«Uno, che beveva, lascia la zaina nel suo sito, e volge la testa inverso il proponitore. Un altro tesse le dita delle sue mani insieme, e con rigide ciglia si volta al compagno; l’altro, colle mani aperte, mostra le palme di quelle, e alza la spalla inverso li orecchi, e fa la bocca della meraviglia. Un altro parla nell’orecchio all’altro, e quello che l’ascolta si torce inverso lui, e gli porge li orecchi, tendendo un coltello nell’una mano e nell’altra il pane, mezzo diviso da tal coltello. L’altro, nel voltarsi, tenendo un coltello in mano, versa con tal mano una zaina sopra della tavola. L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda, l’altro soffia nel boccone, l’altro si china per vedere il proponitore, e fassi ombra colla mano alli occhi, l’altro si tira indirieto a quel che si china, e vede il proponitore infra ‘l muro e ‘l chinato.»

L’ambientazione e la figura di Cristo
Dentro la scatola prospettica della stanza, rischiarata da tre finestre sul retro e con l’illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all’antica finestra reale del refettorio, Leonardo ambientò in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura isolata di Cristo, dalla forma pressoché piramidale per le braccia distese. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase.

Linee prospettiche e compositive del Cenacolo.
Col suo gesto di quieta rassegnazione, Gesù costituisce l’asse centrale della scena compositiva: non solo delle linee dell’architettura (evidente nella fuga di riquadri scuri ai lati, forse arazzi), ma anche dei gesti e delle linee di forza degli apostoli. Ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.

Dal punto di vista geometrico l’ambiente, pur essendo semplice, è calibrato. Attraverso elementari espedienti prospettici (la quadratura del pavimento, il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola) si ottiene l’effetto di sfondamento della parete su cui si trova il dipinto, tale da mostrarlo come un ambiente nell’ambiente del refettorio stesso, una sorta di raffinato trompe l’oeil. La luce proviene da sinistra, e in effetti in quel lato si aprono le uniche finestre che illuminano l’ambiente. Il chiarore illusorio proveniente dal fondo, invece, dona a Cristo un isolamento sovrannaturale e al tempo stesso determina un effetto di ‘controluce’.

Secondo uno studio recente, il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso, appartenente al territorio dell’alto Lario

Gli apostoli

Filippo apostolo.

Da sinistra: Bartolomeo, Giacomo Minore e Andrea.
Attorno a Cristo gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, diversi, ma equilibrati simmetricamente. L’effetto che ne deriva è quello di successive ondate che si propagano a partire dalla figura del Cristo, come un’eco delle sue parole che si allontana generando stati d’animo più forti ed espressivi negli apostoli vicini, più moderati e increduli in quelli alle estremità. Ogni singola condizione psicologica è approfondita, con le sue peculiari manifestazioni esteriori (i “moti dell’animo”), senza però compromettere mai la percezione unitaria dell’insieme.

Pietro (quarto da sinistra) con la mano destra impugna il coltello, come in moltissime altre raffigurazioni rinascimentali dell’ultima cena, e, chinandosi impetuosamente in avanti, con la sinistra scuote Giovanni chiedendogli “Di’, chi è colui a cui si riferisce?” (Gv. 13,24). Giuda, davanti a lui, stringe la borsa con i soldi (“tenendo Giuda la cassa” si legge in Gv. 13,29), indietreggia con aria colpevole e nell’agitazione rovescia la saliera. All’estrema destra del tavolo, da sinistra a destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone esprimono con gesti concitati il loro smarrimento e la loro incredulità. Giacomo il Maggiore (quinto da destra) spalanca le braccia attonito; vicino a lui Filippo porta le mani al petto, protestando la sua devozione e la sua innocenza.

La probabilità che certi particolari della composizione possano essere stati suggeriti dai domenicani (forse dallo stesso priore Vincenzo Bandello) è data dal fatto che questo ordine religioso dava grande importanza all’idea del libero arbitrio: l’uomo non sarebbe predestinato al bene o al male ma può scegliere tra le due possibilità.[27] Giuda infatti nel dipinto di Leonardo è raffigurato in modo differente dalla grande maggioranza delle ultime cene dell’epoca, dove lo si vede da solo, al di qua del tavolo. Leonardo raffigura invece Giuda assieme agli altri apostoli, e così aveva fatto pure il domenicano Beato Angelico, nell’Ultima Cena dell’Armadio degli Argenti esposta al Museo di San Marco a Firenze, lasciandogli l’aureola al pari degli altri. Altra evidente differenza tra l’opera di Leonardo e quasi tutte le ultime cene precedenti è il fatto che Giovanni non è adagiato nel grembo o sul petto di Gesù (Gv. 13,25) sebbene sia separato da lui, nell’atto di ascoltare la domanda di Pietro, lasciando così Gesù solo al centro della scena.

Che la scena raffigurata da Leonardo derivi dal quarto vangelo è intuibile, oltre che dal “dialogo” tra Pietro e Giovanni, dalla mancanza del calice sulla tavola. Diversamente dagli altri tre, detti vangeli sinottici, nel quarto non è descritta la scena che viene ricordata durante la Messa al momento della consacrazione: “Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26,27). Giovanni, dopo l’annuncio del tradimento, scrive invece così: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv. 13,34).

LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE RAFFAELLO

Filed under: ARTE,LEZIONI 2014-15,LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 10:26

LO SPOSALIZIO DELLA VERGINE RAFFAELLO

Lo Sposalizio della Vergine è un dipinto a olio su tavola di Raffaello Sanzio, datato 1504 e conservato nella Pinacoteca di Brera a Milano. È firmato “Raphael Vrbinas” e datato “MDIIII”
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MADONNA SISTINA – RAFFAELLO SANZIO

Filed under: ARTE,LEZIONI 2014-15,Religione — giacomo.campanile @ 09:44

MADONNA SISTINA – RAFFAELLO SANZIO

La Madonna Sistina è un dipinto a olio su tela di Raffaello, databile al 1513-1514 circa e conservato nella Gemäldegalerie di Dresda.
L’opera venne dipinta per il convento di San Sisto a Piacenza, come conferma la presenza di due santi ivi particolarmente venerati.
Quest’opera è nota al grande pubblico fondamentalmente per i due angioletti posti sul parapetto della finestra che sono stati riprodotti in svariati gadget.

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