7 Luglio 2012

HANS URS VON BALTHASAR CHI È IL CRISTIANO?

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HANS URS VON BALTHASAR
CHI È IL CRISTIANO?
MEDITAZIONI TEOLOGICHE

QUERINIANA BRESCIA 1966
Titolo originale Wer ist ein Christ? Benziger Verlag, Einsiedeln, 1965
Traduzione dal tedesco di GIOVANNI VIOLA

HANS URS VON BALTHASAR

Chi è il cristiano?

Meditazioni teologiche

I – PICCOLA SCHERMAGLIA D’APERTURA

L’ANGOSCIOSA DOMANDA

I giovani pongono domande. Chi sa dare la risposta? Prima di domandare i giovani si guardano intorno con una diffidenza metodica non ingiustificata. Questi uomini, che si dicono cristiani, su che cosa fondano la loro pretesa? Sull’abitudine, sulla tradizione, su qualcosa che hanno imparato a memoria nell’istruzione giovanile? Ma tutto questo su che cosa si fonda, su che si misura la tradizione, il catechismo, la prassi sacramentale? Sul Vangelo? Ma in esso le cose si presentano molto diversamente. Si deve perciò inserire frammezzo il magistero della Chiesa. E quindi le difficoltà aumentano, perché non si vede più direttamente l’origine, ma si deve guardare per vie indirette, ed incominciano le noiose dispute sulle pretese del clero di conoscere con esattezza l’intenzione del fondatore, di interpretarla rettamente e più ancora di imporre autoritativamente questa interpretazione alle coscienze. Ma poiché tali interpretazioni in qualche modo riflettono sempre – e chi potrebbe trovarvi a ridire? – il loro tempo, per il quale sono anche state fatte, non può non avvenire che, mutato lo spirito dei tempi, le interpretazioni proposte con grande forza perdano di attualità, diventino incolori, schematiche e sovente penose; parecchie cose appaiono come ‘ideologie’ legate al tempo; un nuovo aggiornamento si rivela inevitabile. Taluni manifestano rumorosa ammirazione per la continua ‘forza di ringiovanimento’ della Chiesa, altri esprimono un sommesso rammarico che posizioni, ostinatamente difese cosi a lungo, vengano abbandonate, sgombrate, smantellate come fortini senza importanza o come bastioni antiquati. Sorge cosi, ancora più angosciosa, la domanda: dov’è in definitiva la norma? Poiché l’elemento storico scivola via a modo di dune mobili, lo sguardo scrutatore si rivolge alle origini: dov’è il fondamento roccioso, dov’è una risposta in equivocabile alla domanda ‘Chi è il cristiano’? E quand’anche essa non tormentasse me personalmente, mio figlio vuol sapere ed io non posso agire nei suoi confronti come se sapessi, ed ingannare cosi la sua coscienza. Se sono insegnante, abuso della mia autorità se inculco agli allievi cose per cui io stesso non posso porre la mano sul fuoco. Se sono compagno di lavoro o di svago, l’amico ed il nemico che mi sono accanto vogliono sapere ancor di più che non lo scolaro dal maestro e si lasciano tacitare meno facilmente. Se non mi pongo io stesso la domanda, mi costringono a farlo gli altri.

PENOSAMENTE ISOLATO

Il cristiano che è interrogato e che interroga è più che mai isolato. Finora c’era sempre un punto di contatto per il dialogo religioso, sembrava almeno che ci fosse un fondo comune di certezza, e la discussione riguardava solo differenze secondarie. La posizione di Paolo sull’areopago, dopo una passeggiata mattutina attraverso i templi ed i santuari di Atene, ci appare addirittura invidiabile. I suoi interlocutori sono ‘religiosissimi’, non solo vedono la divinità in azione dovunque nell’universo, ma non hanno alcuna difficoltà a credere con maggior o minor sicurezza ogni specie di rivelazioni particolari e riconoscono il culto, che lo stato decreta loro. Non si tratta più, per cosi dire, che di svelare il ‘Dio ignoto’ e di provare che la sua manifestazione nella morte e risurrezione di Cristo non ha paragone con gli altri. Certamente in seguito, con Roma, le cose per un momento si fanno più difficili, ma la vittoria è conseguita relativamente presto; e da allora il dialogo religioso, attraverso il medioevo, il rinascimento ed il barocco, l’illuminismo e l’idealismo, fino all’ultimo secolo rimane nella cornice del dialogo dell’areopago. San Tommaso parla con i giudei e i ‘pagani’ (cioè con l’Islam): presupposto comune è il riconoscimento di principio della divinità nella sua distinzione dal mondo, ed inoltre la personalità di Dio e la sua rivelazione in uno o più profeti storici. Con tali premesse Ruggero Bacone, Raimondo Lullo, Nicolò Cusano abbozzano il loro dialogo religioso conciliativo, spesso molto condiscendente. Il rinascimento, rifacendosi all’antichità e riflettendo su ulteriori fatti di storia della religione presentatisi a poco a poco alla riflessione, lo continua e vede il cristianesimo come la forma più alta e più bella delle religioni dell’umanità. Infatti, nel confronto, salta agli occhi la preminenza, l’assoluta superiorità della rivelazione di Cristo. L’illuminismo, in linea di principio, la pensa allo stesso modo, anche se l’accento si sposta e le religioni del mondo appaiono ora del tutto sotto il segno della ‘disposizione’ religiosa dell’uomo in quanto tale. Ma questa disposizione, essendo appunto una delle possibilità o ‘facoltà’ dell’uomo, viene assoggettata ad una sempre più acuta critica filosofica e poi storico-scientifica: se l’uomo ‘può’ essere religioso, può egli stesso costruir si il suo dio, e si può dimostrare come le immagini di Dio corrispondono ai suoi mutevoli bisogni e stadi culturali e quindi anche che egli, divenuto maturo, può essere indotto a pensare di fabbricarsi personalmente i propri ideali, per soddisfare il suo bisogno di amore e di adorazione, il suo sentimento di giustizia, la sua volontà di sopravvivere felice dopo la morte. Ma un simile assortimento di pupazzi non converrebbe più all’uomo maturo, e di fatto si può benissimo farne anche a meno. L’uomo, una volta lasciato a se stesso, pare che vada avanti persino più rapidamente e consapevolmente. Oggi non c’è più una persona ragionevole che preghi; l’era della contemplazione è passata, ora c’è l’azione: l’uomo non assume soltanto l’amministrazione del suo mondo, ma anche di se stesso, e fa di sé ciò che vuole. E tu, cristiano, esiti ad inserirti nel nuovo ritmo dell’umanità che dispone di se stessa? Ma allora hai preso in anticipo una decisione contro la logica della storia del mondo; non soltanto cadi sotto le ruote, ma queste già ti sopravanzano. Prima, nell’antichità, tutto – sia nei filosofi pagani che nei cristiani – ruotava attorno alla ‘conversione’ (rivolgimento, epistrophé) dal mondo a Dio. Oggi si esige che tutti, anche tu che così a lungo, troppo a lungo, hai guardato in direzione di Dio, girino in senso radicalmente inverso: conversione al mondo.[1] Non rientra infatti questo nella tua stessa logica cristiana? I primi discepoli non sono mandati dal loro Maestro in tutto il mondo? Contraddici a te stesso se tu solo, mentre tutti guardano in avanti, guardi fisso all’indietro.
 Il cristiano si guarda attorno in cerca di aiuto; ciò che una volta lo avvolgeva come un abito che forniva protezione e calore è scomparso ed egli si sente penosamente nudo. Si sente come un fossile di epoche tramontate.

ETICA MEDIANTE LA STATISTICA

Con la scomparsa della religione scompare naturalmente anche la forma dell’etica che si fonda sulla religione. Si tratta, da una parte, dell’etica che poggia completamente o prevalentemente sul pensiero di un’eterna giustizia e retribuzione: ma l’uomo o è morale in se stesso, o non lo è affatto; un agire per il premio o per il castigo è moralmente pericoloso, in ogni caso non puro. Si tratta, dall’altra parte, dell’etica superiore che fa il bene ad imitazione del sommo bene: poiché Dio ci dà l’esistenza, poiché Dio fa sorgere disinteressatamente il suo sole sui buoni e sui cattivi, anche noi vogliamo essere grati e disinteressati. Ma in che modo, se Dio non esistesse? Questo disinteresse non sarebbe allora insito anche nella natura dell’uomo? Non vi avvia già ad esso il regno sociale degli animali, che in noi trova soltanto una forma superiore di autogoverno? Inoltre, questo preteso disinteresse non è necessariamente controbilanciato da un naturale e sano voler essere se stesso, da un amore ed una cura di sé, quale possiede, in modo del tutto elementare, il vivente inferiore all’uomo? Allora il carattere etico dovrebbe stare, in qualche modo, nel giusto mezzo tra rapporto con sé ed altruismo. Per notare cose così semplici l’uomo non ha certamente bisogno di un rapporto con Dio, addirittura di una vera e propria rivelazione.
Considera inoltre, caro compagno cristiano, se le tue elevate esigenze morali non siano estranee al mondo anche perché, assieme all’etica dell’antico mondo sorpassato, costituivano un’etica per ‘eroi’ (tu li chiami ‘santi’), per uomini aristocratici-migliori, così come nel teatro antico i personaggi che comparivano in scena nelle rappresentazioni serie non potevano essere che re, eroi e dèi (nel teatro cristiano: martiri od altri santi eroici, e se mai angeli e simili), mentre la gente comune poteva avere una parte solo in commedie salaci, dove del resto dèi e uomini si gabbavano allegramente tra loro. Così era una volta e così fu ancora per molto tempo in epoche cristiane.
 Ma ciò che realmente l’uomo è e può, appare chiaro solo se non lo si misura più su queste nobili immagini-guida, su questi ideali che la media non può raggiungere, a cui anzi non può neppure aspirare, ma se lo si prende una buona volta realisticamente com’è. Ciò avviene nel modo più semplice, mediante l’inchiesta, il servizio giornalistico, la statistica. La media, ottenuta forse su una vastissima base di rilievi, non rivela affatto soltanto che la maggioranza degli uomini appartiene alla massa dannata, ma che a modo suo è civilissima, possiede anche qualcosa come una ‘gerarchia di valori’, che quindi non è necessario imporla dall’esterno e dall’alto, e inoltre, che chi prende la gente com’è, trova certamente in essa un’accoglienza anche migliore di colui che da un qualche alto monte, accessibile soltanto all’élite, le porta dieci o cinquanta comandamenti.
 Anche tu, caro compagno cristiano, sei materiale da statistica. Una determinata percentuale dell’umanità è cristiana di nome. A sua volta una frazione è (ancora più di nome) cattolica. Lascio che facciate voi stessi una statistica in quale percentuale siete anche ‘realmente’ cristiani e cattolici; mi sono oscuri i metodi di cui intendete servirvi per scoprirlo.
 Non è sufficiente la statistica per stabilire determinate norme aventi validità generale per il comportamento umano, e quindi obbligatorie, a tutela delle quali porre, se necessario, la polizia? A che pro tutto il gran parlare di un imperativo categorico aprioristico o di un diritto naturale altrettanto aprioristico? Eppure è sufficiente dire che l’uomo, per vivere da essere biologico e nello stesso tempo ragionevole con i suoi simili, deve riflettere su determinate regole di gioco e limitare la sua sfrenatezza. Per il resto essere liberale, tollerante. Singole religioni e sistemi morali, finché non sono del tutto inconciliabili con il bene comune, possono essere proposti alla libera scelta dell’individuo; così una libera concorrenza dovrebbe, alla lunga, tornare a vantaggio anche di tutti i propagandisti. Perché? Perché è già molto essere uomini onesti, e nessuna religione dispensa dall’esserlo; anzi, ogni religione tanto più si raccomanderà di fronte all’umanità, quanto più produce uomini onesti; uomini che realizzano ciò che i più portano in sé come un’immagine che desiderano incontrare in altri, anche se forse non riescono a realizzarla personalmente.

IL PESO DEI MORTI

I contemporanei del cristiano hanno una memoria fatale per la sua lunga storia; una memoria migliore della sua, di lui, il cristiano, che oggi vorrebbe partire da zero ed essere moderno tra uomini moderni. Gli altri non si sentono necessariamente onerati, o ben poco, da una tradizione: i morti hanno avuto la loro responsabilità, noi abbiamo la nostra, ciò che essi hanno fatto con la loro non ci riguarda. Anche il protestante si sente poco onerato dai primi quindici secoli cristani: videant consules cioè i papi. Per il cattolico questa storia non può essere respinta; il suo principio cattolico della tradizione, comunque sia inteso, glielo vieta; la stessa Chiesa, alla quale egli si sottomette, ha fatto o permesso cose che oggi non si possono più approvare. Ciò può essere messo in conto dell’evoluzione della coscienza dell’umanità, ma quante confusioni ne derivano tra profano e sacro! Egli stesso è inserito in questa tradizione e deve, volente o nolente, assumere la sua parte di responsabilità.
 La via forse ancora più semplice sarebbe questa: non solo far subito una piena confessione dei peccati, ma, per amore della dolorosa tragicità, aggravarla il più possibile sull’esempio di Reinhold Schneider. Ciò che sotto i papi medioevali sembrava ammissibile, forse persino comandato, se lo poniamo direttamente tra il nudo vangelo e la nostra coscienza odierna, appare come del tutto imperdonabile, addirittura come peccato grave. In ogni caso come qualcosa che contraddice direttamente allo spirito ed al comandamento di Gesù Cristo. Battesimi coatti, tribunali dell’Inquisizione e autodafé, notti di s. Bartolomeo, conquiste di continenti stranieri col ferro e col fuoco per portarvi, in occasione di uno sfruttamento brutale, anche la religione della croce e dell’amore, ingerenze indesiderate e del tutto stolte in problemi dell’avanzante scienza naturale, bandi e scomuniche da parte di un’autorità spirituale che agisce e vuole essere riconosciuta come politica: cose penose senza fine. Non è piacevole dover far fronte ad una simile eredità, di cui si vedono chiaramente i clamorosi errori. 
Ma se la cosa dev’essere già umiliante, sarà più giusto, quando non si può fare una difesa, non scagliare ancora pietre. Si dovrà affrontare il fatto che in Cristo viene annunziato un diritto assoluto di Dio sull’uomo, che trascende ancora il diritto assoluto di Jahvé sul popolo antico; che, in un qualsiasi modo, qualcosa di questa esigenza, posta agli uomini nella decisione irrevocabile, passa agli Apostoli, alla Chiesa e che l’amministrazione di tale potere da parte di uomini peccatori o di corta vista può arrecare un male incalcolabile, che diversamente sarebbe risparmiato. La solidarietà del cristiano odierno con i morti gli accolla penitenze per errori passati, che egli dovrebbe saper portare non solo di malavoglia, ma con pazienza e, nascostamente, persino con gratitudine; chi sa come egli, posto nel sec. IX o XIV, si sarebbe comportato? 
Mentre porta questo amaro peso, gli può essere di conforto il riflettere che non soltanto il male rimane impresso nella memoria più del bene, ma che il mondo non può vedere, o solo molto indirettamente, il bene cristiano. Chi può contare e ponderare gli atti nascosti di autodominio, con cui il male viene impedito? Chi, gli atti di disinteressata penitenza e carità? Chi, la portata di ardenti preghiere segrete? Chi, all’infuori di Dio, conosce le esperienze dei santi che, portati attraverso il cielo e l’inferno, dai posti più nascosti sollevano dai cardini interi campi della storia, spostano montagne intere di colpa, ed in situazioni senza scampo hanno aperto un varco? Ciò sia detto qui solo di passaggio e sottovoce per ricordare che il passivo della Chiesa non si può chiudere senza questo attivo. 
L’amaro peso può riferirsi anche alla Chiesa presente, la quale fa, è vero, molti tentativi per liberarsi da legami non necessari, ma nel suo insieme può attuare solo lentamente ciò che singoli individui in essa e fuori di essa vedono già da tempo. E se strutture divenute discutibili vengono demolite relativamente in fretta, con ciò non è ancor detto che al loro posto sia anche già avvisato, voluto, osato e realizzato qualcosa di diverso, di positivo, di costruttivo. Citiamo in primo luogo, senza timore, ciò che in questa struttura è più discutibile ed anche più profondamente radicato: una prematura decisione dalle incalcolabili conseguenze, una soluzione senza dubbio responsabile, ma non l’unica possibile, poiché i vantaggi cristiani della soluzione opposta, pur tenendo conto dei grandi, grandissimi sacrifici e perdite, sarebbero anche irrefutabili: il battesimo dei bambini. L’anticipare la fiera ed irripetibile decisione vitale per Dio in stato d’incoscienza, l’aprirsi alla ragione ed alla capacità di scelta di fronte ad un fatto già compiuto, che o viene seriamente ratificato od anche no: quale problema! Tanto più oggi che le tradizioni popolari, l’inserimento sociologico in una cristianità ambientale stanno scomparendo o spesso sono già del tutto scomparsi. Eppure anche questo dev’essere sopportato.

CREPUSCOLO DELLE IMMAGINI

Per gli atei le voci della cultura cristiana non parlano di Dio, o ne parlano in modo impercettibile. Il mondo occidentale ha prodotto e costruito le sue opere più belle nello spirito della religione. Ciò vale sia per le opere classiche dell’antichità che son sorte tutte quante dal culto del divino, sia per tutte le creazioni originali dei tempi cristiani. Non è ancora dimostrato che dall’irreligione possa nascere una qualche arte di grande valore; Goethe ha detto a Riemer: «Gli uomini sono produttivi in poesia ed arte solo finché sono religiosi; poi diventano semplicemente imitatori e ripetitori; come noi in rapporto all’antichità, i cui monumenti furono tutte opere di fede e possono essere da noi imitati solo per fantasticheria ed in modo fantastico». La Ifigenia di Euripide era il dramma di un’obbedienza quasi insensata verso Dio; la traduzione di Schiller taglia via la conclusione teologica e quindi semplicemente la radice; la elaborazione che Goethe ha tratto dall’argomento è solo più il gioco prudente di una nobile umanità.
Edifici, poesie, composizioni musicali cristiane, progettate per Dio, vogliono parlare di Dio. Se domandiamo che cosa dicano oggi all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore, la risposta è questa: in ogni caso non ciò che vogliono dire. ‘Sento bene il messaggio…’, no, egli non lo sente, lo registra, lo fotografa soltanto. Ed allora il cristiano può essere colto da un grande scoraggiamento che lo induce a dubitare dei valori espressivi della storia e lo istiga dovunque al sospetto di ideologia. Non è stato tutto errore? Non siamo come circondati da un’unica mistificazione? Cos’ha da vedere l’elegante basilica romana con il cristianesimo? Essa non è che il mercato coperto e profano appena modificato. E la chiesa romanica, simile ad una fortezza con Gesù inerme? Ed il faustiano assalto al cielo del gotico con il ‘mite ed umile di cuore’? E (se sorvoliamo con confuso silenzio il rinascimento) la magnificenza barocca con la nuda croce? Taluni si rallegrano che dopo d’allora la cristianità abbia perso la voce: meglio nulla che questo. Il cristiano si vergogna del suo passato se lo considera con l’occhio dell’ ‘uomo moderno’. (Non entrano neppur più in questo calcolo le orde che corrono cieche di monumento in monumento attraverso l’Europa: termiti della rovina).
Ma non dovrebbe vergognarsi. Dovrebbe saper distinguere tra la fede e la sua espressione. La fede può essere infinita, quando ama; l’opera è finita. La fede può essere senza tempo; ma l’opera è nel tempo. E l’opera ha in sé un appello ed una rigida esigenza di maggior fede. E quand’anche si trattasse di una santa del barocco rapita in estasi in un umido alzare d’occhi; non ti sei mai abbandonato a Dio in modo che egli abbia potuto prender ti come costei? Tu – che ridacchi in tal modo quando si parla di armonia – hai mai avuto, anche solo a metà, l’anima in cui abbia potuto rispecchiarsi la purezza di Palestrina o di Haydn? Non atteggiarti, o cristiano, ad incredulo stanco, che non vede più nulla, mentre pure ti son dati gli occhi della fede. Non lasciarti sopraffare da estranee ideologie inconsistenti. Trova la libertà di affermare, quando ti è facile negare. Sii libero tra la gioia che indugia e l’apertura a ciò che è nuovo. Appunto perché sei un libero cristiano, che non ha bisogno di aggrapparsi a nulla di terreno, riconosci la libertà dei tuoi fratelli di fede creatori, e dietro ad essi di tutti i devoti e pii che, al pari di te, hanno aderito a Dio, al divino. Non lasciarti dare ad intendere che la cristianità antica sia stata estranea al mondo: donde altrimenti avrebbe preso un simile amore per le cose, una simile conoscenza delle loro leggi più segrete, che supera di molto l’amore e la conoscenza dei moderni? Oppure pensi seriamente che le loro piccole costruzioni astratte abbiano più contenuto mondano, siano più fedeli e congeniali (concrete) alla terra delle realizzazioni dei grandi cristiani? Chi conosce più intimamente l’uomo: Villon e Grimmelshausen, oppure i freddi pornografi di oggi? Di questi non ti curare, e non fidarti dei cristiani che vorrebbero darti ad intendere che soltanto qui l’uomo venga scoperto in tutta la sua ‘serietà del peccato’ e senza orpelli pagano-idealistici.[2] Ma rassegnati anche che nessuno più inforchi i veri occhiali che permettono di vedere. «So soffrire penuria – dice Paolo – e so anche abbondare; in ogni tempo e in tutte le maniere io sono stato iniziato» (Fil. 4, 12). Il cristiano deve saper vedere tramonti attorno a sé, senza che per questo il suo sole scompaia; dev’essere povero con i fratelli (spiritualmente) poveri e tuttavia non deve rinnegare la sua ricchezza, quel la che ha prodotto tutta la ricchezza, che essi hanno venduto e perso per il loro piatto di lenticchie. E certo i tramonti lo avvolgeranno realmente nelle ombre, in ciò che si può chiamare benissimo notte del mondo e tenebre di Dio. Ma gli è vietato di lasciarsi ottenebrare anch’egli per pretesi motivi di compassione. «Figli di Dio senza macchia in mezzo a una generazione perversa e sviata, in seno alla quale voi brillate come luminari nell’universo» (Fil. 2,15).

LA MEDIA E IL PRESUPPOSTO APRIORISTICO

Il cristiano: brillare? Ma in che modo? Eccoci nuovamente dinanzi all’angosciosa domanda dell’inizio. Ognuno sente che in ogni caso le cose, come sono oggi, non vanno più. Non bastano più. Ognuno ha l’occasione di considerare se stesso, la sua Chiesa, con occhi estranei come dall’esterno, così come la vedono gli altri, ed in questa occasione di scuotersi spaventato. Come chi, dopo essere passato per decenni sotto la facciata della sua chiesa abituale per entrare a partecipare al servizio divino senza notare nulla di anormale, se uno storico dell’arte gli fa notare che tutto è screpolato e pericolante e dev’essere o demolito o restaurato a fondo, apre improvvisamente gli occhi alla realtà. Ed ora, pauroso che la volta gli possa cadere addirittura sulla testa, fa egli stesso pressione per restauri quanto più possibile rapidi e generali. La paura lo sospinge e gli dà il ‘coraggio’ per un ardito aggiornamento. E, come appunto avviene in epoche in cui è vivo il senso storico artistico dell’antichità, propone (con competenti) di eliminare anzitutto le aggiunte barocche, quegli innumerevoli putti, volute e nuvolette gonfie di gesso, che senz’altro non servono che a raccogliere la polvere e sono gli elementi meno solidi, perché mirano semplicemente all’effetto, non corrispondono più al gusto moderno, inoltre nel restauro comportano le spese maggiori e non sono che sovrastrutture alle attendibili linee originarie. Quale gioia poi, quando, rimosso lo sfarzo, appare una magnifica ruvidezza romanica, che ci sembra tanto .più genuina e tersa, che corrisponde tanto più al nostro gusto ed inoltre costa molto meno in manutenzione! Ecco le grandi gioie del restauro: il poter liberare, demolendo, una costruzione antica così bella da far credere di essere noi stessi produttivi, di poter costruire distruggendo!
 A parte gli scherzi, ogni costruzione in campo cristiano non deve avvenire in virtù di un ritorno alle origini? E nel farlo, andando addirittura a ritroso nel tempo, si ha occasione di pervenire, come per caso e nondimeno per una felice conferma, al punto d’incrocio della riforma, ed in questa circostanza, demolendo le aggiunte posteriori della controriforma, di giungere ad un insperato accordo. Se noi, cristiani moderni, in segreto non ci fidiamo forse molto di noi stessi, dobbiamo tuttavia fidarci del particolare genio della retromarcia e, con una coraggiosa demolizione delle forme di ieri e di oggi, sperare di trovare strutture migliori, addirittura il fondamento roccioso del vangelo.
 Comunque sia (sull’argomento vogliamo meditare in seguito), è già non poco l’essere insoddisfatti del nostro presente, il trovare che gli altri non avrebbero torto di non trovarci degni di fede. Se volessimo per un momento cedere alle lusinghe della statistica, o meglio consultassimo quelle statistiche che le nostre curie tengono in gran conto, il quadro descrittivo del cristiano medio non lascerebbe nulla a desiderare quanto a sbiaditezza. All’estremo margine starebbero coloro che annettono importanza al certificato di battesimo, alla sepoltura cristiana e forse alla prima comunione o cresima dei figli. Poi seguirebbe la schiera nutrita dei pasqualini, che trapassa a poco a poco in quella degli ascoltatori della messa festiva, in cui a loro volta si mescolano un po’ alla volta quei colori più chiari che vengono resi in modo approssimativo con i concetti di precetto dell’astinenza, stampa cattolica, tassa ecclesiastica, fedeltà al papa. Contemporaneamente cresce pure, al di là della citata idea dell’ ‘uomo onesto’ (come gli altri), il numero dei dieci comandamenti che lampeggiano come semafori ammonitori: il sesto naturalmente con grande risalto, poi forse il quarto, il secondo, il terzo, mentre il quinto, settimo ed ottavo non son forse sentiti tanto come comandamenti di Dio, quanto come cose che ‘l’uomo onesto’ fa soltanto in caso di necessità. Ha pure molta importanza l’ambiente culturale: in paesi di campagna può essere un punto di onore tanto il frequentare con diligenza la chiesa, quanto il conservare fino alla morte un rigido odio personale o familiare. Può anche essere un punto di onore vivere in un dissidio vigoroso e virilmente responsabile tra le opinioni del parroco e le proprie: nel pieno riconoscimento che quello fa il suo mestiere, mentre io m’intendo del mio.
Questo quadro variopinto non sarebbe ‘media’, se la scala non si assottigliasse verso l’alto nella regione dei cosiddetti cristiani zelanti: in coloro che cercano di vivere un vero matrimonio cristiano, di inserire una vera preghiera personale nella loro vita, che con vero amore del prossimo si occupano dei loro simili, soprattutto dei poveri, degli abbandonati, degli inermi, che nutrono un vero interesse per gli sforzi missionari della Chiesa, o addirittura, come sacerdoti, si consacrano esclusivamente al servizio della Chiesa e, secondo il suggerimento di Cristo, vivono in povertà, verginità ed obbedienza.
 Tuttavia, proprio coloro che, per cosi dire, osano porsi sul candelabro, sono esposti ancor più degli altri al vaglio critico. Anche le dita dei cari compagni cristiani li tasteranno dall’alto in basso per sentire se un qualche punto risuoni forse a vuoto. Infatti, la domanda ‘Chi è il cristiano?’ non si pone con tanta serietà in rapporto a coloro che sono stati descritti per primi; poiché questi rimandano di preferenza e con una certa umiltà agli ‘specialisti’ del cristianesimo, soprattutto se essi stessi non sono pienamente convinti di una simile conoscenza e facoltà specializzate. Il tocco delle dita degli specialisti è un fatto che incute paura; poiché ora dovrebbe apparire realmente chi infine è cristiano. Ora si tratta di ottenere tutto, e la domanda si scompone in varie domande particolari.

Primo: chi è autorizzato ed in condizione di stabilire empiricamente chi è cristiano? Lo può ad esempio il non cristiano? Lo si può in genere vedere (e come no?), ed in base a quali misure?

Secondo: chi è autorizzato ed in condizione di stabilire in modo normativa chi è cristiano? Anche qui: quali misure, leggi ed esigenze vengono apposte all’uomo per dare una risposta alla domanda? Ci spaventiamo se vi riflettiamo un poco: tutto ciò non è affatto chiaro. Perciò non è fuori luogo se

Terzo, poniamo la domanda esistenziale: può il cristiano stabilire personalmente se egli è cristiano e, se ha l’ardire di rispondere affermativamente, su quale argomento si fonda nel farlo?

La domanda ‘Chi è il cristiano?’ accompagna a guisa di presupposto aprioristico tutti i tentativi di riforma della Chiesa contemporanea. Cioè, li accompagna in modo che, da una parte, si agisce come già lo si sapesse e non ci fosse più che da prendere, in base a questa conoscenza, le necessarie misure; dall’altra ci si permette la libertà di avanzare, dinanzi alle tradizionali soluzioni e agli ideali del cr1stiano, il più forte sospetto di ideologia, e quindi di misurare questi ideali in base ad un criterio del quale si dispone in modo acritico. Non è difficile trovare questo criterio, come presupposto aprioristico e tuttavia ovvio, poiché esso nasce naturalmente dalle principali tendenze della cristianità odierna, ben intenzionate, acclamate dalla folla, ma che devono essere sottoposte ad una critica urgente.

I – DIO DIETRO LE SPALLE
O CRITICA DELLA TENDENZA GENERALE

L’AMBIGUITÀ DI CIÒ CHE È NECESSARIO

Una grande revisione radicale di tutto l’arsenale ecclesiastico è in atto. Avviene in queste circostanze, come quando si nota una macchia di ruggine su un’arma piuttosto antica; la macchia evidente guida lo sguardo al rilievo di altre più difficilmente visibili, ed ora l’intera arma e l’intera armeria appaiono antiquate, ed infine quasi l’intero edificio viene sgombrato e si progetta il disegno del restauro. Ciò porta molto movimento, e quando c’è molto movimento, c’è in apparenza vita, iniziativa, tendenza ad una meta; il che è già molto in istituzioni note per la loro lentezza. Chi non vede che miglioramento, aggiornamento, essere up-to-date, nel loro complesso sono una lodevole attività; che oggi, nel segno di questo rinnovamento, avviene una quantità di cose buone, anzi molto importanti, consolanti, addirittura indispensabili? E come nelle grandi pulizie di primavera è raro che si incominci senza una certa atmosfera dionisiaca delle donne di servizio e delle donne di casa, si perdonerà ai cristiani di oggi una simile esaltazione dei sentimenti, anche quando la festa – come in molta parte del giovane clero – minaccia di degenerare in veri saturnali, in cui tutto ciò che infrange l’ordine tedioso sembra permesso e comandato, purché sia molto moderno ed aperto.
In occasione di questa ‘distruzione’ creatrice e di questa ‘svolta’ ispirata, non è necessario essere molto acuti per porre la domanda quale sia la copertura aurea di tutta questa moneta cartacea. Una svolta in campo ecclesiastico fu sempre almeno congiunta ad una conversione, e quanto più la conversione raschia a fondo, tanto più deve far male, diversamente è probabile che siano solo parole. Perciò, quanto abbiamo intenzione di pagare per la nostra riforma? Non soltanto con cose di cui poco ci importa – ad esempio prestigio storico -, ma con cose che toccano la carne viva? Oppure pensiamo di potercela cavare ancora una volta con un semplice accomodamento? Di fatto sembra affiorare in tutte queste imprese una falsa prospettiva, per cui l’intera tendenza muove sotto il seguente segno: fuori ad ogni costo da uno splendido isolamento, che alla fine diventa poco piacevole; perciò avvicinamenti, affratellamenti, discese da troni e piedestalli, collegializzazioni, democratizzazioni, facilitazioni, livellamenti verso il basso (non ce ne sono verso l’alto), massima presenza possibile in tutto ciò che appare di oggi, di domani e di posdomani.
 Chi vorrebbe negare che con queste discese, con questi abbandoni di altezze passate, in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, si fa e si ricupera semplicemente qualcosa da lungo tempo atteso, da lungo tempo maturo, e che proprio questa direzione è quella evangelica originaria, poiché ‘il maggiore tra voi’ dev’essere come il servo di tutti, perché Cristo ha da sempre proibito chiaramente e rigorosamente tutti i titoli (come ‘maestro’ o ‘padre’, abbé, abbas, papa, ecc.), ed egli stesso, quantunque nostro padrone, si è umiliato a servo di tutti? In quanto, quindi, con queste discese si ricupera alfine qualcosa che è realmente maturo da tempo – con un ritardo quasi incomprensibile -, ci si deve senza dubbio felicitare, quantunque non si possa soffocare la domanda circa i moventi per cui questo frettoloso ricupero avviene. 
La Chiesa, si dice, per apparire degna di fede deve anche essere all’altezza dei tempi. Seriamente inteso, ciò significherebbe che Cristo, quando compì la sua missione, che era uno scandalo ed una stoltezza per i giudei ed i pagani, e morl sulla croce, fu all’altezza dei tempi. Veramente queste cose spiacevoli avvennero al momento giusto, nel tempo voluto dal Padre, addirittura nella pienezza dei tempi, esattamente quando Israele fu maturo a schiudersi come un frutto, ed i popoli maturi ad accogliere questo frutto nei loro campi aperti. Ma Cristo non fu mai moderno, e neppure, se Dio vuole, lo sarà mai. Né lui, né i suoi discepoli Paolo e Giovanni, hanno mai pronunziato una parola a favore della modernità politica o gnostica. Di qui la semplicissima conclusione che tutti i nostri movimenti possono avere soltanto come motivo il togliere dal mondo scandali falsi, non cristiani, per far apparire più chiaramente il vero scandalo, insito nel mandato della Chiesa. Tutto questo, quanto sarebbe salutare!
 Con ciò avremmo già qualcosa come un criterio base per una possibile discrezione degli spiriti; degli spiriti, cioè, che animano segretamente la moderna tendenza ecclesiastica. E se il cristiano acquistasse almeno la consapevolezza che tutte queste imprese umane, appunto perché a prima vista sono così univoche, hanno urgente bisogno del giudizio cristiano, e sono un’arma a doppio taglio, ambigue e diventano forse pericolose proprio nella misura in cui danno l’illusione di contenere già l’’unica cosa necessaria’ e, rassicurando le coscienze, le esonerano dalla ricordata conversione, si sarebbe già ottenuto il più. Il giudizio né precede né segue le imprese dei cristiani, ma sta nel loro bel mezzo. Le pone continuamente in discussione con la domanda: avvicinano esse a Dio o allontanano da Lui? Hanno Dio dinanzi al proprio sguardo teso nella ricerca, oppure l’hanno alle loro spalle?
 Nel caso specifico dei cristiani che operano la riforma, aver Dio dietro le spalle significherebbe aver costantemente conoscenza di Dio, della sua rivelazione, del suo contenuto e portata, della Chiesa, dei cristiani e, forniti di questa conoscenza bell’e fatta, affrontare gli incontri col mondo cristiano, non cristiano, anticristiano. La conoscenza che queste persone portano con sé è sicura e sufficiente, anche se naturalmente solo sommaria, ridotta ad un paio di concetti fondamentali. Ma la riduzione avviene legittimamente in vista del progettato incontro con il mondo moderno, o, come i nostri teologi amano dire con enfasi e con un arguto sorriso (non credo infatti che con ciò essi esprimano una tautologia), con il moderno mondo mondano. Essi hanno quindi conoscenza di Dio e della rivelazione; per loro la domanda è soltanto questa: come dirlo a mio figlio? Essi provengono da Dio ed aspirano al mondo moderno. Hanno Dio dietro le spalle ed il mondo dinanzi a sé. Non contesterebbero che, per essere mandati da Cristo nel mondo, occorre prima essere stati abbastanza a lungo presso Lui. Pensano di averlo fatto. Si trovano nell’azione e suppongono con buona coscienza, dinanzi a sé e dinanzi agli altri, di aver portato a termine la loro contemplazione. E nel caso la coscienza talora ricordasse loro che nella contemplazione non hanno ottenuto un attestato di maturità, o che hanno fatto fiasco alla maturità, la loro coscienza si consola presto con il motto: contemplativus in actione, il che praticamente significa: chi agisce è contemplativo a sufficienza, non c’è maturità maggiore dell’azione.
 È questo il motto di moltissimi cristiani moderni – chierici e laici – dei quali si deve temere che abbiano fatto ricorso al termine missione, per mascherare col vangelo la loro fuga da Dio. Con ciò è mostrata l’acutezza della crisi in cui si trova l’odierna tendenza ecclesiastica nel complesso e nei particolari. Questa crisi non significa che essa – in quanto progetto, movimento e risultato – sia da condannare, ma piuttosto che resta continuamente da giudicare mediante un giudizio cristiano, perché nella apparente univocità si nasconde in ogni caso una segreta ambiguità: andare da Dio al mondo può essere autentica missione cristiana, un compito cristiano per il mondo, ma può anche essere fuga dinanzi a Dio, paura dinanzi allo scandalo della croce, tradimento di Cristo. Tutte le cose hanno il loro rovescio, soltanto Cristo non l’ha.

TENDENZA BIBLICA

Nel mondo cattolico di oggi il ritorno alla parola di Dio è esaltato come il segno più bello e più chiaro di speranza, e non si può dubitare che tale sia realmente. È un fatto elementare che la rimozione di tutti i veli che nascondono la vista dell’origine cristiana – veli sarebbero tutte le formulazioni posteriori ecclesiastiche, catechetiche, dogmatiche della rivelazione – avvicina alla verità di Dio e di Cristo. In questo movimento il cristiano vuole ‘sentire, vedere, toccare’ la ‘parola di vita’, ora che finalmente gli è permessa. Rimaniamo sconcertati dinanzi all’oscuro passato in cui tanti fili spinati erano tirati attorno al testo sacro e, toccandoli, ci si poteva tirare addosso la scarica elettrica di una scomunica, allo stesso modo del popolo ebraico che non poteva toccare le pendici del Sinai senza morire. Oggi è caduto lo stesso muro millenario della Volgata che, anche dopo i lavori degli umanisti sul testo originario, ne sbarrò a lungo l’accesso. Si moltiplicano traduzioni e commenti per soddisfare al bisogno che la folla, la quale per la prima volta entra nella terra promessa del testo originale, ha di comprendere. E certamente la Chiesa avrà da riempire tutte le mani per saziare questa sete della parola e mantenerla pura: essa che ora soltanto, in unione con l’indagine extra-cattolica ed extra-cristiana, ha incominciato a studiare il testo della Scrittura in base ai principi di una moderna critica storico-letteraria. 
Non è il caso di smorzare la gioia di questo inizio. Essa tuttavia è resa umile dal sapere che il moderno movimento biblico cattolico non deve, come quello di Lutero, la sua origine primariamente ad una elementare brama della parola originaria di Dio che sta dietro la scolastica e la dottrina della Chiesa, ma essenzialmente alla convinzione di esegeti intelligenti che la scienza biblica cattolica non poteva più continuare come nel passato senza rendersi ridicola a tutto il mondo scientifico. Con infinita fatica la navicella di una esegesi rispondente ai tempi dovette essere pilotata attraverso Scilla e Cariddi di incombenti condanne ecclesiastiche – fino in epoca recentissima – per giungere infine alla relativa sicurezza di un libero studio oggettivo. Certamente, a mano a mano che la scienza giungeva all’aria libera, anche in vaste cerchie il fuoco nascosto s’innalzava in libera fiamma, e questa reagiva sullo studio incoraggiando e favorendo. Ciò nonostante il carattere umiliante degli inizi non dovrebbe sparire completamente dalla memoria: il fatto, cioè, che noi cattolici abbiamo avuto bisogno di tanto tempo per sviluppare il postulato che ci è più proprio, dopo altri che da tempo, fuori della nostra Chiesa, l’avevano elevato a loro distintivo.
 E poiché tutte le cose all’infuori di Cristo hanno il loro rovescio, anche l’apparente univocità del movimento biblico non rimane senza ombre. Anzitutto il processo cattolico di ritorno all’indietro non è univoco: tra le due guerre mondiali la parola d’ordine diffusa era: rinnovamento – dietro una (neo) scolastica addomesticata, irrigidita – dei Padri della Chiesa. In molti questa ‘primavera patristica’ non era che estetica; non era abbastanza critica per durare a lungo. Oggi, da tempo, c’è di nuovo un autunno patristico a favore di una ‘primavera biblica’; e si è non poco inclini a porre l’intera tradizione esegetica, sia patristica (da prima platonizzante, poi costantiniana-politicizzante), sia scolastica, sotto un forte sospetto di ideologia, praticamente in modo non molto diverso da Lutero che aveva screditato la prostituta ragione. E non si riflette che colui che pensa fa anche già filosofia, e che colui che non esamina i suoi presupposti di pensiero, cade tanto più sicuramente in una grossolana ideologia, ad esempio in quella dell’ ‘uomo moderno’, Dall’altra parte, e come conseguenza, il nuovo procedere cattolico, che aspira a ritornare alle origini, incontra un nuovo procedere protestante che muove in senso contrario e cammina veloce: dalla Bibbia aspira al presente e si è scelto come orizzonte e criterio l’’uomo moderno’ e come strumento ermeneutico la ‘filosofia moderna’ (Heidegger). Ciò che l’’uomo moderno’ può comprendere, ciò per cui ha antenne, ciò che religiosamente lo aiuta e gli giova: questo dev’essere annunziato, il resto dev’essere liquidato come mitico. Si riconosce da lontano l’ambiguità di una simile posizione; essa tuttavia può significare il peggio e poi nascondere nuovamente in sé uno spunto per il meglio: il peggio, in quanto l’’uomo moderno’ (veramente un’entità mitica!) viene elevato a misura di ciò che la parola di Dio deve dire e non dire, può aspettarsi e non aspettarsi dall’uomo; il meglio, in quanto l’esigenza sta nell’esprimere, nel meditare, nell’assimilare, in modo originale e nuovo per ogni tempo, l’intera rivelazione. Il processo cattolico di ritorno all’indietro, al pari del popolo d’Israele quando entrò in Canaan, non approda ad una terra vergine: ‘Nel paese abitava il Cananeo’, il che significa che non soltanto ci furono subito guerre, ma che dopo la conclusione della pace, la coesistenza con la popolazione indigena divenne ancor più problematica, anzi infausta.
 Considerata nel suo complesso, questa inattesa difficoltà, nel bel mezzo di una fiduciosa spedizione di conquista, è salutare, perché obbliga ognuno a prendere la parola di Dio per quel che è: appello ad una decisione assoluta. Chi non è per me, è contro di me, e viceversa: chi non raccoglie con me, disperde. Scientificamente neutrali ci si può mostrare al massimo in uno stadio preliminare; chi indugia troppo nella fase preliminare, sembra evitare la decisione od averla presa in senso negativo e maschera ciò col pretesto di scienza.

TENDENZA LITURGICA

Altra verità: il movimento liturgico nella Chiesa è un fenomeno dei più consolanti; ha vinto resistenze secolari, ha risanato abusi risalenti fino alla giovinezza della cristianità, ha incominciato a rendere nuovamente evidenti cose che avrebbero dovuto essere sempre tali. E il risultato della riforma della celebrazione liturgica, d’un fatto ecclesiastico apparentemente isolato, fa sentire il suo influsso in tutta la struttura della Chiesa e quindi nella concezione viva che la Chiesa ha di sé come popolo di Dio e come corpo e sposa di Cristo: è toccato un nervo centrale, e l’intero organismo reagisce in tutte le sue membra. Non il clero, ma la comunità, la ecclesia qui adunata e divenuta concreta, celebra la cena commemorativa, in cui il suo Signore si rende corporalmente presente ed inserisce corporalmente in sé, nel senso più originario, i radunati che si cibano del suo corpo, li fa suo proprio corpo. Che ciò avvenga nell’ordine che Paolo desidera, (1Cor. 11-14, quantunque qui non compaiono ancora dei ministri ufficiali) e che appare realizzato nel modo più bello in Ignazio d’Antiochia – comunità schierata attorno ai vescovi -, con ampia suddivisione di uffici e di mansioni, la cui differenziazione corrisponde in parte alla carismatica ecclesiastica; che la Scrittura sia letta al popolo in una lingua comprensibile e spiegata in una omelia, e quindi l’omelia sia spiegazione fedele e non un qualsiasi ‘discorso’ o ‘predica’ su un tema qualunque; che l’ambiente della Chiesa, non appena esso deve superare la ristrettezza di una sala privata, corrisponda alle necessità di una simile assemblea della comunità attorno alla mensa del Signore per quel che riguarda l’ambiente, la disposizione dei posti, dell’altare, del pulpito, del fonte battesimale, l’ornato decoroso ed attraente, ecc.: chi non vede come oggi tutto ciò ha acquistato in verità oggettiva, che parla da sé, col ritorno all’essenziale? 
Tuttavia anche tutto questo non è univoco; lo si riconosce esternamente dal fatto che persone anziane, le quali non riescono e non vogliono ritrovarsi nel nuovo ordine del servizio divino, vi si oppongono non solo per spirito di tradizione, ma perché vedono trascurati e addirittura votati a sparire dei valori che per essi erano più cari. Di che cosa sentono la mancanza? Dell’ambiente spirituale, del silenzio con cui va circondato il mistero. Non avviene forse la cosa più incomprensibile di tutte? Non diviene forse presente, al di là dello spazio e dei tempi storici, il centro del tempo, in cui il Figlio di Dio, carico del peccato del mondo, del mio peccato, colpito dal fulmine del giudizio di Dio, scende nella notte eterna? In questo avvenimento non c’è ancora una ‘comunità’, non ci sono che tutti questi atomi peccatori, di cui anch’io sono uno; e come può la successiva comunità, la cui luce si accende a quella improvvisa eclisse apocalittica, ricordarsi dell’ora della sua nascita, anzi celebrarla nella fede e nel sacramento come qui presente, senza immergersi nella più profonda adorazione? 
Ma dove rimane questa adorazione nelle nostre funzioni liturgiche recentissime? Ritenendo che essa sia superflua, oppure che il popolo della Chiesa non sia abbastanza maturo per meditarla, la fantasia del clero si adopra di riempire il tempo in modo utile e vario fin nei minimi angoli.
Le scene rumorose si susseguono senza interruzione; quando non si recitano preghiere o non si leggono e spiegano le S. Scritture, si deve cantare e rispondere; abbastanza spesso persino il canone viene recitato e parafrasato dal pulpito con il microfono. Si tenga presente che quasi nessuno dei presenti durante la settimana ha tempo ed occasione per un più profondo raccoglimento; che le loro anime nella funzione domenicale devono anche personalmente riposarsi e prendere fiato; che Dio parla loro soprattutto nel silenzio; che il servizio divino della parola incornicia, è vero, la parola di Dio – come la predicazione e la preghiera -, ma che è indispensabile l’atto della ricezione, della personale assimilazione nel silenzio, salvo seminar tutto sulle pietre e tra le spine.
 Certamente una bella funzione comunitaria produce anche una specie di soddisfazione. Il parroco è soddisfatto della comunità quand’essa ha collaborato a dovere; la comunità è soddisfatta di se stessa per essere riuscita a compiere una celebrazione spirituale così bella. La Chiesa soddisfatta di se stessa e il godimento spirituale della comunità sono proprio ciò che di solito rimproveriamo alla celebrazione comunitaria pietistica e protestante liberale. Sarebbero allora giuste le maligne analisi di Karl Barth, che avvicinano Schleiermacher ed il cattolicesimo – come corpo mistico che glorifica se stesso -, oppure le sinistre parole di Arnold Gehlen, che mirano allo stesso scopo:
 «Io ritengo che in molti cuori Dio sia divenuto troppo umano e che esista un nuovo tipo di secolarizzazione della religione, che questa volta non passa attraverso la mondanizzazione materiale, bens1 attraverso la morale. Allora l’umanità diviene soggetto ed oggetto della sua propria glorificazione, ma nell’incognito della religione cristiana dell’amore… La morale degli intellettuali ordinata al rapporto della coscienza col mondo si presenta… in entrambe le forme: la prima, di derivazione illuministica, come etica della solidarietà nel mondo presente intesa in senso progressista, ed in secondo luogo nella or ora citata celebrazione neocristiana dell’umanità ad opera di se stessa in nome di Dio».[3]

TENDENZA ECUMENICA

La separazione delle Chiese è il più grave scandalo pubblico della cristianità. Nulla lo può scusare, neppure nelle sue cause o nelle sue conseguenze, che sono la perdita di credibilità nella missione cristiana interna ed esterna. Tutto ciò che aiuta a ripararla è a priori nella direzione della volontà salvifica di Dio. Se in genere ha potuto acquistare forza il pensiero che in tale questione si debba fare qualcosa; che, nonostante tutto, antichissimi congelamenti senza speranza si debbono fondere: ciò non si può comprendere se non per via di un miracolo della grazia dello Spirito divino, che pur nella sua libertà ha ascoltato anche le preghiere ed i dolori dei cristiani dell’una e dell’altra parte.
 Noi facciamo tutto ciò che è in nostro potere, non ascrivendo nulla a noi stessi, ma tutto all’onnipotente Spirito creatore. Ed avendo incominciato così a sperare, diamo anche per il futuro il primato alla speranza, contro tutti i contraccolpi, contro tutte le impossibilità ancora così manifeste. Soltanto lo Spirito di Cristo può abbattere questi muri divisori, e non noi con la nostra miglior volontà, con tutta la nostra prudente diplomazia teologica. Sarà buona cosa se, proprio qui, noi badiamo con accresciuta diffidenza alle occulte ambiguità delle nostre imprese e le sottoponiamo continuamente al giudizio della parola di Dio. Tuttavia l’esigenza non è facilmente realizzabile: tentare personalmente tutto ciò che è in nostro potere e favorisce lo spirito di unità di Cristo, senza far nulla che prevenga in modo puramente umano questo spirito con costrizione ‘tecnica’, ‘magica’.
 Sarebbe così ovvio dire: accentuiamo ciò che unisce e lasciamo in disparte ciò che separa. Ciò potrebbe essere più facile per i protestanti, dove ciò che separa non consiste tanto in un meno, quanto piuttosto in un più, che viene imputato a noi cattolici come illegittima eccedenza sul semplice messaggio del vangelo. Per i protestanti la difficoltà sta nel comprendere che questo più, cattolico, può essere reso perspicuo dal vangelo. Il dovere quindi dei cattolici sarebbe di produrre questa possibile perspicuità e poi l’effettiva visione. Ma in che modo? Si può dire a buon diritto che tutte le cose ecclesiastiche, anche le proposizioni dogmatiche, sono relative, si riferiscono cioè al punto assoluto della rivelazione di Dio in Cristo. Il corpo è relativo al capo; l’eucaristia è relativa alla cena ed alla croce; la madre è relativa al figlio; il purgatorio è relativo al giudizio di Cristo; l’ufficio ecclesiastico è soprattutto relativo al sacerdozio di Cristo, e per i capi ufficio, non meno che per gli altri, è vero che: «Uno solo è il vostro maestro, ma voi siete tutti fratelli». Ed ogni dogma è relativo alla verità rivelata, che esso, circoscrivendo, sintetizzando, vuole presentare in modo valido, ma non esauriente. La miglior dimostrazione di questa giusta relatività, dinanzi ai fratelli di fede separati, sarà quella esistenziale, a quel modo che Giovanni XXIII ha dato a tutto il mondo l’esempio impressionante della relatività anche del supremo ufficio ecclesiastico. Oppure come ogni concilio mette in evidenza la giusta relatività di un dogma in quanto, senza comprometterlo, lo pone in nuovi contesti, scopre aspetti completivi, ne smorza quindi l’apparente assolutezza e la rimette nella corrente dialettica del modo umano di pensare e di parlare della parola di Dio. Così ora, con non minore efficacia, la mariologia viene inserita nell’ampia cornice di tutta l’ecclesiologia.
 Ma proprio quest’ultimo esempio pone chiaramente dinanzi all’alternativa. Che cosa significa qui relativizzazione? Con quale spirito, con quale intenzione, con quale recondito disegno essa viene compiuta? Si tratta forse di attenuare o addirittura di far sparire, senza darlo a vedere, i dogmi mariani, accendendo altre luci più importanti, così come le stelle impallidiscono e scompaiono al sorgere del sole? Si deve quindi dichiarare che ci si è propriamente ingannati, che non soltanto si son verificate imprudenze ed esagerazioni pratiche di una devozione unilaterale, non illuminata (che nessun uomo ragionevole contesta), ma che anche in teoria ci si è avventurati troppo oltre i rami? Ciò costituirebbe il suddetto metodo della sottrazione o livellamento. Ed è esso che, quando viene presupposto, inquieta gli animi dall’una e dall’altra parte. Dall’una, perché lo stesso cattolico non vede bene come la Chiesa possa lasciar cadere cose che ha accanitamente difeso per secoli, per millenni. Dall’altra, perché ciò dà troppo l’impressione di un gioco diplomatico poco serio, di cui si crede capace un Vaticano politicante; la condiscendenza non sarebbe puramente esteriore e quindi una trappola che poi subito si chiude, quando ci si è avventurati all’interno?
 No, questa seconda via non è da seguire in campo ecumenico. Si deve seguire fino in fondo la prima strada, molto più impegnativa e spiritualmente più faticosa. Ma ciò esige da parte dei cattolici un duplice intenso lavoro teologico. Anzitutto la genuina accettazione di tutti quegli aspetti della teologia, predicazione e forme devozionali, che presso i fratelli separati possono aver valore di espressione genuina (anche se diversa) della rivelazione cristiana comunemente riconosciuta. Per la dottrina della giustificazione, che un tempo separava così nettamente, la necessaria riflessione ha già fatto un buon progresso; dovrebbe però essere portata a termine. Poi – e lo stesso dovrebbe fare l’altra parte – esige sulle proprie posizioni una riflessione così penetrante che, calandosi nelle proprie profondità, si possano incontrare le posizioni altrui; ma a tal fine è necessario uno sforzo spirituale che certamente non è compito di ognuno, e tanto meno può esserlo del laico, ma i cui progressi e risultati dovrebbero essere a grandi linee attuabili dai volenterosi, in modo che ognuno comprenda la convergenza senza potersi lagnare di astuti compromessi o di stratagemmi diplomatici.
 Ma una simile impresa quanto suppone che entrambi gli interlocutori abbiano Dio davanti a sé e non dietro le spalle! Camminare piuttosto verso lui, come colui che è sempre più grande e misterioso, che, secondo la frase di Agostino, «è infinito, in modo da essere, anche se trovato, oggetto sempre di nuova ricerca (ut inventus quaeratur immensus est)». Forse oggi i cattolici, sufficientemente scossi nel loro sentimento di vita e nel loro pensiero religioso, incominciano a poco a poco a comprendere in modo nuovo il senso di questa frase. Forse dalla realtà del dialogo ecumenico imparano che la rivelazione di Dio non si può mai mettere in bottiglia e conservare in cantina; che le risposte, che essi traggono da queste riserve, non convengono affatto alle domande odierne ben precise; che, nonostante una tradizione ecclesiastica ed un magistero infallibile, la storia del mondo va inesorabilmente avanti, le ore del destino possono essere affrontate soltanto con una piena decisione personale; e che – compito difficile! – l’intera tradizione dev’essere continuamente fusa nel momento storico, in ordine al quale dev’essere concepita e formata in modo nuovo. Allora veramente siamo anche sicuri dell’aiuto dello Spirito santo, allora esso ci diviene sensibile, allora ci appare il senso di ciò che significa veramente tradizione e che non acquista mai forma senza martirio, senza il rischio di vita e di morte per una testimonianza totale.[4] Che cosa sia il cristiano, in tali dialoghi dovrebbe stare con forza dinanzi a noi, e non dietro di noi come qualcosa di già acquisito, su cui non ci sia più da pensare. Ma proprio in questi dialoghi, come si dimostrerà in seguito, la cosa è ancora controversa, perché per il cattolico è appunto qui l’importante: non arrendersi, riducendo ed abbandonando il suo più, e non riposare finché non l’abbia riportato, riflettendo, al nucleo del vangelo.

TENDENZA AL ‘MONDO MONDANO’

Qui sta veramente il vertice ed il centro del mutamento. Qui deve aver luogo il rivolgimento decisivo, liberatore; la Chiesa, eliminando una sterile tendenza di autoconservazione, nel suo aprirsi ed irrompere nel mondo deve destarsi alla sua vera essenza, e con ciò deve anche dimostrare che cosa sia veramente il cristiano. 
Per far risaltare nettamente questo pensiero lo si puntella da tutte le parti con la storia e lo si rafforza per via di contrapposizioni. Anzitutto una volta (cosi si dice) non c’era un mondo mondano, ma semplicemente un cosmo, sentito nel suo complesso come religioso o, come taluni addirittura dicono, un cosmo ‘divinizzato’: sotto l’egida di una illusione in qualche modo religiosa-primitiva l’uomo avrebbe sentito vicina e presente la divinità dovunque nella natura; questa illusione sarebbe stata brutalmente distrutta nel mondo moderno tecnico e meccanizzato che domina la natura, il mondo sarebbe ‘sdivinizzato’ e totalmente ‘umanizzato’, ed in questo mondo freddo, disincantato, il cristiano sarebbe invitato ad entrare senza paura e senza riserva. Poi la durezza della richiesta viene sottolineata dal fatto che una certa innegabile fuga dalla realtà da parte dei cattolici, dopo la rivoluzione francese e nel romanticismo, viene estesa a paradigma di ogni atteggiamento cristiano del passato; indubbiamente a torto, perché quella apertura al mondo c’era non soltanto nel movimento apostolico della prima Chiesa, ma anche nel rischio tanto incerto, oggi giudicato in modo cosi duro, della cristianizzazione dell’impero romano e del suo potere mondiale, nella conversione dei barbari, nel dissodamento delle loro foreste e terre incolte ad opera di monaci e di ordini cavallereschi, nel contenuto moderno della grande arte, filosofia e letteratura occidentali, nella moralizzazione delle civiltà e dei regni: qui riformatori e puristi hanno trovato dovunque piuttosto eccesso che difetto di compenetrazione del mondo e di trasformazione! 
Si rimanda inoltre ai movimenti ascetici del passato che, a quanto si dice, in un primo tempo sarebbero stati di fuga dal mondo, a partire dalla impressionante emigrazione dell’aristocrazia spirituale nel deserto, in eremitaggi ed in conventi cenobitici, passando per i trattati medioevali del disprezzo del mondo (de contemptu mundi) la cui responsabilità ricade sul monachismo, per giungere fino alle sempre nuove ondate moderne di vita di rinunzia nei consigli evangelici. Ma si fa notare con insistenza che queste ondate, seguendo un segreto istinto cristiano, si introducono sempre più nel mondo; dalla fuga dal mondo puramente contemplativa dei primi monaci san venuti i Benedettini coltivatori, ad essi hanno fatto seguito i predicatori ed evangelizzatori, i quali con la Compagnia di Gesù hanno abbandonato ogni elemento c1australe e sono entrati profondamente nel mondo, ed oggi le comunità secolari (instituta saecularia) percorrono in pieno le vie e vivono i consigli evangelici in mezzo alla vita professionale moderna, non separati in nulla dal mondo. E se in questi tipi di vita si poté realmente trovare per lungo tempo l’avanguardia dell’esistenza cristiana, questa impressionante via secolare, dal convento più lontano dal mondo fino all’esistenza più intima nel mondo, è una chiara e forte parola dello Spirito santo. E da questa inarrestabile direzione di marcia, appunto considerando il dinamismo del mondo moderno, non si esiterà a trarre le ultime conseguenze: ciò che nei ‘consigli evangelici’ si credette così a lungo di dover prendere alla lettera, è da intendere soprattutto in senso spirituale: deve incarnarsi completamente, senza l’estremo distacco di una verginità esterna, nello spirito di una piena umanità del matrimonio cristiano intrepidamente affermata, casi come le esteriorità dell’antica povertà devono umanizzarsi nel superiore distacco da ogni possesso, e soprattutto l’eterna immaturità dell’obbedienza esterna deve realizzarsi nella maturità del laico cristiano pienamente responsabile che vive nel mondo e arrischia la sua decisione cosciente. Per avere dinanzi agli occhi il quadro generale della tendenza non c’è più che da puntellare questi enunciati con insinuazioni storiche di un nascosto atteggiamento ‘manicheo’, ostile alla carne, dei cristiani antichi e medioevali, le cui tracce purtroppo sembrano essere più che chiare nei comandi e divieti matrimoniali della Chiesa; non c’è che da ricordare la naturale servitù di una umanità barbara, ancora infantile e difficile da educare al dominio paternalistico dell’autorità ecclesiastica, alla quale tuttavia si sottrae grazie al naturale processo di maturazione; non c’è più infine che da aggiungere che in un’epoca casi specializzata le competenze passano sempre più agli specialisti, conseguentemente in pratica si sottraggono sempre più alle autorità ecclesiastiche, che in tal modo vengono limitate al campo puramente spirituale. In questa tendenza il baricentro della Chiesa si sposta inarrestabilmente, dallo stato sacerdotale e dei consigli al laico: egli, in quanto Chiesa rivolta al mondo, radicata nel mondo, è il vero centro del regno di Dio in terra. Nei suoi confronti il clero non è che una forza ausiliaria, e la vita dei consigli non esiste che per ricordare simbolicamente ai laici che essi stessi non sono semplicemente mondo, che inoltre il regno di Dio non è ancor giunto in modo definitivo, ma il ‘futuro’ del Signore si trasformerà in presenza aperta soltanto alla fine dei tempi. La vita di rinunzia non è quindi che un segno, mentre la vita di consumo è la cosa indicata, e parimenti il pastore ufficiale non esiste che in funzione del gregge, per il bene del quale deve impegnare tutta la sua forza.
 Se a questa visione del mondo si aggiunge ancora la teoria dell’evoluzione biologica e la sua ingenua trasposizione nel campo della storia naturale e soprannaturale dell’umanità, la tendenza diventa inarrestabile: ma ora per l’umanità si tratta di prendere essa stessa in mano l’evoluzione cosmica e mediante un’attiva pianificazione spirituale non solo condurre la storia del mondo verso il suo completamento, ma con ciò anche preparare ed ‘accelerare’, per quanto dipende da essa, il futuro del Signore.
 Con questo spostamento di peso vien fuori, in modo impreveduto e come di passaggio, anche una risposta alla nostra domanda principale: ‘Chi è il cristiano’? In ultima istanza è colui che inserisce più profondamente l’elemento cristiano nella materia del mondo mondano, lo ‘incarna’ in modo più radicale. Che cosa attendono infatti tutti i mezzi della grazia messi a disposizione: la Bibbia, i sacramenti, la predicazione ecc.? Non altro che di essere tradotti in vita ed in atto, e ciò avviene nella vita cristiana quotidiana, cioè comune-mondana. Si realizzano così la parabola del lievito e le parole relative al sale della terra, alla luce del mondo.
Tutto ciò sembra semplice e chiaro, liberatore anche (dall’oppressione del clericalismo e dalla tutela di una ascesi straniata dal mondo) e, in un senso incoraggiante, impegna tutte le nostre forze a tal punto che l’ambiguità di questa tendenza quasi sparisce sotto tanti elementi positivi ed entusiasmanti. Ma riappare subito se, a coloro ‘che sono rivolti al mondo’, si pone la domanda: Che cos’è per voi cristiani l’elemento cristiano che pensate di incarnare nel mondo? Quando si definisce un concetto, non lo si deve adoperare nella definizione. Voi avete quindi sempre già – alle spalle – un concetto dell’elemento cristiano (e quindi del cristiano), con cui operate, quando progettate la vostra azione per il mondo. Non vorrete infatti dire che il volgersi al mondo in quanto tale sia l’elemento cristiano? Anche voi siete una parte del mondo e perciò non avete più bisogno di rivolgervi espressamente ad esso. Questo atteggiamento lo si potrebbe attribuire al massimo a Dio, che per sé non è ‘mondo’ e nel suo rivolgersi al mondo accorda ad esso una ‘grazia’. Per voi invece l’essere mondo è un fatto naturale ed un dovere spirituale che su esso si fonda. O forse lo spirito cristiano che vorreste apportare è il modo gioioso, fatto di dedizione responsabile, in cui pensate di collaborare alla costruzione del mondo? Ma questo spirito, per quanto eccellente, non trascende, in linea di principio, ciò che si deve esigere da ogni membro della comunità umana. Oppure intendete dire che il grado particolare del vostro impegno per il bene comune, della vostra dedizione ai vostri simili costituisce l’elemento cristiano distintivo, perché esso per gli uomini non potrebbe essere altro se non una forma particolarmente pura, luminosa ed attraente di umanità? Per questo potreste addurre importanti ragioni: che l’elemento cristiano non consiste in pratiche esterne e nella frequenza principale di Cristo, che egli – ad esempio nella lavanda dei piedi – ci ha insistentemente inculcato che fossimo tutti fratelli, ci servissimo ed aiutassimo reciprocamente, così come l’ha fatto egli, quale nostro maestro. Ma ciò significa che dovremmo distinguerci dagli altri uomini non mediante stranezze, bensì soltanto perché rispondiamo alle esigenze della umanità e solidarietà universali in modo più coscienzioso e conseguente di altri. Se il compito umano, in questo mondo ‘in definitiva’ completamento ‘mondano’, significa appunto la costruzione spirituale-tecnica di questo mondo da parte dell’uomo, l’elemento cristiano sarebbe di dare il buon esempio, stando in vetta a questo compito di solidarietà. Invece di giungere sempre troppo tardi, perché si guarda sognando verso il cielo e frattanto si perdono una dopo l’altra le possibilità di storia del mondo, occorre svegliarsi una buona volta per le esigenze religiose del presente ed essere modello in esso.
Infatti, sarebbe stato necessario un comunismo, se i cristiani fossero stati chiari e spassionati al momento giusto? La cura umana per i poveri e gli sfruttati non è stata raccomandata da tempi immemorabili dalla Bibbia dell’Antico e Nuovo Testamento? E se non ci fossero stati i fatali legami tra sfruttatori e religione cristiana, sarebbe stato necessario l’ateismo moderno? Ci imbattiamo qui nel fatto «che l’esistenza ed il movimento proletari dovettero quasi necessariamente concepirsi in modo ateistico, perché nei decenni decisivi del loro inizio, non divenne loro visibile Dio, che, dopo Cristo, avrebbe potuto diventare loro visibile ed evidente soltanto nei cristiani seguaci di Cristo. Ma il cristianesimo, che più non sosteneva in quanto sicuro ordinamento popolare contadino e piccolo borghese, non si presentò loro quasi per nulla in questa evidenza, bensì come validissima giustificazione e arma degli sfruttatori. Che Dio non esistesse non fu una conclusione logica, bensì un’esperienza evidente… L’ateismo ateistico, rivoluzionario, del momento in cui nacque il movimento operaio è causato direttamente dall’assenza di Dio, cioè dall’assenza dei cristiani».[5] Che cosa sarebbe stato necessario? Un chiaro e vigile senso per la fraternità, invece di una pratica farisaica, cieca al mondo. A che pro quindi gli ideali sopramondani, l’anacronistico sbirciare verso l’al di là, quando i compiti cristiani stanno in massa, direttamente sotto gli occhi? Anche oggi precisamente come al tempo del Manifesto comunista! Quante esigenze elementari dell’umanità restano insoddisfatte perché gli uomini presuntuosamente dicono di non aver tempo per esse! Qui il cristiano può intervenire, qui può incarnare la sua religione.
 Per quanto tutto ciò sia vero, si deve nondimeno ripetere la domanda fondamentale: il cristianesimo è nulla più di un umanesimo conseguente? Ma allora, in definitiva, ha ragione la seria ed onesta teologia dell’illuminismo e del liberalismo: Cristo è il maestro più sublime di umanità, il suo esempio è il modello più puro. Dopo questo esempio noi sappiamo che cosa sia vera solidarietà e disinteresse. Ma se lo sappiamo, che bisogno c’è ancora di fede? Non basta aspirare alla realizzazione delle istruzioni semplici, ma che impegnano tutta la nostra esistenza, del discorso della montagna, le quali non hanno in sé nulla di misterioso? A che servono ancora i misteri della fede? L’amore del prossimo ci può diventare intrinseco; a che pro queste ‘proposizioni’ da accettare come vere, che ci rimangono eternamente estrinseche? Se essere cristiano significa realizzazione, e se noi possiamo realizzare soltanto ciò che comprendiamo e per cui possiamo impegnarci in modo corrispondente, perché ancora le cose incomprensibili che, in quanto tali, rimangono indigeste, inassimilabili?
 Qui è posta, nel modo più chiaro, la domanda ‘Chi è il cristiano?’ Se il mio essere cristiano deve servire il mondo moderno, io devo averne un ideale comprensibile, percepibile. Ma esso dev’essere adatto alla ragione umana ed all’azione umana; con ciò, agendo, io parto sempre da un ideale che – in quanto compreso – sta alle mie spalle, anche se, in quanto è da realizzare, mi sta sempre davanti in modo nuovo. Questo è l’apriorismo della quarta tendenza. Per quanto la sua idea di realizzazione sia giusta, tuttavia anch’essa si fonda su un’occulta sottrazione: l’elemento cristiano non è altro che il vero umano.
Per mascherare alquanto questo apriorismo, esistono molte vie. Una sta già nel concepire nuovamente il mondo, appena sdivinizzato, in modo teologico e nel parlare di una ‘teologia delle realtà terrestri’. Tutt’al più si potrebbe attribuire loro un simile ultimo aspetto, se prima si fosse almeno sviluppata la loro ‘filosofia’ (ad esempio nel senso di Tommaso d’Aquino). Ma oggi la filosofia è svalutata a favore di una semplice ‘scienza esatta’ di nudi fatti. Questa scienza – senza la mediazione della filosofia – viene messa a confronto con la teologia, il che non può mai produrre se non l’apparenza di un dialogo, in realtà una semplice dialettica deteriore. ‘Creazione come salvezza’, ‘creazione come mistero salvifico’ sono temi e titoli in voga di libri moderni: suonano promettenti, ma dietro ad essi sta un corto circuito, una equiparazione tra filosofia e teologia, in cui alla lunga è sempre la teologia a rimetterci.
In questa dialettica si possono anche conciliare le posizioni più contraddittorie, ma soltanto in apparenza e senza un vero compromesso. Così oggi si dice contemporaneamente e con lo stesso accento di convinzione che il mondo è finalmente sdivinizzato e diventato puramente mondano, e che il mondo dev’essere concepito come un totale mistero eucaristico, come il corpo mistico di Cristo che cresce: una ‘divinizzazione’ del cosmo al di là di tutta la filosofia cristiana del mondo fornita dal pensiero oggettivo del medioevo. In una creazione che, anche nel suo aspetto evolutivo, viene concepita direttamente come mistero teologico-sacramentale, tutti i processi secolari-mondani, nonostante la loro precedente sdivinizzazione, cioè in pratica, nonostante il loro assoggettamento all’esclusiva disposizione dell’uomo che pensa e progetta in modo tecnico, passano anche direttamente nello spirituale. Il mondo sdivinizzato fino all’ateismo, in quanto tale è anche sacralizzato fino alla divinità. Ma questi in definitiva non sono poi che giochi di parole, con cui i cristiani del mondo odierno, che va avanti benissimo senza di loro, ingannano se stessi e si gettano sabbia negli occhi. Quando le differenze sono giàsegretamente eliminate in precedenza, non ha senso agire come se ancora le si mantenesse e si dicesse qualcosa di cristianamente profondo chiamando spiri. tuale ciò che è mondano e mondano ciò che è spirituale.
 Si rifletta per un momento sulla tradizione cristiana, che all’inizio di questo capitolo è stata addotta come potente testimone, e ci si decida a rinfacciarle o una esagerata mondanità (divinizzazione del mondo) od una esagerata fuga dal mondo (sdivinizzazione del mondo). Se questa decisione è impossibile, dovrebbe risultare che la cristianità da sempre, in concetti ed espressioni culturalmente variabili, ha visto e sostenuto sia l’uno che l’altro aspetto della realtà. Nessuno può negare che l’interpretazione cristiana dell’essere ha sempre avuto dinanzi agli occhi ed al cuore il destino del cosmo nel suo complesso; proprio alle immagini più forti ed efficaci del mondo non si può in alcun modo rinfacciare l’acosmismo, il distacco dal mondo. Il ‘santo cosmo’, cioè il mondo che, attraverso la creazione divina, l’incarnazione, la riconciliazione, la redenzione, ma anche attraverso l’osservanza delle leggi intramondane ed umane dell’essere, matura per laggiungere l’ultima pienezza di Cristo, è il postulato di un Origene e di un Dionigi Areopagita, di un Boezio e di un Giovanni Eriugena, dei maestri della scuola di Chartres e dei grandi scolastici Alberto, Bonaventura, Tommaso, il postulato di Nicolò Cusano e del pensiero rinascimentale cristiano da Firenze fino a Oxford, il postulato anche della mistica barocca di un Giacomo Böhme e della sua scuola fino a Schelling e Baader. A tutti costoro, fatta forse eccezione per Agostino, si dovrebbe muovere piuttosto il rimprovero di aver mescolato troppo mondo nel santo, troppa filosofia nella teologia. Proprio questo ci rende diffidenti quando si accusano i movimenti ascetici del monachismo o gli ordini mendicanti del medioevo di distacco dal mondo o addirittura di manicheismo le cui ultime tracce soltanto il nostro glorioso presente sarebbe riuscito a cancellare. Può darsi che questi movimenti rappresentino qualcosa come un compromesso nei confronti di una cristianità troppo moderna, immischiata nella politica e nella filosofia: come contrappeso non hanno la loro sanità e la loro legittimità?
 Soltanto noi avremmo scoperto chi è realmente il cristiano? Noi con la nostra quadruplice tendenza che, in tutte le sue direzioni, si è rivelata come una via per niente univoca e quindi piuttosto pericolosa? Infatti ogni volta, sia pure in modo diverso, si è supposto di sapere già ciò che era soltanto oggetto della domanda. Ma se già in campo filosofico nulla ha conseguenze peggiori dei presupposti aprioristici, ciò è vero tanto più nel campo cristiano. Dobbiamo perciò prendere la decisione di rigirarci e di porre dinanzi a noi ciò che in apparenza sta dietro di noi. La giusta posizione è di avere dinanzi a sé la domanda con il tentativo di risposta, perché la risposta ci viene necessariamente di là, donde ci è donato lo stesso essere cristiano: dalla Parola viva di Dio.

III – DIO DINANZI A NOI,
O: CHI È IL CRISTIANO?

DIRETTAMENTE AL CENTRO

Molte cose si decidono in anticipo col ricordare una semplice legge del pensiero: l’essenza di una cosa si afferra nel modo più chiaro là dov’essa appare allo stato più puro.[6] Chi vuole indagare l’essenza del cavallo o dell’asino nel mulo, incontrerà difficoltà; chi vuole studiare l’essenza del cristiano in un uomo che non si sa ben decidere ad essere o non essere tale, che in qualche modo conosce le esigenze che essa pone, ma non ha il coraggio di realizzarle, che sa o sente con esattezza di non attuarla secondo un sufficiente grado di purezza, per cui essa possa apparire convincente a lui stesso e ad altri, indaga in un oggetto non adatto. 
Ciò vale di quest’oggetto, il cristiano, ancor più chiaramente che di altri, perché nella parola di Cristo egli viene continuamente determinato in base ad una decisione fondamentale. Cristo sollecita l’uomo a questa decisione, che non è intesa come semplice porta d’ingresso all’essere cristiano (ciò sia supposto), ma coincide già sostanzialmente, sia pure in modo solo iniziale, con questo essere. Se si considera la gradazione degli atteggiamenti cristiani, dal compromesso più basso cui può ancora essere riconosciuta una partecipazione all’essere cristiano su su, fino al grado più alto di esenzione da compromessi, ognuno vede che l’idea irradia la sua forza luminosa ed evidenzia tanto più chiaramente, quanto più profondamente la forma cristiana domina una vita. Un ‘santo’ diritto (ce ne sono anche di storti) non può essere posto in dubbio. Sentirà talora la frase: ‘Se tutti fossero come lei…’. Qui si noti subito che proprio il ‘santo’ è colui che cerca di rendere cristiana ogni cosa, che sa meglio e più profondamente quanto egli stesso è peccatore. Altri facilmente desistono o si rassegnano dinanzi a ciò che li separa dalla piena rispondenza. Altri formano a se stessi una coscienza; ma questa cerca di vedersi nella pura luce della grazia e della esigenza di amore di Dio: per quel che la riguarda, essa viene definitivamente umiliata e privata di tutte le illusioni. Chi è il cristiano? Per andare verso una risposta non bisogna vagabondare al margine più basso ed esterno (‘uno che è battezzato’, ‘uno che compie il suo dovere pasquale’ ecc.), ma andare direttamente al centro. Il minimalista è una figura estremamente complicata perché indistinguibile ed opaca, da cui non c’è da aspettarsi una chiara nozione. Invece il massimalista – se il termine fosse a proposito, ma non lo è – presenta la figura semplice, trasparente, così semplice da essere lui il vero minimalista, perché in lui tutte le complicazioni si sono integrate. Per i minimalisti, secondo Paolo, sono poste le innumerevoli proibizioni della morale, di modo che dinanzi agli alberi non si vede quasi la foresta; per il massimalista, cioè per colui che aspira a Cristo, tutti questi divieti negativi si riducono ad un semplice comandamento; chi l’osserva, ha osservato come di passaggio anche tutti gli altri comandamenti, e di questo comandamento Cristo dice che non è difficile.
Si doveva premettere questa osservazione metodologica, prima di sviluppare la problematica concernente la determinazione dei contenuti.

COME SI UNISCONO LE COSE INCONCILIABILI?

Il nome di cristiano viene da Cristo. La sua essenza sta e cade con l’essenza di Cristo. Ciò è chiaro. Ma ora sorge minacciosa la domanda: quale affinità essenziale, quale tipo di comunione può esistere tra Cristo ed il cristiano?
 Un primo ed insuperabile enunciato per chiunque crede veramente all’essenza ed all’opera di Cristo dice: Cristo è Piglio unico del Padre, l’unico mediatore tra Dio e l’uomo, l’unico Redentore che in croce ha soddisfatto per tutti, la ‘primizia’ anche dei risorgenti dai morti, che, secondo Paolo, detiene il primato in tutto (Col. 1,1-9). Ciò che egli è, ciò che si effettua per mezzo suo, è circoscritto nella più completa solitudine della sua dignità divino-umana. Egli ci ha redenti attivamente, noi siamo i redenti passivamente; tutto ciò che in seguito noi, rispondendo, facciamo attivamente, si fonda sempre su questa passività prima, si riconosce nella fede, si proclama nella testimonianza. Il rendere testimonianza è ciò che conferisce la forma unitaria a tutto il nostro essere ed agire cristiano. Questo è un enunciato così chiaro, che ad esso si ferma il protestantesimo ortodosso. Infatti tutto ciò che vi può essere ancora aggiunto, sembra nuovamente oscurarlo.
Ma, per contro, sarà bene tenere dinanzi agli occhi i racconti evangelici. Guardando superficialmente, potrebbe sembrare a tutta prima che qui si presenti al popolo un uomo fornito di doti profetiche, che con la predicazione annunzia il regno di Dio, mediante i miracoli esige rispetto per il suo mandato divino, ed infine, fede nella sua persona; che inoltre si sceglie un piccolo seguito di uomini affinché colgano e registrino i suoi discorsi e le sue azioni e da ultimo, quando egli sarà morto e risorto, gli «rendano testimonianza a Gerusalemme, in Samaria e fino ai confini della terra» (Atti 1,8). Questo primo ‘strato’ dell’essere cristiano indubbiamente esiste e permane anche fino all’ultimo; il mandato della testimonianza conclude i vangeli di Matteo e di Luca ed inizia gli Atti degli Apostoli che, assieme alle lettere, contengono la relazione del modo in cui è stata resa questa testimonianza.
Ma questo non è tutto. Cristo non solo parla ed agisce dinanzi agli uomini, ma va con essi e li invita ad andare con lui. Ciò avviene in forma particolarmente visibile nella elezione degli Apostoli: «Chiamò a sé quelli che egli volle, ed essi andarono con lui. E ne costitu1 dodici perché stessero con lui» (Mc. 3,13-14). In altre scene di vocazione troviamo la frase: sequere me, che si può tradurre con «vieni dietro a me», se si prende ‘dietro’ non in senso locale, ma nel senso di un rapporto tra maestro e discepolo, per cui il discepolo segue in quanto viene ammesso nel mondo interiore del maestro e introdotto spiritualmente in esso. Quanto più ci si guarda attorno, tanto più l’essere-con (Mitsein) appare come la forma dominante della vita terrena di Cristo. Egli inizia la sua esistenza nel seno della madre, che ha manifestato il suo accordo con la parola di Dio; trascorre la sua giovinezza in seno ad una famiglia, che abbandona per un paio di giorni, per intrattenersi «nella cerchia dei dottori», ascoltando ed interrogando. La sua vita pubblica inizia con la formazione di un gruppo di discepoli, è trasfigurato dinanzi a tre discepoli in compagnia di Mosé e di Elia, è turbato dinanzi a quegli stessi tre sul monte degli Ulivi, va in croce con due malfattori, che pendono alla sua sinistra ed alla sua destra; persino risorgendo non è solo, ma, poiché il venerdì santo si aprono i sepolcri, nel giorno di Pasqua i corpi di molti santi che erano morti «risuscitarono e, uscendo dai sepolcri dopo la risurrezione di lui, entrarono nella città santa ed apparvero a molti» (Mt. 27,5I-53). E quando, risorto, va in campagna discorrendo con i discepoli di Emmaus, rivela fino all’ultimo la sua abitudine di essere-con (Mitsein). Ma lo stadio dell’essere-con, senz’essere eliminato, tende verso un terzo stadio di estrema intimità: verso l’essere-in (Insein), che egli realizza nel mistero del pane e del vino, che egli «desidera ardentemente» e a cui ha accennato in anticipo in molti segni e parole di promessa, e che egli vede in unione con la sua morte redentrice. Ma anche questa egli anticipa con disposizione sovrana e, morendo, si distribuisce ai suoi, nei SUOI, come una vita che perdura ed è presente ad ogni epoca del mondo. La sua preghiera finale al Padre suggella con sublime chiarezza l’acquisizione di questo essere-in: essi tutti sono una sola cosa in lui ed egli in essi, così come egli è una sola cosa con il Padre. E su questo essere-una-sola-cosa mediante l’essere-in egli ripone tutta la sua speranza: da ciò il mondo deve riconoscere la sua missione divina. I discepoli che permangono nella loro missione di rendere testimonianza attingono la forza nella fede che li fa consapevoli del loro essere ‘nel Signore’ e del suo essere-in loro («Cristo vive in me»).
 Siamo così abituati a questi concetti, che non ne percepiamo quasi più il paradosso. In quanto discepoli rendono testimonianza della sua antecedente singolare presenza dinanzi ad essi; ma egli pur essendo-con essi ed essendo in essi, rimane fino all’ultimo quest’unico; anzi, si deve andare oltre e dire: quanto più egli fu con essi, tanto più si aprirono i loro occhi per la sua unicità, quanto più egli rimane in essi ed essi si nutrono e partecipano della sua vita, tanto meno essi si scambiano con lui, tanto più egli s’innalza su di essi come il Kyrios, il Signore. Con la vicinanza cresce il senso della distanza, con la visione del suo incomprensibile abbassamento cresce la conoscenza che proprio in esso sta ed appare tutta la inimmaginabile altezza. Quanto più egli nasconde la sua forza nella impotenza della Passione, tanto più appare chiaro che egli solo ha il potere «di dare la sua vita per le sue pecorelle» e «di riprenderla» (Gv. 10,16-18): egli solo quindi può soffrire e morire e risorgere dai morti in rappresentanza di tutti gli altri. E così il discepolo, che per la sua intimità con Gesù afferra tutto ciò con la fede, è continuamente rimandato e per così dire respinto verso il dovere di rendere testimonianza.
 La cristianità odierna, stanca di una pratica puramente esteriore, ha raccolto il suo amore e la sua attenzione sul cristiano che rende testimonianza. Témoignage è la parola che risuona dovunque in Francia e spesso fin quasi a sazietà. La vita dei preti operai fu témoignage, quella dei Piccoli Fratelli e Sorelle è témoignage, nello stesso senso viene intesa quella delle nuove comunità secolari, ed infine ogni seria esistenza cristiana nella Chiesa e nel mondo. Per quanto serio sia questo progresso nei confronti della religione farisaica di una tiepida borghesia, e per quanto il concetto di ‘testimonianza’ possa includere anche l’esser-con e l’essere-in (nel concetto pieno del martirio), per sé sola è un atto che potrebbe anche essere concepito in senso minimalistico, come testimonianza di un evento storicamente avvenuto. In questo senso, come caso limite, persino un incredulo potrebbe attestare la crocifissione ed il ‘sepolcro vuoto’. E la celebrazione eucaristica della comunità potrebbe essere similmente concepita come una festa commemorativa di riconoscente ricordo del beneficio della redenzione avvenuta, come ad esempio l’atto vittorioso di Giuditta sull’esercito nemico veniva celebrato ogni anno con giubilo dagli Israeliti e «fu messo nel numero dei giorni santi da quel tempo fino ad oggi» (Gdt. 16,31, volg.). Ma evidentemente una simile concezione della celebrazione comunitaria non è sufficiente: non solo perché i cristiani devono esperimentare in essa la parola di Dio come una parola che (nello Spirito santo) è presente e si avvicina, ma perché nella consacrazione e nella comunione il Signore ‘ricordato’ è presente nella sua realtà corporeo-spirituale: dinanzi ad essi, con essi, in essi.
Il vangelo insegna che le cose stanno cosi, ed il cristiano lo crede. Ma egli aspira a comprendere ciò che crede: com’è possibile che ciò che Cristo ha di unico, di incomparabile, sia non soltanto dinanzi a noi, ma con noi ed in noi? Che anche noi lo compiamo veramente, senza che cessi di essere l’essere e l’agire dell’unico? Si noti che qui non si tratta soltanto di sottigliezze vacue, ma del punto centrale che dev’essere chiarito se si deve dare una risposta all’interrogativo avanzato dal nostro titolo. Si noti inoltre che qui, e in nessun altro punto, si trovano gli argomenti decisivi del dialogo ecumenico con il protestantesimo.

IL PUNTO D’INCONTRO

Imprimiamoci ancora una volta nella mente il decorso formale della vita di Gesù. La giovinezza potrebbe essere considerata come la lunga preparazione, una graduale iniziazione dell’adolescente alla sua missione per il mondo; il battesimo come conferimento dello spirito e della missione; la dimora nel deserto con la tentazione diabolica come l’ultima prova e tempera esistenziale. Ora, preparato da lontano, egli inizia la sua vita attiva, chiamando per prima cosa al suo seguito singoli uomini. Non come spettatori, ma come compagni che devono partecipare alla terrificante unicità della sua esistenza. Anch’essi si sono esposti con lui, ed egli lo conferma quando, nell’ultima cena, dice loro: «Voi mi siete rimasti fedeli nelle mie prove» (Lc. 22,28). Essi hanno fatto liberamente; hanno sempre avuto la possibilità («anche voi volete andarvene?») di abbandonarlo.
 In questa unione di una piena fedeltà di discepoli sembra dimostrarsi a tutta prima soltanto una virtù umana: quella tra la persona dei seguaci e il Signore. Ma poiché Gesù è di più, fa di più ed esige di più che non un uomo, la fedeltà dei suoi discepoli è anche di più di un attaccamento umano: è fede. Tuttavia le due cose non si unirebbero mai, se Gesù non avesse compiuto il suo atto sovrano in una forma umana e quindi aperta ed accessibile per principio agli uomini: nella forma di un’assoluta obbedienza a Dio. Egli non fa la sua volontà, bensì quella del Padre. Lo protesta tra lacrime e sudore di sangue sul monte degli Ulivi, nascondendo la sua volontà umana – al di là dei limiti del suo volere e potere nella volontà del Padre. Questa obbedienza, che fa sconfinare la finitezza di ogni facoltà umana nella infinità di Dio, è la forma di servo, liberamente assunta, dell’amore eterno, trinitario tra Padre e Figlio nello Spirito santo. È la sovrana decisione di amore di non conservare gelosamente la propria forma divina (come dice Paolo), ma di trasferirla nella piccolezza della forma umana, nella anonimità di una singola vita poco appariscente, infine in una obbedienza a Dio fino alla morte, anzi fino alla più obbrobriosa morte in croce. Obbedienza per libero amore fino alle estreme conseguenze: questa è esattamente la forma di vita del Dio incarnato. Ed è questo atto centrale che fonda ora anche la possibilità per gli uomini ordinari di partecipare alla vita, all’azione ed alla passione dell’uomo-Dio.
La libera obbedienza d’amore è il punto in cui le cose incomparabili si toccano fino ad identificarsi. Da parte dell’uomo questa obbedienza d’amore porta il nome distintivo di fede. Questa fede, in quanto atto dell’uomo, è un tentativo iniziale di consegnarsi («credo, Signore, aiuta la mia incredulità»), che da parte del Signore viene raccolto benignamente nella sua propria obbedienza, nella forza del suo esempio e modello, anzi viene già suscitato nel primo tentativo, stimolato, sostenuto, portato a successo (gratia praeveniens et consequens). Allo stesso modo che nel campo puramente umano la fiducia, la dedizione, il sì definitivo di una ragazza, può essere provocato e portato fino all’ultimo compimento dalla forza d’amore di un giovane. Ora l’arrendersi umano, per quanto si creda illimitato, conserverà forse sempre in qualche punto dei limiti inconsci, ad esempio quando l’uomo a cui ci si è dati, si trasformi completamente in infedele, disamorato, malvagio, e un legame con lui non sia più oltre sopportabile. Invece la fede in Cristo ha la sua prova esattamente nella completa sconfinatezza della dedizione: poiché ogni infedeltà da parte di Cristo rimane esclusa, persino quando la sua fedeltà divenisse a noi invisibile nelle tenebre di un completo abbandono; poiché la fedeltà di Dio per essenza è senza fine e senza pentimento, anche l’atto di dedizione amorosa, obbediente, come risposta ed affidamento alla forza della grazia di Dio che lo permette e rende possibile, può essere incondizionato ed illimitato. È l’atto che nella sua pienezza si chiama fede – amore speranza: fede amorosa che tutto spera, od amore speranzoso che tutto crede, o speranza credente che ama tutto ciò che Dio vuole. È l’atto che pone il nucleo fondamentale dell’essere cristiano, per modo che insperatamente abbiamo trovato la risposta alla nostra domanda: «Chi è il cristiano?». Cristiano è l’uomo che ‘vive di fede’ (Rom. 1,17), che cioè ha regolato tutta la sua esistenza sull’unica possibilità apertagli da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, obbediente per noi tutti fino alla croce: quella di partecipare al sì obbediente, che redime il mondo, detto a Dio.
Da parte di Cristo è l’atto di obbedienza per amore che fonda l’esistenza, poiché il Figlio di Dio non entra nell’esistenza ‘a modo di chi è gettato’, (geworfenerweise), ma ‘a modo di chi è inviato’ (gesendeterweise). Il fatto che egli in genere esista, ed esista in tal modo, dice già manifestazione dell’amore di Dio Padre per noi, che ‘dà’ il suo Figlio per noi. Nel Verbo c’è già l’idea di sacrificio ed in questo il consenso della vittima, dell’obbedienza. Nell’esistenza del Figlio obbediente risplende quindi chiarissimamente anche il mistero della Trinità divina. Tuttavia il Figlio non obbedisce a se stesso, bensì ad un altro, ma per un amore eterno, che è il fondamento della possibilità di una simile obbedienza e nello stesso tempo l’unità di colui che comanda e di colui che obbedisce. Infatti, se il Figlio fosse obbediente in ragione di una naturale subordinazione a Dio Padre, obbedendo, non farebbe che il suo dovere, e in ciò non apparirebbe l’amore di Dio assolutamente libero. Ma se egli obbedisce senza motivo, cioè per puro amore, allora in colui che è dato appare l’amore infondato di colui che dà per noi peccatori, un amore così infondato che Paola non esita a chiamarlo insensato. E se, dopo il compimento del segno di amore che Dio inscrive nella storia umana, se, dopo la vita, morte e risurrezione della vittima, il comune Spirito del Padre e del Figlio sarà inviato come testimone perpetuo dell’evento nella Chiesa e nel mondo, allora questo Spirito non potrà mai essere ed attestare altro se non appunto l’amore infondato-insensato, di qui perciò gli uomini non potranno mai disporre e servirsi per le loro prudenti macchinazioni.
 Infatti, ciò che dell’essenza di questo amore appare nell’esistenza del Figlio è la rinuncia a disporre di sé. Soltanto questa rinuncia dà all’attuazione del suo mandato l’inaudita forza esplosiva. Egli ha rinunciato ad agni prudenza, ha lasciato l’intera provvidenza al Padre che manda e dirige, e ciò lo esonera da ogni dovere di calcalo, di dosaggio, di diplomazia; gli conferisce la slancio infinito che non ha bisogno di curarsi dei muri di contraddizione, di dolore, di fallimento e di morte, perché il Padre lo dirige e lo afferra all’estrema fine della notte. Mediante l’atto di obbedienza totale il Figlio è quindi giunto alla totale libertà; tutto l’infinito spazio di Dio, sia della morte, della notte eterna, sia della vita eterna, è aperto alla sua azione. Fin dal principio egli è al di là dell’ ‘affanno’ («per il domani, di quel che si mangerà e berrà, di che si indosserà» Mt. 6,25) e nella tranquillità di colui che può lasciare tutto una volta e per sempre alla provvidenza del Padre.
 Come si vede, la dogma tic a nei suoi due pilastri fondamentali: Incarnazione e Trinità, è anche l’essenza della dottrina cristiana della vita: dogma ed esistenza stanno o cadono assieme. Infatti Gesù Cristo non è soltanto il Figlio eterno del Padre, che nella sua vita e passione ci mostra e ci porta la grazia del Padre, ma è anche vero uomo che, in quanto tale, dà inizio ‘in modo originario’ e ‘per primo’ all’esistenza cristiana. Egli crea il campo della fede e lo pone a nostra disposizione, ma in modo da compiere egli stesso, come modello, l’atto di fede. Di fatto, quantunque Dio possa brillare ed essere riconosciuto in mille modi frammentariamente nel campo delle sue creature, in questo campo c’è soltanto un unico modo che gli accorda la possibilità di una manifestazione essenziale (quantunque sempre velata di mistero): il sì illimitato della creatura spirituale che si dichiara pronta ad andare fin dove Dio ritiene necessario, a lasciar libero col suo inchinarsi tanto spazio quanto Dio vuole esigere.
 Che ciò avvenga è, secondo l’istruzione di Cristo, la nostra preghiera quotidiana. Noi preghiamo: «Sia santificato il tuo nome», e per lo più non comprendiamo bene che cosa le parole significhino. Il tuo nome, cioè ciò con cui sei conosciuto in modo distintivo nel mondo, ciò che rivela in noi la tua singolare realtà di unico vero, onnipotente, vivente Iddio, quegli atti che tu solo puoi fare e mediante i quali ti sei fatto presso di noi un ‘nome’: questo deve ‘essere santificato’, deve imporsi ad essere riconosciuto come santo, come divino. La tua realtà divina prenda il potere in noi, prevalga in noi contro ogni nostra resistenza, si procuri la preponderanza su tutti i nostri onerosi contrappesi.
 Noi preghiamo: «Venga il tuo regno». Regno di Dio è egli stesso in quanto viene riconosciuto come unico Signore, come egli è, e non come preferiamo raffigurarcelo. Quando le nostre concezioni dominano il campo, si tratta sempre del nostro regno. Egli con la sua forza e non noi con la nostra, che presumiamo di usare per mandato di Dio al fine di far prevalere a nostro modo la sua potenza. Nulla può oscurare maggiormente la potenza di Dio, impedire maggiormente la venuta del suo regno, che lo spingere avanti la nostra potenza per scopi del regno venturo di Dio.
 Noi preghiamo: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo cosi in terra». Come in cielo presso di te, cosi in terra presso di noi. Come la tua volontà riempie il cielo, il ‘luogo’ dove tu sei, dove il tuo nome si santifica ed il tuo regno è venuto, cosi possa la tua volontà riempire anche la terra, che siamo noi e che noi amministriamo, dove il tuo nome è ancora appena noto ed il tuo regno è ancora appena sensibile. La nostra terra ha le sue proprie leggi, che tu hai posto in essa e hai affidato a noi perché le sviluppassimo.
 Concedi quindi che in queste leggi, che sono terrene e non celesti, creaturali e non divine, la tua volontà celeste si appalesi e prenda corpo, e ciò mediante la nostra collaborazione che in ultima analisi non deve avvenire nello spirito e nel senso della terra, bensì del cielo.
 Così preghiamo e, se non vogliamo ciarlare peggio dei pagani, in queste parole riconosceremo con spassionatezza creaturale la chiara distinzione tra cielo e terra e con cristiana speranza afferreremo la chiara promessa che la volontà di Dio, se le facciamo posto, può imporsi non soltanto presso Dio in cielo, ma anche presso di noi sulla terra.

IL PATTO ED IL SÌ

Di qui si vede quanto sia precaria l’applicazione della categoria ‘patto’ a questo rapporto. Infatti non può trattarsi di un accordo che Dio e l’uomo stipulano tra di loro ed in cui ognuno pone le sue condizioni incontrandosi poi su una linea di mezzo. Nella conclusione di questo patto non ci sono, come in altri casi, due partner aventi uguali diritti su un qualche piano, tanto che chiamare l’uomo ‘partner di Dio’ teologicamente è una insulsaggine (ci si immagini: Maria partner dello Spirito santo!). No: ciò che qui appare come un patto, si fonda unicamente su una elezione unilaterale da parte di Dio; questa elezione (che diviene visibile in Abramo) ha come conseguenza una promessa ed un accaparramento, che per l’uomo significa essere ritenuto degno di esperimentare, affermare, credere la grazia di Dio nei suoi confronti, di regolare la propria esistenza su questa verità della grazia. L’elezione personale diviene collettiva al Sinai, e ad essa il popolo deve dire sì: esclusivamente sull’atto gratuito della libera elezione si fonda il permesso di esperimentare liberamente questa elezione e questa dimora di Dio nel popolo: appare nuovamente l’unione di libertà e di obbedienza.
 Questa libera risposta a Dio si realizza nel sì di Maria quale ‘Figlia di Sion’ al compimento della grazia del patto nella incarnazione di Dio. Questo sì è realizzazione dell’evento del Sinai e modello di ogni esistenza cristiana nella Chiesa futura. È realizzazione delle tre prime domande del Pater Noster, che allora vengono pienamente esaudite da Dio anche in virtù di questa forma completa. La incondizionatezza e quindi la irrevocabilità di questo sì di Maria dà via libera alla dedizione definitiva, senza riserve e senza garanzie, di Dio al mondo, al di là della quale non ci si può più aspettare da parte di Dio nulla di più definitivo. La debolezza del sì vetero-testamentario aveva costretto Dio a circondare il suo patto di clausole e di minacce; egli personalmente non diverrà infedele, ma lo sarà Israele, che dovrà espiare in modo così terribile il suo tradimento nei confronti dell’eternamente fedele, proprio perché Dio non può recedere dal suo patto. Nel sì definitivo a Dio c’era quindi allora, tra parentesi, un no. Ma «il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che noi… abbiamo tra voi predicato, non fu sì e no; in lui non c’è stato che sì. Tutte le promesse di Dio hanno infatti trovato in lui il loro sì» (2Coro 1,19-20). Questo sì visibile, che con Cristo e con la sua morte redentrice Dio dona al mondo, entra nel sì irrevocabile, che il mondo può appena udire, della ‘ancella del Signore’; e questo sì è fondamento ed essenza della Chiesa neotestamentaria. Chi si unisce in modo vivente a questo sì, è membro vivo del popolo di Dio, e quanto più ampiamente lo può dire, tanto più diviene ecclesiale.
 Il sì del popolo di Dio, che risuona in Sion-Maria-Chiesa, è totalmente condizionato e reso possibile non soltanto dalla promessa gratuita di Dio, bensì dalla realizzazione gratuita in Gesù Cristo, uomo-Dio. Egli stesso è l’unità indissolubile del sì di Dio all’uomo e del sì dell’uomo a Dio. Egli è quindi il nuovo ed eterno patto sussistente. E lo è a quel modo che già abbiamo visto: la sua umanità a disposizione della sua divinità in una obbedienza assoluta, per rivelare Dio e per lasciarsi consumare e distruggere fino all’ultimo in questo ufficio: sacerdote e vittima nello stesso tempo.
 Il sì assoluto, esente cioè da ogni condizione restrittiva (cosciente od inconscia), di Cristo e della sua madre-sposa Maria-Chiesa è il metro con cui si misura l’essere cristiano del cristiano. È la forma cristiana in cui può entrare colui che vuole porre la sua esistenza sotto questo segno. Una forma assoluta, che non tollera condizioni, che tutto esige, soprattutto dal peccatore (che mette sempre clausole), ed inoltre una forma che, a colui il quale (nella fede) è d’accordo, fa sperimentare dolcemente, ma inesorabilmente e talvolta brutalmente – o non è forse brutale la croce? – le conseguenze inopinate del suo sì. Egli infatti non ha detto sì a un proprio disegno controllabile, bensì ai disegni del Dio che è sempre più grande, disegni che in ogni caso appaiono diversi da come l’uomo li ha immaginati. In questa esperienza del diverso si decide se il suo sì è stato detto a Dio od a se stesso, se è stata obbedienza di fede o speculazione personale, se viene il regno di Dio od il regno dell’uomo.
Il vero giudizio, che separa pecore e capri, che mette in luce la fede e l’incredulità, è quindi la croce. Gesù promette a Pietro la croce quando dice: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai» (Gv. 21,18). Il profeta Agabo predice a Paolo la sua prossima passione prendendo la sua cintura, legandosi con essa mani e piedi e dicendo: «Così dice lo Spirito santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così a Gerusalemme dai Giudei e consegnato in mano ai pagani» (Atti 21,10-11). L’estensione decisiva della volontà umana, ansiosamente preoccupata della autoconservazione, all’ampiezza della volontà divina spensierata ed imprevidente non è opera di azione umana, bensì di passione imposta. Finché agisce l’uomo, non è ancora dimostrato sperimentalmente che nel farlo obbedisca a Dio. Lo dimostra l’obbedienza del dolore. Nulla può sostituire quella ‘esperienza’, questo ‘entrare’ nell’ ampiezza di Dio. Di Cristo stesso è detto che «imparò per le cose patite l’obbedienza» (Eb. 5,8). Tra il sapere e l’imparare c’è quindi nell’uomo una differenza sostanziale, e proprio riguardo alla fede. Perciò la categoria della ‘prova’ (dell’uomo da parte di Dio) appartiene al patrimonio biblico fondamentale. Dio stesso è, per così dire, ‘sicuro’ di un uomo, quando lo ha provato come oro nel fuoco. «Perfetta gioia riputate, fratelli miei, l’imbattervi in prove d’ogni genere» (Giac. 1,2).

PORTA PIÙ IN LÀ DI QUEL CHE TU PENSI

Il cristianesimo ha quindi una proposta molto insolita da presentare di fronte all’universale desiderio di tutte le religioni di unione con Dio. Le religioni, qualora non si fermino al ritualismo, devono tuttavia adattarsi in definitiva o ad eliminare la distinzione tra Dio e mondo, od a far dissolvere l uomo in Dio (nella morte, nell’estasi o nella concentrazione, ecc.). Com’è possibile, domanda il cristianesimo, una identità tra Dio e l’uomo, nel presupposto che i due siano e rimangano sostanzialmente diversi? E risponde: una identità è possibile in quanto Dio conferisce al suo amore la forma dell’obbedienza, e l’uomo alla sua obbedienza il senso dell’amore. Ciò avviene quando questi consente ad essere portato da Dio (che egli ama, perché Dio lo ha amato) al di là di tutto ciò che egli stesso può progettare, calcolare, desiderare e sostenere con la propria forza. Questo trascendere tutto ciò che gli è proprio lo porta nel divino-libero. La trascendenza sostanzialmente non è ‘eros’ – questo non è che il piacere di trascendere, bensì obbedienza di fede in virtù del Dio che comanda. Così come Pietro cammina sulle acque in forza dell’obbedienza; così come Lazzaro in forza dell’obbedienza si alza e cammina come cadavere avvolto in bende.
 La parola, che ci chiama oltre la sfera dei nostri piani e del nostro volere finito, è necessariamente dura. Deve infatti schiacciare il duro guscio della nostra finitezza, della nostra trincea peccaminosa. Perciò tutte le parole del Signore nel vangelo suonano dure come l’acciaio. L’umanità vi si romperà i denti fino alla fine del mondo. E nel centro della loro durezza queste parole nascondono una infinita dolcezza. La loro inesorabilità, che nella sostanza è uguale a quella dell’Antico Testamento, non fa che sottolineare la realtà, la libertà, la sovranità del Dio vivente, la cui volontà di santità rimane infinitamente superiore ad ogni aspirazione, brama e comprensione umane e, in quanto l’uomo è peccatore, anche in opposizione. La volontà di desiderio dell’uomo (voluntas ut natura, eros, desiderium) non può mai essere l’ultima norma dell’azione morale, quando Dio ha manifestato la sua libera volontà di amore. In virtù della sua tendenza all’assoluto, la volontà di desiderio può essere, è vero, un ampio criterio per ciò che nel campo finito dev’essere omesso o (col superamento di sé) ricercato, ma tuttavia non giungerà mai se non fin dove giunge l’orizzonte della comprensione propria dell’uomo. Se uno volesse prefiggersi un ideale morale altissimo, difficilissimo, cui aspirare, sarebbe necessariamente un ideale che egli stesso può progettare, di cui può assumere la responsabilità, e conseguentemente può anche giudicare come giusto. Il voler oltrepassare di per sé questo orizzonte, non rientra né nella possibilità, né nella responsabilità dell’uomo; non nella possibilità, perché anche la volontà creata, in quanto è libera, confina con l’assoluto – diversamente non sarebbe libera – e perciò ha in sé la responsabilità di questo elemento di assolutezza. Ma essa non può assolutamente afferrare in anticipo l’assoluto in quanto amore che gli viene liberamente incontro: ciò che è l’assoluto in quanto amore, gliela può dire soltanto il Dio dell’amore, al di là di tutti i criteri di un desiderio creaturale.
Questa è la ragione per cui il primo amore decisivo della creatura è l’obbedienza, e non un sapere già in anticipo (con Dio dietro le spalle) in che consiste l’amore e come si estrinseca. Certamente in una cura disinteressata per i poveri e i bisognosi, tuttavia: «I poveri li avrete sempre con voi, ma non avrete sempre me» (Mt. 26,11). Davanti a tutti i programmi umani, per quanto intelligenti, si pone il fatto insopprimibile che è presente lo stesso amore eterno: e mentre tutti i programmi terreni dividono per distribuire («Perché non s’è venduto questo unguento per trecento denari e non s’è dato ai poveri?» Gv. 12,5), ogni prodigalità deve andare prima e senza calcolo allo stesso amore eterno («Lasciatela stare, perché le date noia? essa ha compiuto verso di me un’opera buona. Essa ha fatto ciò che ha potuto: ha anticipato l’unzione del mio corpo per la sepoltura» Mc. 14,6-8).
 Il sì illimitato di Maria di Betania è l’ ‘opera’ perfetta, la ‘possibilità’ esaurita dell’uomo; ma essa è infinitamente più ricca di significato, di conseguenza e di frutti che tutti i programmi progettati dall’uomo stesso. Proprio perché colui che ama in tal modo non scorge la portata del suo atto, ma lascia il suo tentativo di amore al libero uso dell’amore di Dio. Ma Dio se ne serve per i suoi scopi, che l’uomo neppure sospetta, e la cui rivelazione (ora o nel giudizio finale) lo sorprenderà come somma beatitudine. L’amore ‘cieco’ di Maria viene usato da Dio per gli scopi della passione di Gesù: senza sapere quel che fa, essa unge il Signore per la sua morte redentrice, e con ciò dà, in nome della Chiesa che ama, il consenso dell’umanità a quest’opera gratuita di Di
Appunto questa ‘opera’, che Gesù ci elogia, è l’opera assoluta, in sostituzione della quale il cristiano non ne può offrire nessun’altra per quanto gli paia piena di effetto. Non una forza di fede carismatica, capace di trasportare i monti, non un’eloquenza spirituale, addirittura angelica, che senza l’amore rimane un semplice cicaleccio, non la teologia profonda, profeticamente alata, non una generosa cura dei poveri («e se distribuissi, per sfamare i poveri, tutti i miei beni»), neppure il martirio (ad esempio di una vita verginale o della testimonianza di Dio): tutto ciò «non serve a nulla» (1Cor. 13,1-3). Tutti i più grandi sforzi degli uomini nel fare propositi buoni e migliori rimangono soltanto un dimenarsi ed un contorcersi; ciò che Dio esige è che il cuore si dia con ardente amore.
 Ma non è possibile che l’uomo pronunci seriamente il «Non come voglio io, ma come vuoi tu» senza partecipare al turbamento del monte degli Ulivi. In un punto decisivo della via cristiana la natura deve andare con Cristo alla morte. La sua crescita rettilinea deve rompersi, la sua visione deve trasformarsi in notte, la sua accurata compiacenza di sé in maltrattamento. Non si può che andare di male in peggio; se il peccatore non fosse duro, Dio non avrebbe bisogno di diventare duro con lui; e quando anche fosse il cuore più dolce dinanzi a Dio, come quello di Gesù o di Maria, dovrebbe trovare durezza in funzione vicaria.
 Nessuna meraviglia che tutti quanti fuggiamo continuamente dinanzi a questo momento, che la cristianità lo differisca, infine lo scacci e da ultimo lo dimentichi. Si potrebbe anche descrivere una volta la storia della Chiesa sotto questo segno: come la storia di tutte le offerte sostitutive che essa fa a Dio per scansare l’atto della vera fede. Ricadiamo con ciò nella zona delle ambiguità, dove cose per sé molto buone possono essere l’espressione di una fuga nascosta. Tutto il ‘mandato culturale’ dei cristiani, che a gloria del contenuto della loro fede costruiscono cattedrali e regni, compongono poesie e sinfonie; tutto il sistema di un ‘regime ecclesiastico chiuso’, che, quale istanza esperta, offre protezione e sicurezza contro i pericoli ed i rischi della fede; un’etica nomistica ed una casistica protettiva; ed oggi, ma piuttosto in modo contrario, le abdicazioni e relativizzazioni di questo regime di fronte alla emancipazione dei cosiddetti ‘laici maturi’: tutto ciò, accanto a molti altri sintomi, può anche essere indizio di una paura che induce alla fuga.

SOLTANTO PER I POVERI È UN LIETO MESSAGGIO[7]

Sia l’Antico che il Nuovo Testamento sono pieni di beatitudini per i poveri, di ammonizioni e di minacce contro i ricchi. I poveri sono coloro che, in mancanza di qualcosa di proprio, dispongono di spazio per accogliere con gioia Dio ed il suo messaggio. Maria ha scelto ‘la parte migliore’ perché svuota tutta l’anima sua al fine di tenerla libera per l’’unica cosa necessaria’, la parola di Dio, per la sua venuta. Marta, invece, si dà molto da fare, perché da sé è ricca di progetti circa il modo in cui intende accogliere e trattare il Signore.
Per il ricco la parola di Dio giunge sempre importuna, perché esige tutto lo spazio, e questo è sbarrato dal possesso proprio. Per lui quindi il messaggio non è lieto, ma penoso, forse è addirittura un giudizio. La prima Maria sintetizza uno degli enunciati principali dell’Antico Testamento, quando canta: «Ha rovesciato i potenti dai loro troni e innalzato gli umili, ha colmato di beni gli affamati e rimandato a mani vuote i ricchi». Già Anna, madre di Samuele, aveva cantato così: «Egli solleva dalla polvere il misero, dalle immondizie innalza l’indigente» (1 Sam. 2,8; ripreso in Sal. 113,7), e similmente Giuditta: «Tu sei Dio degli umili, aiuto dei miseri, difensore dei deboli, rifugio degli sfiduciati, salvatore dei disperati» (Gdt. 9,11). I poveri o umiliati (la parola è la stessa: anawim) sono sia i disprezzati che gli oppressi a motivo della loro povertà ed impotenza; in favor loro Jahvé, per bocca dei profeti, esige giustizia, sia corporale che spirituale (Am. 2,6; Is. 3,15; 10,2; ecc.), ma essi la trovano soltanto in Cristo, che inizia il suo messaggio subito con una beatitudine per i poveri, che sono anche quei ripuliti (katharoi, ‘puri’) che non potendo farsi giustizia da soli, perciò ‘sono afllitti’, ‘hanno fame e sete di giustizia’ e per amore di Cristo o del regno di Dio sono «oltraggiati, perseguitati e calunniati» (Mt. 5,3-12). Per essi, che non hanno altro da aspettarsi, valgono tutte le promesse di Dio. Nelle parabole hanno tempo di accettare l’invito, mentre i ricchi sono totalmente presi dalle loro preoccupazioni. E poiché non hanno nulla, si sentono un nulla e, nei confronti di Dio, eterni debitori e con il pubblicano possono stare in fondo al tempio, professarsi colpevoli e tornare giustificati a casa. Dinanzi a Dio questi poveri sono gli eterni minorenni, mentre i ‘maggiorenni’ ed edotti sono i ricchi, i fari sei e gli scribi. Ma la promessa di Dio è che «in quel giorno… allontanerò da te i tuoi superbi millantatori… lascerò sopravvivere in mezzo a te un popolo oppresso e povero che cercherà rifugio nel nome di Jahvé: il resto di Israele» (Sof. 3,11-13). Nella predicazione di Cristo i poveri, normalmente disprezzati, vilipesi e trascurati come zen che non contano, sono identici ai ‘piccoli’ o ‘bambini’ o ‘umili’ o ‘ultimi’. Sono nel mondo gli irrilevanti, gli insignificanti, dei quali non c’è nulla da raccontare e dei quali non si tien conto, come quei cristiani di Corinto, ai quali Paolo dice apertamente: «Non molti sono tra voi i sapienti secondo l’estimazione terrena; non molti i potenti; non molti i nobili», ma: «Ciò che è stolto per il mondo… ciò che per il mondo è debole… ciò che per il mondo non ha nobiltà e valore… ciò che non esiste… Dio ha scelto per ridurre al nulla ciò che esiste» (1Cor. 1,26-28).
Non è necessario dimostrare espressamente che con questa povertà Cristo intende anche la povertà reale, letterale, in cui in partenza e come prima condizione pone i suoi discepoli e di cui egli stesso dà l’esempio per tutta la vita. E soltanto quando in primo luogo e soprattutto essa esiste, c’è da sperare che i ricchi – di beni materiali e spirituali – imparino un po’ a comprendere che cos’è la povertà ‘in spirito’. Anzi, è possibile che il pubblicano abbia posseduto più beni del fariseo. Ma se non si incomincia con la povertà materiale, tutto rimane un nobile mormorio e non si fa nulla. Allora ogni fariseo, che «paga le decime di tutto ciò che possiede» (Lc. 18,12), ogni pubblicano, che «dà ai poveri la metà dei suoi averi» (Lc. 19,8), potrebbe immaginarsi di essere già con ciò un povero in spirito. Quanto è diversa la povera vedova, che dà del suo necessario per chi è ancora più povero, e così fa tabula rasa al pari dei discepoli eletti!
 Nell’Antico ed all’inizio del Nuovo Testamento la sterilità corporale ha la stessa evidenza della povertà totale: la incapacità di concepire, di portare, di mettere al mondo un figlio. Una simile donna è profondamente umiliata, viene nello stesso tempo disprezzata e commiserata. Essa non riesce neppure a fare ciò che potrebbe fare un animale, non è umanamente completa, delude il marito, la sua famiglia. Vicinissima a questa sterilità biblica, che regolarmente costituisce il presupposto per l’azione promessa da Dio – in Isacco, in Giacobbe, in Sansone, in Samuele, in Giovanni Battista – sta la miseria e spregevolezza di una verginità per amore di Dio, perché Dio, fedele alla sua azione promessa, intende portare non altrimenti anche la realizzazione: perciò Maria designa se stessa come la humilis ancilla, la ‘serva umile, spregevole’, a cui il Signore ha guardato dall’alto (Lc. 1,48). La grazia della fecondità per Dio è il paradosso per eccellenza, come esclama nel «libro della consolazione» la figlia di Sion in vista dei suoi figli: «Chi mi generò costoro, mentre io ero priva di figli e sterile, bandita e ripudiata? Chi ha allevato costoro? Ecco io ero rimasta sola; donde vengono costoro?» (Is. 49,21). Ma, invece di meravigliarsi, essa deve dar lode: «Esulta, o sterile, che non hai partorito; giubila, esulta, tripudia, tu che non hai provato le doglie, perché i figli della derelitta sono più numerosi dei figli della maritata, dice Jahvé» (Is. 54,1: ripreso da Paolo: Gal. 4,27).
 Con tutto questo siamo al punto centrale della rivelazione, che appunto solo per i poveri diviene lieto messaggio e fruttifica soltanto nella sterilità, così come soltanto nell’obbedienza di fede, che si lascia portare dalla parola al di là di ogni programma personale, può diventare un ‘tesoro’ in Dio, una ‘perla preziosa’, un meraviglioso ‘possesso’ (Is. 57,13; Mt. 5,4; 19,29; ecc.). Soltanto in tal modo il terreno accogliente dell’uomo ‘risponde’ al seminatore divino, non già portando un frutto che, per il fugace ed oblio so ascolto della parola, cresce in breve tempo e subito secca, ma perseverando in un atto di fede abituale, che nella tradizione ecclesiastica si chiama atto di contemplazione. È l’atteggiamento di un’anima generalmente aperta, che permane nell’ascolto della parola. Così la madre Maria che «conservava con cura tutte queste cose in cuor suo e le meditava» (Lc. 2,19-51). Così Maria di Betania che, perseverando nell’accoglienza pura, contemplativa della parola, fa l’«unica cosa necessaria».

PRIMATO DELLA CONTEMPLAZIONE DELLA FEDE

Si vede ora come la vita contemplativa è indispensabile e centrale nel complesso della Chiesa. Non c’è azione esterna senza contemplazione interiore (che è la dimensione esistenziale della stessa fede), mentre è perfettamente possibile riempire una vita con la contemplazione interiore senza l’azione esterna. Infatti l’atto contemplativo è l’atto che fonda in permanenza ogni azione esterna; è attivo ed efficace, fecondo e missionario più di tutte le imprese esterne della Chiesa. È una testimonianza di povertà in senso deteriore per la Chiesa, quand’essa non comprende più questa verità e quando i suoi teologi diffondono sempre più sfacciatamente l’opinione che la contemplazione, che la Chiesa fin dal sec. III ha preso sul serio anche come forma esteriore di vita, sia un corpo estraneo, alla cui faticosa ed infine vittoriosa eliminazione i millenni avrebbero dovuto lavorare. Così il card. Suenens[8] parla di «stadi di evoluzione» in cui la clausura delle monache, che egli evidentemente molto deplora, fu finalmente mitigata e da ultimo in gran parte soppressa. Angela Merici, Pietro Fourier, Francesco di Sales e la Signora di Chantal, Vincenzo de’ Paoli sono tappe «di una battaglia che è stata combattuta per la libertà dello Spirito santo. S. Vincenzo de’ Paoli è riuscito a fare un’importante avanzata, ma non ha ancora conquistato del tutto il campo». Per il cardinale questa terra promessa, considerata nel suo complesso, è la libertà e l’ardire dell’impegno esterno al servizio del prossimo. A suo giudizio questo impegno fu di volta in volta il primo impulso di fondazione, e le successive ritirate paurose in convento ed in clausura ne sono il parziale tradimento. Il destino della fondazione della Signora di Chantal può valere qui come esempio. Certamente Suenens ammette (ma soltanto come raro caso eccezionale) una vita di pura contemplazione, come quella cui aspiravano i primi eremiti e cenobiti. Questa vita «era concepita soprattutto in ordine a Dio che viene ricercato in sé e per sé, e ciò è normale. Corrisponde al dovere della diretta adorazione di Dio; il suo perno sono la vita liturgica – opus Dei – e l’unione con Dio. (Ma) la vita apostolica è nello stesso tempo diretta verso Dio per se stesso, e verso Dio, cui si serve nel prossimo… L’apostolo lascia Dio per Dio».
C’è qui una concezione della contemplazione che non è del tutto esatta né teologicamente né storicamente, e che Suenens successivamente – dove descrive l’inseparabilità tra una vita esclusiva per Dio e la disponibilità per la Chiesa (69) – in parte corregge. Quando si parla cristianamente della contemplazione della fede, non si deve partire dal concetto greco-filosofico, che la intende come una ‘ascesa’ univoca-unilaterale dal temporale all’eterno, dal mondo a Dio, un concetto che riappare segretamente non soltanto nel monachismo siro-egiziano (Evagrio e la sua scuola), ma anche in Tommaso d’Aquino, e che soltanto esternamente e successivamente può essere collegato con l’apertura apostolica al mondo. La contemplazione deve essere piuttosto concepita in modo biblico, concreto; allora implica la risposta totalitaria del credente alla parola di Dio: dedizione illimitata a questa parola ed ai suoi scopi di redenzione del mondo. Cosi Antonio, padre del monachismo, ha combattuto le sue esemplari battaglie, estremamente attive, contro il nemico maligno; così Origene ha assegnato ai contemplativi il compito di combattere con sommo impegno, dall’alto del monte le battaglie del popolo di Dio, al pari di Mosè, le cui braccia durante la battaglia erano sostenute verso il cielo; così Teresa ha riformato il Carmelo, per convogliare, mediante la preghiera e l’olocausto totale, forze alla Chiesa contro le perdite della riforma; così la piccola Teresa ha concepito ancor più ampiamente la sua contemplazione come centro dell’opera missionaria della Chiesa, e dalla Chiesa è stata elevata – evidentemente a conferma della sua concezione – a patrona universale delle missioni; così nel deserto Charles de Foucauld lotta quotidianamente dinanzi al tabernacolo per la piena risposta di amore, ben sapendo di non poter dare al mondo un aiuto più profondo di questo.
 Se si vogliono consolare le monache ‘vecchio stile’ col dire che anche oggi, accanto alle crescenti comunità laiche, hanno ancora una ragion d’essere nella Chiesa perché «danno a tutti una testimonianza (témoignage) visibile» (61), ciò è indubbiamente vero, ma è ben lungi dal bastare; l’azione decisiva della vera contemplazione, a dispetto di tutte le statistiche, sta completamente nel campo invisibile; la fede si tiene senza calcolo e senza riflessione a disposizione di Dio, ed al credente, in definitiva, non importa nulla di ciò che Dio ne fa. Egli è preso, sfruttato a tal punto che la via della contemplazione, percorsa onestamente e rettamente, sfocia normalmente in una notte: nel non vedere più perché si prega, perché si è rinunciato; nel non sapere più se Dio sta ancora ad ascoltare, se vuole ed accetta ancora il sacrificio…
 Vogliamo sperare che la Chiesa non venda i suoi misteri più profondi ed i suoi privilegi più alti per il piatto di lenticchie di soddisfazioni apostoliche esterne; che non sacrifichi i rischi estremi, giustificabili soltanto teologicamente, per ogni sorta di considerazioni psicologiche, sociologiche e statistiche: sarebbe uno dei livellamenti descritti all’inizio. Non significa prestare ascolto allo Spirito santo il gettare al vento il messaggio di Teresa di Lisieux, di Edith Stein e di Charles de Foucauld. Infatti la ‘testimonianza’, che qui viene resa, non è primariamente una testimonianza per la forma di vita esclusivamente contemplativa, che rimarrà sempre soltanto privilegio di pochi eletti, ma una testimonianza per il fondamento contemplativo di ogni esistenza cristiana, quale abbiamo cercato di indicare.
 Chi non vuole ascoltare prima Dio, non ha nulla da dire al mondo. Si ‘affannerà per molte cose’, come fanno tanti sacerdoti e laici oggi, fino allo svenimento ed all’esaurimento, trascurando l’unica cosa necessaria; anzi, dirà parecchie bugie a se stesso per dimenticare o giustificare questa trascuranza. Tali giustificazioni si possono sentire oggi dovunque dalla bocca di laici e di sacerdoti; c’è da inorridire. I tempi della contemplazione, si dice, sarebbero definitivamente tramontati. La contemplazione apparterrebbe ad un’epoca culturale passata – rivive qui il concetto filosofico antico della teoria -, in cui era cosa nobile (ed anche riservata ai nobili, che avevano agio di farlo) guardare le stelle e provare in ciò un desiderio dell’assoluto. Lo sguardo di chi oggi guarda romanticamente al cielo, non incontra che ciminiere fumanti. Viviamo in un freddo mondo di lavoro, che impegna inesorabilmente tutto l’uomo. Anzi, nel quartiere moderno, nell’appartamentino moderno con le sue stanze comuni canti, piene del rumore dei bambini, non c’è neppur più un angolo, dove uno si possa concentrare e gustare la concentrazione. Tanto meno il sacerdote della grande città, assillato giorno e notte: se finisce a singhiozzo il suo breviario, ciò costituisce il massimo che si possa pretendere da lui. Oggi si tratta di incontrare Dio nell’azione, altrimenti non lo si troverà. Il mondo è avviato e nessuno ne fermerà più il motore. 
Così essi parlano e non desiderano più sentire argomenti contrari. Si sono rassegnati e pensano che la loro rinunzia (così comoda) abbia qualcosa di duramente realistico, forse di eroico. «Dio servito per primo», diceva Giovanna d’Arco. Sì: quando Dio è servito per primo, tutta la nostra vita nel mondo può acquistare il senso di un servizio divino, il nostro servaggio nella fabbrica dell’umanità può essere un atto di libera dedizione ed accettazione, il nostro incontro continuo ed inevitabile con le cose palesemente mondane può essere sorretto e guidato da un incontro con Dio, che tanto più efficacemente accompagna e ritorna dovunque alla memoria, quanto più è posto con forza all’inizio della nostra esistenza di fede. La decisione fondamentale ‘sia fatta la tua volontà’ – proprio là dove essa intralcia e mi pone esigenze che vanno al di là dei miei progetti – prevale in tutto ciò che ci reclama: in questo senso la vita del mondo e la sua azione diventano esercitazione nella contemplazione. Infatti ora non abbiamo Dio dietro le spalle, ma camminiamo in attesa aperta verso di lui.
 Possiamo avvicinarci a Dio solo se, al di là di tutti i nostri propri problemi, rimane in noi spazio libero per ciò che la sua volontà ha di inatteso. E se tutti i programmi, le previsioni e i calcoli son posti in movimento e tenuti in sospeso da ciò che c’è sempre di più grande della sua chiamata che giunge a noi. Soltanto in questa disposizione di assoluta risolutezza ad obbedire innanzi tutto, il cristiano può rivendicare la parola ‘amore’ per la sua vita e la sua azione. Diversamente il suo atteggiamento ed il suo impegno non supererebbero il livello di un impegno umano medio, che, stando all’esperienza, sovente rende molto di più ed è pronto a maggiori sacrifici che non quello di taluni cristiani.

IL SENSO DELL’IRREVOCABILE

A questo punto quel prudente riserbo nell’impegno, che si può incontrare così frequentemente in giovani cristiani moderni, diventa pericoloso. Essi vogliono certo impegnarsi, ma nello stesso tempo conservare le redini in mano. Vogliono anche impegnarsi totalmente, ma solo per un tempo determinato. Perché per un tempo più lungo non è possibile controllare se meriti ancora impegnarsi, ed essi vogliono restare liberi di cambiare idea, di impiegare diversamente le loro energie, di contrarre nuovi legami. In tal modo ritengono di accrescere il loro rendimento generale – perché fanno sempre soltanto ciò che loro pare chiaro e fin quando, a loro giudizio, merita e tengono il manico in mano. 
È un po’ come un ‘matrimonio a termine’. Anzi, oggi c’è persino il ‘convento a termine’. Quantunque propriamente non vi possa essere né l’una né l’altra cosa. L’una è il rapporto sessuale a titolo sperimentale. L’altra è una parentesi contemplativa, per persone molto occupate, in certi casi negli ambienti di una abbazia ospitale. Come il matrimonio è formalmente costituito da una reciproca promessa per sempre, come si può diventare sacerdoti soltanto in eterno e non a termine, così anche nella forma di vita determinata dai consigli. Nei tre casi il carattere definitivo è assolutamente ciò che dinanzi a Dio conferisce il peso massimo ad una forma cristiana di vita ed in essa a tutti i suoi singoli atti.
 Da quanto s’è detto si vede facilmente che questo carattere definitivo di una dedizione di vita è profondamente connesso con l’obbedienza cristiana di fede. In tutti e tre i casi – stato matrimoniale, stato sacerdotale, stato religioso – la vita è irrimediabilmente consegnata a Dio. Nella speranza che la palla da noi lanciata sia afferrata dalla mano dell’onnipotenza. Chi invece dà la sua vita soltanto pezzo per pezzo, se ne riserva l’amministrazione; quindi in fondo non la dà affatto. Si va forse per tre anni nelle missioni come aiutanti laici, e poi si può riconsiderare la cosa. Oppure si diventa suora ospedaliera con il pensiero recondito che ci si può ancor sempre sposare. Oggi, infatti, le cose mutano talmente in fretta!
 Ma ogni vera fecondità della vita procede dalla irrevocabilità. Kierkegaard ha chiamato, quel modo di vivere, esistenza estetica (che per lui ha avuto la sua forma più pura in Don Giovanni), questo l’ha chiamato esistenza etica (come matrimonio) e religiosa (nella rinunzia al matrimonio). È male soltanto se, sotto pretesti etici, si sceglie l’esistenza estetica. Oggi questo male è all’ordine del giorno a motivo della trasformazione abusiva di una bella frase in uno slogan pernicioso: l’espressione ‘cristiano maturo’.

CHI È IL CRISTIANO MATURO?

Che cosa potrebbe significare quest’espressione nel campo della rivelazione biblica? Ci sono, ad esempio, nell’ Antico Testamento dei giudei maturi? Cristo, obbediente al Padre fino alla morte, è stato maturo? Nella Chiesa il sacerdote, il religioso, la monaca possono mai essere designati come maturi? Oppure l’espressione dev’essere applicata soltanto ai laici, che forse sono maturi quando sono usciti dalla ‘tutela’ del clero? Per ottenere un po’ di chiarezza dobbiamo aprire la Bibbia. 
’Minorenne’ (nepios) può essere chiamato semplicemente il bambino normale («quando ero bambino, parlavo da bambino, e da bambino pensavo e ragionavo» 1Cor. 13,11. «Dalla bocca dei bambini e dei lattanti ti sei procurato una lode» Mt. 21,26; Sal. 8,3). Ma se lo stato d’infanzia spirituale si protrae oltre il tempo, diventa riprovevole. Eb. 5,11-12: «Sopra di che molte cose avremmo da dire, difficili a spiegare, poiché siete divenuti lenti a capire. Infatti, mentre dovreste, a ragione del tempo, essere maestri, avete ancora bisogno che altri v’insegni i primi rudimenti degli oracoli di Dio e siete divenuti bisognosi di latte e non di solido nutrimento». Qui l’immaturità è un non comprendere, e questo a sua volta si fonda su una durezza d’orecchio nei confronti della parola; l’espressione significa alla lettera: siete lavoratori indolenti, cattivi con le orecchie. In modo del tutto simile Paolo in 1Cor. 3,1 s. In precedenza egli aveva detto che l’uomo terreno non comprende lo spirito di Dio, che per capirlo occorre essere uomo spirituale ed egli, Paolo, ha lo Spirito. Poi continua: «E io, o fratelli, non potei parlare a voi come a uomini spirituali ma come a carnali, come a bimbi nel Cristo. Latte vi diedi a bere, non cibo solido». Se dal contesto della lettera si cerca di comprendere che cosa Paolo intende con le cose spirituali, che soltanto gli uomini spirituali possono capire, risulta trattarsi (nel cap. 1, 18-25) essenzialmente della «dottrina della croce», che per il mondo è una stoltezza, ma una stoltezza che è sapienza nascosta di Dio, la quale convince di stoltezza la sapienza del mondo. L’immaturità dei Corinti consiste nel non essere ancora all’altezza di questo ‘scandalo’, che solo permette di vedere nell’ ‘intimo di Dio’. Ciò viene confermato nel passo più importante: Col. 4,1-7, che è nello stesso tempo il più paradossale.
 Nell’Antico Testamento i fedeli sono sotto la legge come sotto un pedagogo; ma ormai, mediante la fede in Gesù Cristo, essi sono tutti quanti figli di Dio. Paolo si serve qui di una immagine giuridica: «Sino a quando l’erede è fanciullo, non differisce in nulla da uno schiavo, quantunque sia padrone di tutti i beni, ma sottostà a tutori e amministratori fino alla data fissata dal padre. Casi noi pure: da minorenni eravamo asserviti agli elementi del mondo. Ma allorché il tempo raggiunse la sua pienezza, Iddio mandò il suo Figlio, nato da una donna, nato sotto la legge, affinché riscattasse quelli che erano soggetti alla legge; affinché ricevessimo la dignità di figli adottivi. E prova che siete figli si è che Iddio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il quale grida: Abba, Padre! Di conseguenza, tu non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio sei, grazie a Dio, anche erede».
 Qui minorenne non è più il cristiano immaturo, ma il fedele precristiano, il giudeo, perché serviva a Dio soltanto per mezzo della legge, un ‘elemento del mondo’ (amministrato da ‘angeli’, cioè da potenze cosmiche), e non in libertà ed a diretto contatto con Dio. La emancipazione a vero figlio maggiorenne avviene per mezzo del Figlio di Dio, ma, caso strano, proprio perché il Figlio, soggetto alla legge fisica dello sviluppo (‘da una donna’), viene inoltre sottomesso ancora alla ‘legge’; per mezzo dello Spirito di questo Figlio gli schiavi diventano figli ed eredi. È lo spirito dell’amore obbediente, disinteressato, che discende e si sottomette, come lo descrive efficacemente Paolo in seguito (Gal. 5,6). È lo spirito di coloro «che appartengono a Cristo ed hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie» (Gal. 5,24). 
L’elemento comune di questi passi è la connessione tra maturità e croce. Si spiega la conclusione del citato passo della lettera agli Ebrei: «Ora chi si nutre di latte perché è bambino, è ignaro della dottrina di giustizia che invece è solido nutrimento dei perfetti, di quelli che, per l’esercizio, hanno le facoltà addestrate a distinguere il buono e il cattivo» (Eb. 5, 13-14). La ‘dottrina di giustizia’ di Dio, apparsa in Cristo, è la stessa che la ‘dottrina della croce’ o, nella lettera agli Ebrei, la dottrina del sommo sacerdozio di Cristo. Ciò rimane insipido ed indigesto per i cristiani non cresciuti. Per assimilarlo, l’uomo ha bisogno di un sensorio adulto. Soltanto chi ne è provvisto «gusta il dono celeste… gusta la buona parola di Dio e le meraviglie del secolo futuro» (ibid. 6,4-5), perché nella sua esistenza la verità esistenziale della morte e risurrezione di Cristo ha acquistato il primato ed è divenuta il criterio della percezione di ciò che è bene e di ciò che è male.
Se questo sensorio per la croce è sviluppato in un individuo, in una comunità, l’apostolo può considerare come terminata la sua opera di nutrice. «È cosa buona – dice ai Galati – essere oggetto di zelo, ma nel bene e sempre, e non solo quando io mi trovo presso di voi. Figlioli miei, di nuovo io soffro per voi i dolori del parto, finché Cristo non sia formato in voi» (Gal. 4,18-19). Questa ‘forma’, che deve imprimersi nel cristiano, è la stessa che inizialmente è stata impressa in lui dalla Chiesa con il sacramento del battesimo, nella speranza che essa si imponga nella materia recalcitrante: «Non sapete forse che tutti noi, che fummo battezzati in Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Fummo, col battesimo, sepolti con lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato da morte dalla potenza gloriosa del Padre, così noi pure vivessimo di una vita nuova. Se infatti siamo diventati un essere solo con lui nella somiglianza della sua morte, lo diventeremo altresì nella somiglianza della sua risurrezione; poiché, sappiamo bene, il nostro vecchio uomo fu crocifisso con lui…, crediamo che con lui parimenti vivremo» (Rom. 6,3-8). Conseguentemente è maturo colui che realizza in sé, in modo soggettivo-esistenziale, la realtà sacramentale oggettiva. Colui che non ha più bisogno di essere continuamente costretto dall’esterno a morire a questo mondo, ma liberamente e responsabilmente una volta per tutte «ha crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie» e può dire con l’apostolo: «grazie a Cristo il mondo è per me crocifisso ed io lo sono per il mondo… porto impresse nel mio corpo le stigmate di Gesù» (Gal. 6,14-17).
 Se, concludendo, cercassimo un esempio di maturità, il quale possa nello stesso tempo servire anche di norma ad ognuno, si raccomanda di meditare gli Atti degli Apostoli 16,6-7: «Essendo stato loro proibito dallo Spirito santo di diffondere la parola nell’Asia proconsolare, attraversarono la Frigia e il territorio della Galazia. Arrivati di fronte alla Misia, si disponevano ad incamminarsi verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù ancora non lo permise». Paolo ed i suoi fanno progetti – senza dubbio nello spirito di disinteresse cristiano, solleciti di ciò che era meglio per il regno di Dio, – ma ciò nonostante lo Spirito santo ha altri progetti più lungimiranti. Progetto contro progetto. Il cristiano che, avendo nella preghiera dimestichezza con lo Spirito santo di Gesù che continuamente guida e comanda, è in grado di sentire di dover abbandonare l’intero suo progetto a favore del disegno di Dio: ecco il cristiano maturo! Uno che sia divenuto totalmente ‘elemento’ atto a ricevere la forma di Cristo, ‘materia’ che da una simile ‘passività’ viene elevata alla suprema attività della ‘matrix’ e ‘mater’ di Gesù («…questi è a me fratello, sorella e madre» Mt. 12,50).
La maturità cristiana non è quindi una cosa così semplice ed univoca, come credono i più. Non è affatto solo un problema di formazione della propria coscienza in base a presunti princìpi cristiani purchessia. La coscienza, in quanto fa parte della nostra natura umana, è, sì, il fondamento della nostra azione morale naturale, ma in quanto siamo cristiani la nostra coscienza deve avere continuamente uno spiraglio aperto per lo Spirito santo di Cristo, che agisce in noi e su di noi in modo libero ed indipendente. Lo Spirito non si può travasare in bottiglie e princìpi che si possano turare una volta per sempre; soltanto la fresca vivezza di un ascolto continuo ha la possibilità di percepirlo, addirittura di comprenderlo. Ciò suppone una estrema docilità, un incarnato istinto soprannaturale di obbedienza, quindi il contrario di ciò che, nella nostra massiccia grossolanità, noi immaginiamo come ‘maturità’. Quanto più siamo obbedienti al libero Spirito di Cristo, tanto più possiamo crederci liberi o maturi. Tutto il resto è perfida autoillusione. 
Le condizioni per realizzare questo ideale sono state indicate: si tratta di far nostra con tutta serietà la morte di Cristo in croce come la forma fondamentale della nostra vita terrena, perché soltanto così possiamo sperimentare ‘le forze del mondo futuro’ nella ‘buona parola di Dio’; cioè quelle forze eterne ed immortali, dall’alto delle quali il cristiano deve distinguere, amministrare, dominare le cose terrene. Queste ‘forze’ naturalmente non sono le nostre, ma sono messe a nostra disposizione, le possiamo ‘indossare’ come un abito, più ancora, come un nuovo corpo, possiamo infilarci dentro ed identificarci con esse; questo la Scrittura chiama «rivestire il Cristo», «rivestirsi dell’uomo nuovo» (Rom. 13,14; Gal. 3,27; Ef. 4,24; Col. 3,10).
 Se facessimo ciò che vuole il nuovo uomo-Cristo, saremmo liberi e maggiorenni, ma, finché siamo sulla terra, questa libertà conserva il carattere di un servizio. Infatti questo uomo nuovo, libero, non ce lo siamo dato noi, ma lo dobbiamo alla grazia di Dio in Cristo; prima schiavi del peccato, ora siamo «divenuti servi di Dio», e di questo servizio è frutto la ‘santità’, «fine la vita eterna» (Rom. 6,22).

VIVERE DELLA MISSIONE

Questa vita di libertà al servizio di Dio può essere designa come esistenza nella missione. Per venirne a capo, bisogna consacrarvi una volta per sempre. La irrevocabilità è sacramentalmente il battesimo ed il suo carattere indelebile, ma esso esige una ratifica esistenziale. In Dio non c’è impiego ed incarico ‘a termine’. L’ ‘impiego fisso’ è il fondamento perché il servo possa ricevere incarichi particolari sempre nuovi ed inaspettati. Egli è continuamente di guardia: «Signore, che vuoi che io faccia?» (Atti 9,6). Nessun servo può andarsene definitivamente nella persuasione di aver compreso pienamente il suo incarico e dì non aver più bisogno, per eseguirlo, di ulteriori domande, di comunicazioni con la volontà del Signore. Le forze, di cui egli vive, non sono infatti quelle della vita presente, ma del ‘mondo futuro’; egli stesso è una ‘esistenza escatologica’, il suo uomo nuovo si fonda totalmente sugli atti di fede (in Cristo), di speranza (in ciò di cui non può ancora disporre), di amore (per Dio e per il prossimo nella rinuncia a sé). L’eterno movimento di questo triplice atto tiene il servo continuamente sul piede di partenza, in un continuo ricorso a Dio.
Si aggiunge una seconda cosa. Il cristiano è tale soltanto come membro della Chiesa. Il battesimo è un atto della Chiesa, che incorpora nella comunità della Chiesa. Nessuno è cristiano di propria iniziativa. E lo Spirito santo, che rende maggiorenne l’uomo se egli lo vuole, è in primo luogo e soprattutto lo Spirito della Chiesa. Essa è il corpo santo di Cristo e la sua sposa immacolata. Qui Chiesa non significa clero, ma neppure una società qualsiasi, in cui si possa entrare pagando una piccola quota di associazione. Lo Spirito della Chiesa è lo Spirito di santità. Lo Spirito di Maria, degli Apostoli, dei santi provati, che san fatti dal Signore «colonne nel tempio del mio Dio» (Apoc. 3,12). Immaturo è il cristiano che non vuole e non si sforza di far suo questo Spirito. La sua attenzione viene richiamata su di esso da ‘educatori’, gli si propongono mezzi e pratiche perché egli cresca in esso, perché elimini il rapporto esteriore e lo trasformi in interiore. Finché egli resta estraneo di fronte a questo Spirito, anche le pratiche gli appariranno estranee e legali, ed egli si lagnerà del formalismo della Chiesa. Deve attribuire queste sensazioni alla sua immaturità. Se egli si decide una volta per sempre ad identificarsi con lo Spirito della Chiesa, diviene cristiano maturo, e assumendo la piena corresponsabilità, non può più concedersi il lusso di agire come un estraneo e di star di fronte ad osservare e a registrare.[9] Poiché l’individuo è membro della Chiesa, spirito e vita gli vengono dal Cristo totale come capo e corpo, la sua missione cristiana è sempre anche un ‘carisma’ ecclesiastico (servizio-incarico dalla grazia). Paolo designa la ripartizione delle grazie ecclesiastiche da parte dello Spirito santo tra i membri della Chiesa secondo le necessità di tutto l’organismo come «misura della fede» o «analogia della fede» (Rom. 12,3-6). La ‘misura’ della missione assegnatami, cristianamente considerata, non è in me; la devo ricevere come qualcosa che mi è dato, e questa è l’’obbedienza ecclesiastica’ fondamentale del membro, che è più profonda e più radicale che non l’obbedienza del laico al clero, in quanto questo costituisce una funzione esterna di ordine ed una mediazione ufficiale per conservar pura e trasmettere la dottrina ed i sacramenti. Il rapporto del membro con l’assegnazione dell’incarico, in quanto fondato sulla rivelazione, è un rapporto così oggettivo e nello stesso tempo così spirituale-vivo, che la sua concretizzazione in un rapporto carismatico-ufficiale di obbedienza nei confronti di un ‘superiore’ (nel cosiddetto ‘consiglio’ evangelico dell’obbedienza) sta completamente nella linea di ciò che è presupposto.[10] In questo modo gli apostoli, che avevano lasciato tutto per amore di Cristo, gli hanno obbedito come a uomo che concretizzava per essi la volontà di Dio, molto prima di avere la certezza che quest’uomo era Figlio di Dio in senso stretto. In questo modo anche Paolo esige dalle sue comunità (ad esempio nella seconda lettera ai Corinti) un’obbedienza che, nelle sue drastiche ed improvvise esigenze, nella varietà ed intensità del suo esercizio, trascende di molto la semplice funzione ufficiale di ordine del clero ordinario. Perciò non si può affatto supporre come dimostrato, dal tono di queste intimazioni all’obbedienza, che la comunità di Corinto sia stata fondamentalmente ‘immatura’. Nei confronti degli immaturi (caratterizzati da un attaccamento pseudo-maturo alle proprie idee) Paolo, nella piena consapevolezza di essere dotato dello Spirito (1Cor. 7,40), sa non di rado comportarsi con ironica superiorità. «Ve ne prego: che non debba, presente, mostrarmi audace con quell’ardire con cui ho in animo di affrontare certa gente, la quale ci considera come se regolassimo la nostra condotta secondo criteri terreni… Le armi della nostra milizia non sono deboli; anzi hanno la forza di abbattere fortezze per la causa di Dio. Con esse riduciamo al nulla ogni macchinazione e superbia che si elevi contro la conoscenza di Dio e facciamo prigioniero ogni intelletto perché obbedisca a Cristo, pronti a punire ogni disobbedienza, quando la vostra obbedienza sia piena» (2Cor. 10,2-6). Infatti soltanto allora, così pensa Paolo, la comunità avrà raggiunto mediante l’obbedienza quella maturità, che le apre gli occhi per la legittimità e giustezza del suo intervento punitivo.
Chi non comprende l’unità di maturità e di obbedienza cristiano-ecclesiastica, è ben lungi dall’essere maturo. Ma i nessi li scorge soltanto chi prega con fede viva, e senza questo presupposto tutto si perde in chiacchiere superficiali e pericolose. Perciò nell’usare il concetto di maturità si dovrebbe essere molto parsimoniosi ed accurati. La maggioranza di coloro che lo hanno continuamente in bocca, non conosce evidentemente l’accento dato dalla Scrittura; parlano, avendo Dio dietro le spalle, di cose che (vox temporis vox Dei) pretendono siano richieste dalle circostanze dei tempi e dalla struttura dell’uomo moderno. Non si domandano che cosa Cristo esige. Pensano di essere all’altezza della loro missione, ritengono di conoscere il modo migliore di servire il regno di Dio e perciò non si peritano neppure di amputare per il loro letto di Procuste le parti di più vitale importanza della rivelazione, quando queste parti non si adattano alloro concetto moderno. Questo modo di procedere si chiama demitizzazione.

L’AMORE, FORMA DELLA VITA CRISTIANA

Il lettore diventa impaziente. Com’è possibile parlare così a lungo del cristiano, senza menzionare il comandamento principale dell’amore di Dio e del prossimo? Ne abbiamo parlato continuamente ed intensamente; ma in modo da assicurare anzitutto il carattere particolare che distingue questo amore dall’amore generale per gli uomini, conosciuto da sempre, dell’umanesimo. Si noti la strana costruzione della frase di Giovanni: «In questo sta l’amore: non noi amammo Dio, ma egli amò noi e inviò il Figlio suo a espiare per i nostri peccati» (1Gv. 4,10). L’interruzione e la ripresa sono cristianamente la cosa principale e da essa derivano tutte le conseguenze per il nostro stesso amore.
 La direzione di questo amore va da noi a Dio ed al prossimo; l’uno e l’altro intimamente congiunti in Gesù Cristo, Dio e uomo, Dio presso noi tutti e uomo per noi tutti. «Chi non ama il suo fratello che vede, non può amare quel Dio che non vede» (1Gv. 4,20). «Chi dice: lo conosco, ma non osserva i suoi comandamenti, è mentitore» (1Gv. 2,4). «Chi non ama, dimora nella morte; chi odia il suo fratello è omicida» (1Gv. 3,14-15). «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Il modo di questo nostro amore è determinato dal fatto che noi stessi lo abbiamo ricevuto da Dio e corrispondentemente lo dobbiamo trasmettere ai fratelli. «Ecco ora da che cosa abbiamo conosciuto l’amore: dal fatto che egli offrì per noi la sua vita. Anche noi quindi dobbiamo per i fratelli offrire le nostre vite» (1Gv. 3,16). «Carissimi se casi Iddio amò noi, noi pure dobbiamo amarci scambievolmente» (1Gv. 4,11). Questo movimento dell’amore, che viene da Dio a noi e va da noi ai fratelli, ha il suo centro nel nostro riconoscente amore a Cristo, che ci impone l’amore come suo comandamento: in tal modo esso è originariamente il suo e conseguentemente il nostro: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti… Chi non mi ama, non osserva le mie parole… Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato. Nessuno ha maggior amore di questo: che dia la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando» (Gv. 14,15-24; 15,12-14). 
La caratteristica di questo amore sta evidentemente nell’andare fino alla morte, secondo l’esempio di Cristo. La legge universale della simpatia che c’è nel cosmo consiste in un prudente e giusto equilibrio tra autoconservazione ed autodedizione; questa a sua volta è al servizio della conservazione della specie; casi biologicamente, quando i genitori si consumano per i figli; sociologicamente, quando i combattenti muoiono per la patria. Ma sarebbe pazzia se ognuno volesse dare la propria vita per ognuno. L’amore cristiano introduce questo elemento di infinità, perché l’autodedizione di Dio entra nell’amore. Dio si è donato totalmente nella morte per ciascun uomo, che è stato redento sulla croce dai suoi peccati e da un immenso distacco da Dio; quindi dietro ogni uomo sta questa realtà. Ognuno è, in sé, un diletto dell’eterno Dio, nonostante tutto ciò che egli può sembrare a me. Con la fede, dietro ognuno, io vedo l’amore del Figlio dell’uomo, e forse tanto più, quanto più questi ha dovuto soffrire per esso. I più poveri sono i suoi fratelli più prossimi; ed i più poveri non sono soltanto coloro che soffrono miseria esterna, bensì anche gli spiritualmente poveri, che non hanno finestre aperte per l’amore, siedono nella notte del loro egoismo, della loro superbia e della loro avarizia.
 Per il cristiano è eresia ritenere che il Figlio di Dio non sia morto per tutti i peccatori. Non c’è uno che sulla croce gli sia stato più lontano dell’altro; ognuno gli era vicinissimo, fino allo scambio, fino all’identità; ognuno era il suo prossimo. Questo elemento infinito, immenso entrò nell’amore sulla croce.
«Dare la propria vita per i fratelli» non significa che si possa morire fisicamente per ognuno. Ciò lo può fare soltanto il Signore. Ma significa che dobbiamo essere pronti per principio, in caso di necessità, a non rifiutare nulla a nessuno. «Se qualcuno ti requisisce per un miglio, fanne due con lui» (Mt. 5,41), o tre o quanti sono necessari. E Paolo: «Ora, è già per voi in ogni modo un segno di inferiorità che abbiate delle liti gli uni contro gli altri. Perché non soffrite piuttosto le ingiustizie? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare?» (1Cor. 6,7). E infine, quando si tratta della salvezza eterna, quando potrebbe essere in gioco la mia o la sua salvezza: «Mi augurerei d’essere io stesso maledetto, separato di Cristo, per i miei fratelli» (Rom. 9,3).
 È fonte di meraviglia e di vergogna il fatto che Cristo sviluppi la dottrina del prossimo con l’esempio di un ‘eretico’: il samaritano, il quale, noncurante delle barriere di ostilità esistenti tra giudei e samaritani, fa quel che il sacerdote ed il levita non hanno fatto. Può darsi che l’abbia fatto per un sentimento di compassione o per pura umanità, ma il Signore innalza questi sentimenti nella luce del suo stesso amore. Gli ascrive il suo atto come amore cristiano. E con ciò egli stesso, Figlio di Dio, si pone nelle file di coloro che amano semplicemente, in modo anonimo. Chi può sapere con esattezza dove, nell’ampio mondo, ha luogo una simile dedizione della propria vita? Dove uno dà al prossimo la preferenza sulla propria importanza? Rimane nascosto nel mistero di Dio.
 Ma per il cristiano questo prossimo, che sempre incontra, diventa lo specchio in cui vede risplendere Cristo. L’altro sembra senza volto, un pezzo di massa, una cellula, come me, nello stesso insieme informe. Ma all’improvviso, quando l’incontro diviene vero, esso diventa realmente l’altro, dietro il quale sta la libertà, la dignità, l’unicità del completamente diverso; da Cristo egli riceve un volto, acquista un peso massimo ed una importanza infiniti e costringe anche me ad uscire dall’anonimità: devo stargli di fronte, riconoscere i miei lineamenti, essere responsabile per me stesso e per lui. Il mondo indeciso dei sogni diviene realtà, forse resistenza: in ogni caso ci si urta contro la realtà, si acquista forma. Dietro il mio fratello sta l’impegno di Dio fino alla morte; egli infatti ha realmente per Dio un valore eterno; lo sguardo si perde nell’infinito. E in compenso, emergono anche, a guisa di abbozzo e tuttavia reali, tutte le sfaccettature della rivelazione; esse non sono più ‘proposizioni’ fredde, ma colori necessari a completare il quadro. Se Cristo non fosse Dio, il suo sacrificio non sarebbe eccellente ed il suo frutto non sarebbe qui presente. Se non fosse uomo, non potrebbe aver luogo la misteriosa rappresentanza, in ordine alla quale io lo considero fratello. Se Dio non fosse trino, Cristo non avrebbe potuto compiere la sua opera per amore dell’eterno Padre, Dio non sarebbe affatto in se stesso l’amore, oppure, per amare, avrebbe bisogno della creatura, ed allora non sarebbe più Dio. E se non ci fosse la grazia dell’obbedienza, questo incontro non potrebbe avvenire veramente nella realtà di Cristo, ed io non potrei nutrire una speranza eterna per questo fratello. E se Cristo non fosse nel sacramento, non saremmo incorporati in lui in questo modo indicibile per cui ci tocchiamo l’un l’altro come membri di un solo corpo e nella ‘memoria’ di lui. E se non ci fosse la confessione dei peccati, rimarremmo in ultimo murati in noi stessi e non potremmo, con un atto umanamente perspicace, diventare da figli perduti figli ritrovati. Ed allora c’è anche di nuovo la distanza tra noi, che non dobbiamo giudicare, e l’alto giudice divino sopra di noi, il cui giudizio nessuno di noi deve anticipare; ciò nonostante questa distanza è misteriosamente colmata da una figura che non può mai mancare: dalla donna che a questo bambino fu e rimane madre e non perde la sua autorità amorosa, intercedente; dalla donna che femminilmente ci nasconde tutti nel suo seno, per la quale noi rimaniamo sempre suoi figli, che essa ha generato nei dolori, e continua a generare finché non finiscano le doglie della Chiesa e la donna si rallegri e «dimentichi l’ambascia per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv. 16,21).
Nel corpo della dottrina cristiana della fede non c’è membro che nell’incontro con il prossimo non si muova anch’esso. Tutti questi membri dormono, inanimati e teorici, nelle copertine di un catechismo, tutti si dilatano e si allungano quando, nell’incontro, la teoria diviene prassi. Cristiano pratico è quello per il quale questa risurrezione alla verità passa nella realtà della vita. Così si può dire che il vero cristiano praticante è colui che ama Gesù e «osserva i suoi comandamenti». Praticare significa tradurre in pratica questi comandamenti, e sappiamo che tutti i comandamenti di Cristo hanno la loro sintesi in quello dell’amore. In base a quest’unico comandamento saremo giudicati un giorno: in base all’esercizio dell’amore pratico-attivo, realizzatore, o in base alla sua omissione. Da quest’unico comandamento si misura pure se abbiamo, o no, una conoscenza di Dio: «Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Non esiste affatto una fede teorica, un essere cristiano teorico. Il cristianesimo è una forma che non può esistere fuori della materia, così come la forma di una statua è reale soltanto nella materia. La materia è ciò in cui si manifesta e risplende l’amore, ciò per cui esso si dona, cioè il prossimo, che tuttavia può essere così vicino solo perché Dio in Cristo è presente in lui, e può essere così amato solo perché in lui l’amore eterno di Dio per me e per lui abbraccia, quale primo ed ultimo, tutto, anche il nostro incontro.
 A tutta prima sembra che questa definizione della pratica cristiana sia stata fatta senza tener conto del concetto corrente di pratica; si tratta ora di dimostrare che esso vi è incluso.

CHE SIGNIFICA ‘PRATICARE’?

Sia per la parola che per il senso significa ‘esercitare’, tradurre in atto una capacità professionale o altra. Un medico, ad esempio, pratica: applica la sua arte a favore degli ammalati. Così pratica il cristiano: fa circolare, a favore dei suoi simili, le grazie che gli sono state donate. Non è quindi del tutto esatto quando, per definire la pratica di un cristiano, osserviamo semplicemente se va alla chiesa ogni domenica e riceve i sacramenti a Pasqua. Da una parte ciò costituisce un minimo, per quanto riguarda i precetti della Chiesa; dall’altra non è neppure la cosa principale, perché questa è l’amore cristiano vissuto. Forse è piuttosto un sintomo: che egli fondamentalmente si attiene al suo essere cristiano. Ma ci si domanda ancora se sia un sintomo di sanità o di malattia. Sarebbe sintomo di malattia nel caso in cui uno considerasse il cristianesimo come un istituto di assicurazione per il cielo e pagasse i suoi premi minimali; sarebbe invece sintomo di sanità qualora egli fosse cosciente che il suo essere cristiano, per durare, ha bisogno di questo atto regolare di autodisciplina, che alla lunga costituisce un sacrificio non piccolo. Ad esempio sentire, una domenica dopo l’altra, delle prediche che urtano. In questa partecipazione al sacrificio c’è un rilevante valore di pratica religiosa; ciò può giustificare in certa misura l’accentuazione e considerazione quasi esclusive di questo atto da parte del clero, che ormai è abituato a contare le sue pecorelle da questo punto di vista.
Tuttavia il termine rimane molto equivoco, perché rivendica per un singolo aspetto – certamente non privo di importanza – il nome del tutto; o meglio: perché la totalità che, come in tutti gli altri particolari, è presente anche in questa parte, per il ‘praticante’ non giunge in essa ad essere sufficientemente un dato pratico.
La Chiesa è la luce del mondo, il sale della terra, il lievito nella farina. Essa quindi è relativa al mondo; così come il sole è fuoco concentrato, per poter far sentire i suoi effetti luminosi e calorifici fino ai confini del sistema solare. Con il solo lievito o il solo sale non si può fare nulla: entrambi rivelano la loro forza e completano la loro natura penetrando e scomparendo, disciogliendosi e svanendo nella carne o nella farina. La Chiesa è la concentrazione assolutamente indispensabile per la dilatazione. Infatti «se il sale diventa scipito, con che cosa gli si renderà sapore?». La concentrazione significa un ritorno, nell’ascolto e nell’azione, all’essenziale. ‘Praticare’ significa andare ogni domenica alle funzioni. Nella liturgia della parola della santa Messa ascoltiamo la parola (e se questa predicazione non fosse per noi esistenzialmente sufficiente, siamo obbligati a completarla mediante una lettura personale della Scrittura); naturalmente questo ascolto non è fine a se stesso, ma mira alla nostra azione: anzitutto alla nostra conversione personale, affinché possiamo indirizzare in modo convincente verso Dio gli altri che son fuori. L’eucaristia è ripresentazione di Cristo in mezzo alla comunità e fin nel centro di ogni cuore; essa salda i cuori in un corpo santo, perché nella missione nessuno è solo, ma ha sempre alle spalle la comunità; l’eucaristia conquista il posto centrale nei cuori, affinché «non io viva, ma Cristo viva in me». Proprio nella devozione e nel ringraziamento più personali, essa è rinuncia dell’io per colui che è più grande, per Cristo ed i suoi postulati: la Chiesa ed il mondo. Perciò la duplice celebrazione – parola e sacramento – termina necessariamente con la missione: Ite, missa (missio) est. È mandato colui che mediante la celebrazione è divenuto ‘maturo’: egli ha compreso la dottrina della croce ed il corpo in croce (le due cose sono una sola) e ne ha fatto la sua forma di vita nel mondo e per il mondo.
 Nel ‘praticare’ rientra in secondo luogo l’atto della confessione: una o più volte all’anno. È un atto sommamente personale e per nessun verso meccanico. Nella misura in cui lo compiamo con responsabilità – mediante la sincerità della confessione, mediante la genuinità del dolore e del proposito acquistiamo la certezza e facciamo addirittura l’esperienza dell’effetto profondo della grazia del perdono. Esempio: il figliuol prodigo. Esaminare e confessare tutta l’ingratitudine in cui ogni giorno vegetiamo spensieratamente, mentre uno espia con la morte e l’abbandono per la nostra dimenticanza di Dio.
Sospettare la distanza spaventosa che esiste tra il comandamento principale di Cristo – amare Dio con tutte le forze ed il prossimo come se stesso, o, più profondamente: il prossimo a se stesso nello Spirito di Cristo – ed il mio proprio comandamento principale. Mettere tutti gli altri comandamenti del Sinai e le leggi naturali sotto questo segno cristiano, al fine di trovare la giusta misura per valutare se stesso. E una volta trovata questa misura con un genuino esame di coscienza per la confessione, applicarle alla nostra vita quotidiana realizzando, ‘praticando’. Anche la confessione è concepita come luce e sale di tutta la vita: la luce non si pone sotto il moggio, la confessione non la si rinchiude in un confessionale impenetrabile all’aria ed al suono. Essa è un atto nella Chiesa, ed è molto significativo il fatto che nei primi tempi avvenisse pubblicamente dinanzi alla comunità. Essa deve riconciliare noi egoisti, che ci eravamo confinati ai margini dell’amore ecclesiale o addirittura fuori del suo campo, non soltanto con Dio, ma altresì con la «comunità dei santi». Essa deve ridarci la purezza di spirito che ci permette di rappresentare, com’è nostro dovere di cristiani, lo spirito di Cristo e di questa comunità dei santi nel mondo. Ben sapendo che l’assoluzione è pura grazia e mai merito, e che non dobbiamo metterci farisaicamente in mostra come ‘convertiti’ dinanzi agli inconvertiti, noi, mediante il tentativo della nostra vita di cristiani, possiamo offrire l’indicazione dell’unica fonte di ogni grazia e missione. 
’Praticare’ implica in terzo luogo inserire la vita nella cornice e nel ritmo del tempo ecclesiasticamente organizzato nell’ ‘anno liturgico’ Il ritorno ciclico del ricordo degli avvenimenti salvifici più importanti deve essere esercitazione nella vita cristiana. Il cristiano deve realizzare praticamente i tempi festivi così come per la Chiesa, quale santa sposa di Cristo, si attualizza continuamente l’ ‘oggi’ del Natale, della Passione, della Risurrezione e della missione dello Spirito. Siamo troppo abituati a questo ritmo per apprezzare ciò che di meraviglioso e di benefico c’è in esso; ma immaginiamo che manchino le feste cristiane; come diverrebbe scipito il tempo che si dilegua! Praticare il Natale significa conseguentemente trasporre nella nostra vita lo spirito della festa: Dio che, quantunque ricco, diviene povero per amor nostro, al fine di arricchir ci con la sua povertà (2Cor. 8,9); la festa così vergognosamente abusata quale giorno natalizio di Mammona, mascherata fino a renderla irriconoscibile, trasformata nel suo contrario, deve essere ricondotta dai cristiani al suo senso originario; similmente il rammollimento moderno non deve estendersi anche al periodo di penitenza che precede il giorno della morte di Gesù; Pasqua deve essere la festa della nostra risurrezione, non per un’allegra vita presente e per una evoluzione ottimistica del mondo, bensì per il Padre di Gesù Cristo, che per noi e con noi lo ha strappato «mediante la potenza della sua gloria» alla notte eterna e l’ha trasportato nella vita eterna. Perciò ]’Ascensione non è partenza del Signore, bensì un «essere trasferiti con lui nel regno dei cieli» (Ef. 2,6), ed il dono dello Spirito nella Pentecoste è il punto di partenza della missione apostolica in ‘tutto il mondo’, «nel sentimento della debolezza…, non con argomenti persuasivi della saggezza umana, bensì nell’efficacia dimostrativa dello spirito e della potenza divina» (1Cor. 2,3-4): per questo le lunghe settimane dopo Pentecoste ci lasciano simbolicamente tutto il tempo necessario.
Ed infine l’individuo ‘praticherà, non soltanto nelle vie sociali pre-tracciate dell’anno liturgico, ma anche nelle vie non tracciate e non note del suo destino personale, che gli si rivelerà consapevolmente come tale nei giorni di gioia, ma più efficacemente ancora nelle prove. Qui egli viene duramente invitato ad interpretare praticamente la sua esistenza in ordine a Dio. Egli urta contro i suoi limiti, sente la sua impotenza, è immensamente deluso di se stesso e della sua vita; una persona cara, morendo, lo ha lasciato, un’altra gli si è dimostrata infedele; nel posto rimasto vuoto spira una fredda corrente d’aria, ci si deve decidere: Dio o il nulla. Un lavoro ancora più efficace compiono le umiliazioni, che il Signore ha promesso ai suoi come grande grazia, e che, quando giungono, ce lo devono sempre richiamare alla memoria: «il servo non è da più del suo padrone. Il discepolo si contenti di essere come il maestro ed il servo di essere come il suo padrone» (Mt. 10,24). Esse sono un segno che il padrone e maestro non ha dimenticato il servo. Insuccessi, rovesci, retrocessioni, calunnie, disprezzi e infine, come sintesi della vita, una grande bancarotta: tutto ciò fu il pane quotidiano di Cristo, rimarrà il destino della Chiesa in questo mondo, e chi vuole appartenere alla Chiesa deve rassegnarsi a cose del genere, poiché nessuna evoluzione le potrà mai eliminare.

In tal modo il ‘praticare’ viene collocato al giusto poste nel contesto di tutta la vita cristiana. È, sì, un atto di concentrazione rivolto all’indietro «fate questo in memoria di me» -, ma sempre con direzione verso la dilatazione nel mondo. Dobbiamo trovare Dio nel segno della parola e del sacramento, ma ‘soltanto per cercarlo sempre più appassionatamente – ut inventus quaeratur immensus est – là dove ancora non è e dove dobbiamo portarlo; o meglio (poiché egli è già sempre dovunque), dove si trova già nascostamente e dove noi dobbiamo scoprilo.

IV – ESPROPRIAZIONE E COMPITO
PER IL MONDO

COME IL CRISTIANO SERVE AL MONDO? E COME NON GLI SERVE?

I risultati raggiunti riflettendo sul nucleo centrale cristiano ci permettono ora di prendere posizione anche positivamente nei confronti di ciò che precedentemente era stato criticato come la quadruplice tendenza. Essa ci appariva pericolosa in quanto distoglieva lo sguardo dal centro cristiano – nel presupposto che fosse sufficientemente noto – e si dava molto da fare alla periferia, spesso in un modo che dimostrava come si preferiva dimenticare il centro e sostituirlo con qualcosa di periferico.
Ma la parola di Dio ci blocca inesorabilmente e nel suo enunciato è così chiara da poter sempre opporsi alle torbide amalgame in cui la si mescola. È impossibile far dire alla Scrittura che il cristiano è primariamente a servizio dell’evoluzione del mondo e per ciò stesso a servizio di Cristo (cioè del Cristo nella sua venuta escatologica nel giorno omega). Si possono premere i testi quanto si vuole: non ne esce la più piccola goccia di evoluzione; così alla gente altro non rimane, a meno che non voglia accusare tutta la rivelazione di immaturità culturale,[11] che inserire la Scrittura come un elemento in una generale filosofia del cosmo. Dando a questa filosofia il nome di teologia (vedi sopra) e, per teologia, intendendo il lettore ingenuo una teologia cristiana, si verifica l’inganno: la teologia della Scrittura entra e scompare come ‘elemento’ in una filosofia del mondo (teologia naturale), per risorgere come estrema propaggine di questa filosofia e come un quod erat demonstrandum cristiano: e ciò necessariamente nella forma del Cristo cosmico-eucaristicoglorioso, ma con «uno scandalo della croce vanificato» (Col. 5,11). Ora tutto diviene naturalmente facile ed amabile; il cristiano, sinora così stupidamente recalcitrante, si adatta infine a collaborare, si applaude e si incoraggia il suo progressismo, lo si accoglie con onore nella cerchia di coloro che si danno seriamente pensiero del futuro del cosmo.
Proprio questa facilità dev’essere sospetta a chiunque ha riflettuto su ciò che Cristo prospetta ai suoi discepoli. E non meno la sintesi, che include in sé come elemento calcolabile la parola sovrana di Dio. Questa sintesi si compie necessariamente in modo che ci si serve della dottrina cristiana nella misura in cui la si può trasformare in un’ ‘etica positiva’, ma la si trascura nella misura in cui si oppone ad un simile uso.[12] Allora appunto l’uomo ha giudicato la parola di Dio ed ha completato con le proprie risorse quei punti indispensabili che essa non dice. Questo metodo rientra come un prodotto finale provvisorio nella storia fatale della gnosi cristiana, che trasforma continuamente la fede in scienza, la rivelazione in filosofia, la ricerca della verità in un possesso ed ha screditato più radicalmente di qualunque altra cosa il cristianesimo. Infatti l’ateismo moderno è in gran parte la reazione contro un simile sapere e troppo sapere cristiani, e le due cose assieme, intese cristianamente, sono già dimenticanza di Dio.[13] La gnosi cristiana corrompe sia la filosofia, sia la teologia; rende filosofia la rivelazione della Scrittura, portando in un sistema limitato la parola di Dio che giudica e salva; ma rende teologica la filosofia, paralizzando con ottimismi anticipati l’aperto rischio della storia del mondo e dell’umanità. Entrambi, il regno del mondo ed il regno di Dio, natura e grazia, conservano la loro dignità soltanto se conservano le loro leggi e la libertà d’azione che sono loro proprie: l’uomo non può realizzare la convergenza dei due campi (in un punto omega) finché Dio conserva la sua libertà di venire come un ladro nella notte e di conservare nella propria amministrazione la forza della croce.
Perciò al cristiano è vietata anche quella forma di sintesi che abbiamo chiamato ‘integralismo’ e che non è altro se non l’applicazione pratica della gnosi or ora descritta: cioè il ricorso (dimentico di Dio) ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra. L’intenzione può essere genuina, ma è spuria l’identità ingenuamente presupposta tra regno di Dio e influsso politico-culturale della Chiesa, che poi in pratica viene identificato con l’influsso di potere di un gruppo di mammalucchi cristiani, che aspirano a conquistare il mondo.[14] Ma non siamo più nel medioevo, è passato il tempo delle ingenue identificazioni tra cielo e terra; alla lunga tutte le forme di una moderna ‘framassoneria’ cristiana si renderanno sospette ed odiose sia presso i cristiani che i non cristiani. Chi fa tali cose non ha esatta idea né della impotenza della croce (che nondimeno egli dovrebbe predicare), né della onnipotenza di Dio (in aiuto della quale egli vorrebbe correre con potenza mondana), né delle leggi proprie della potenza mondana (che senza sospetto egli applica in modo non critico). Noi cristiani siamo in una situazione molto più indifesa di quanto ci possa far piacere. Siamo radicalmente esposti: come cristiani dinanzi al mondo e, per opera di Cristo, nel mondo. Preferiremmo farci della Chiesa uno scudo contro il mondo e della nostra missione mondana uno scudo contro la parola e la pretesa di Cristo. Ma Cristo sconfessa la spada mondana dell’integralista Pietro, prende le parti degli aggressori e guarisce l’orecchio di Malco. Ed ancora in quella stessa notte il mondo sconfessa gli approcci collaborazionistici del medesimo Pietro e lo rimette al suo posto: «Anche tu sei davvero di quelli, perché il tuo modo di parlare ti tradisce» (Mt. 26,73).
Da entrambe le parti viene rigettata l’ansiosa ricerca di protezione; il cristiano è mandato allo scoperto, dove «deve restare saldo» con l’unico «scudo della fede» e l’elmo della salvezza» e «la spada dello spirito, che è la parola di Dio, con ogni sorta di preghiera e di supplica» come armi di difesa e di offesa. Si aggiunge ancora una «cintura della verità di Dio attorno ai lombi», una «corazza della giustizia presso Dio» ed i sandali ai piedi «per essere pronti ad annunziare l’evangelo della pace»: questa è tutta l’armatura (panoplia) del cristiano, mediante la quale egli è «fortificato nel Signore e con la sua forza possente» ed è armato in modo pienamente sufficiente contro «i principati, contro le potestà, contro i signori di questo mondo tenebroso» (Ef. 6,10-18). Oppure come dice il Signore a Paolo schiaffeggiato dall’angelo di Satana: «Ti basta la mia grazia, poiché la mia potenza si mostra appieno nella debolezza» (2Cor. 12,9). Ma ciò significa che il cristiano nella sua condizione di esposto, e soltanto in essa, ha l’assicurazione da Dio di ogni protezione celeste, sia per la difesa che per l’attacco. Se dalla sua apparente mancanza di protezione egli fugge al coperto, la protezione lo abbandona. Condizione di esposto può in tutti i casi significare: «Infermità, oltraggi, necessità, persecuzioni, angustie sopportate per Cristo» (2Cor. 12, 10); tutto ciò è compreso ed è addirittura un segno di riconoscimento per la situazione in cui non c’è più da temere. Siamo sensibili agli ammonimenti del discorso missionario di Mt. 10:
«Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate, dunque, prudenti… e candidi… Guardatevi poi dagli uomini, perché vi denunzieranno ai sinedri e vi flagelleranno… Non vi preoccupate del come e di ciò che dovrete dire; poiché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire…, lo Spirito del Padre parla in voi… Sarete odiati da tutti a causa del mio nome… Il discepolo si contenti di essere come il maestro… Non temeteli, dunque…, quel che udite all’orecchio predicatelo sui tetti. E non temete coloro che uccidono il corpo… Non crediate che io sia venuto a mettere pace sulla terra,… sono venuto a mettere divisione: l’uomo contro suo padre, e la figlia contro sua madre… Chi non prende la sua croce e mi segue non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà, e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà».
 Soltanto nella lotta tra Dio ed il mondo c’è la pace, soltanto se il cristiano è privato della sua forza, l’onnipotenza di Dio lo salva. Oppure, come abbiamo riconosciuto precedentemente: le ricchezze di Dio sono soltanto per i veramente ed attualmente poveri.
 Ma una simile posizione intermedia si può sostenere? Si può vivere a lungo in essa? Non porta ad una scissione della coscienza, che dovrebbe unire in sé due personalità diverse? Non torna essa a danno sia dell’uno che dell’altro regno? E quindi il tentativo di fuga nell’uno o nell’altro campo non è l’unica cosa che si possa aspettare normalmente da colui che in tal modo è posto nella aporia (situazione senza via di uscita)?

NONOSTANTE TUTTO, UN UNICO IMPEGNO

Prima di dare una risposta decisiva, non vogliamo dimenticare che già l’uomo naturale, in quanto è spirito, trascende il mondo chiuso ed ha il suo posto ‘normale’ – come sempre ha ritenuto ogni religione e filosofia dei popoli – tra il relativo e l’assoluto, tra il mondo e Dio. Se l’umanità moderna dimentica questa verità del tutto elementare o si sforza di dimenticarla per amore di una ‘mondanità mondana’, ciò costituisce un regresso nel sapere umano, ed una testimonianza di povertà per il mondo attuale. Ci si può servire – in senso umanistico o cristiano – di formule imploranti: «Restate fedeli alla terra!»; un simile appello può riguardare soltanto colui che ha sempre già la libertà di elevarsi al di sopra della terra, di dominarla dall’alto come ‘re della creazione’. Inoltre lo sfruttamento brutale che l’epoca tecnica fa della terra e del mondo, è un modo molto problematico di restare fedeli alla terra. Siamo, in verità, soltanto ad una fase preliminare rispetto alla fedeltà effettiva.
 Ma veniamo ora al cristiano. In esso la tensione generale tra natura e spirito è evidentemente accresciuta. Egli è più radicalmente ‘sradicato’ dalla ‘natura, anzi dal ‘mondo’ in genere; in compenso viene anche mandato più radicalmente nel mondo in genere. Da una parte «nel mondo, non del mondo», dall’altra «andate in tutto il mondo». ‘In’ significa: realmente dentro, non solo vicino al mondo. La differenza è notevolmente più profonda.
In precedenza abbiamo cercato e trovato un punto d’unione che appariva imposs1bile tra l’atto singolare dell’uomo-Dio ed il nostro atto dopo di lui. Questo punto era il sì a Dio come disponibilità assoluta, come obbedienza amorosa. Non dovrebbe essere possibile trovare anche un punto corrispondente, in cui il nostro compito di uomini del mondo e di cristiani (nella Chiesa e con la Chiesa) possa risultare unitario? Ciò dovrebbe essere possibile, se Dio nella rivelazione prende sul serio la sua creatura, e quindi in tutte le elevazioni, le estensioni, le esigenze apparentemente eccessive, non la spezza, ma la completa. Ad entrambe le cose si deve rispondere, in funzione di un unico e medesimo atteggiamento della coscienza morale, (diversamente non si potrebbe affatto rispondere), e questo ancora una volta altro non può essere se non quello che già abbiamo trovato: il sì della disponibilità.
Anzitutto questa unità non è neppur difficile da vedere. Il cristiano dice sì a Dio e ne riceve la sua missione per gli uomini. E l’uomo nel mondo dice sì al suo compito oggettivo per il mondo – nella famiglia, nello stato, nella società, – e nella misura in cui è anch’egli un servo, è un membro usabile. In entrambi i campi la possibilità di impiego ha un presupposto, e cioè che là il cristiano, qui l’uomo, abbia posto un atto di libera e responsabile identificazione con il suo compito. Un atto di volontà di servire, che implica una rinuncia all’egoismo. Nel cristiano questo atto dovrebbe essere radicale e decisivo; altrimenti non sarebbe un vero credente. Anche nell’uomo che è al servizio del mondo può essere radicale: allora egli vuole concepire la sua vita come un servizio indiviso al tutto, ed il piccolo apporto che effettivamente egli può dare al tutto deve esprimere questa dedizione totale. Ma in moltissimi la dedizione resta parziale: essi, ad esempio, lavorano soltanto per guadagnare e, negli intermezzi del lavoro, per condurre una egoistica vita gaudente. Oppure nel rapporto con la donna, dentro o fuori del matrimonio, cercano prevalentemente il loro piacere, sia che lo confessino o no, sia che normalmente lo trovino, o no. Non è necessario ricordare espressamente che il disinteresse e del credente e dell’uomo morale non è una perdita di sé, una alienazione di sé, o addirittura una fuga da sé (il che veramente esiste anche e lo smaschera e biasima Max Scheler nei suoi ‘Sentimenti di simpatia’), anzi, entrambe le cose hanno come presupposto anche il silenzio ed il segreto della concentrazione e, almeno nel credente, la preghiera. Ma il ritmo tra raccoglimento e dispersione ha la sua direzione nella dedizione: colui che ama deve essere una fonte profonda, per poter attingere da sé. 
E poiché la fonte più profonda, più inesauribile ed anche quella a cui più si attinge, è Cristo ed il cristiano credente ha per modello questo prototipo, non esiste alcun motivo di mettere in contrasto la propria dedizione di cristiani con quella di membri dell’umanità. Il disinteresse, l’essere a disposizione implica in entrambi i campi che l’uomo abbia qualcosa da dare, che sia valente e competente nel campo mondano, e conseguentemente apporti per il campo della sua missione l’interesse risoluto che è di aiuto a questa valentia, che trovi piacere nella sua professione, sia essa importante come quella del ricercatore intellettuale, od insignificante come nel lavoro meccanico in fabbrica, che forse potrebbe anche essere assunto e sbrigato più velocemente da una macchina. In quanto e finché è in servizio, esso esige l’esecuzione accurata che può essere richiesta da un operaio coscienzioso. Il servo della parabola «è fedele nel poco» e come ricompensa «riceve potere su molto». La maggioranza degli uomini non può compiere il proprio servizio vitale se non come minuscola parte in una gigantesca macchina prefabbricata, in cui è facile sostituire i perni che si rompono con altri che girano altrettanto velocemente. E tuttavia ogni servo è un uomo unico nel suo genere, e l’amore del suo cuore è insostituibile. Egli porta il suo amore personale nella grande massa anonima, e questo suo darsi, quando diviene cosciente di sé, è quasi una morte. Una morte sacrificale. Non si può trovare a ridire al povero di conservare inoltre il suo posticino per la gioia e la ricreazione, neppure di nutrire la speranza e quasi la certezza che tutto il mondo si muova verso un futuro significativo, e la piccola onda che egli è stata, sommersa a lungo nella corrente senza nome, giunga a riposo in un qualche mare sterminato. Anzi, l’uomo mondano non può sapere qualcosa d’altro, a meno che non si obblighi a qualche ingenuo abbozzo per il futuro, e questo poco lo guidi ad interpretare ed a versare la sua vita come offerta sacrificale.
Non è qui il caso di domandarci se effettivamente egli compie questa dedizione; ha importanza decisiva il fatto che essa può essere prestata dal cristiano nel campo del mondo, e che è già posta nella direzione oggettiva della vita, che ha fine, ma che in quanto è spirito travalica la fine. Che quindi cavi fuori il massimo dalla sua esistenza l’uomo che, per un compito finito, che gli appare meritevole, la impegna nel modo più radicale possibile. Senza dedizione all’opera non c’è impegno totale, e viceversa. Non si può quindi fare a meno dell’azione nella dedizione estrema. Non ha ora importanza decisiva la parte che in questo impegno hanno l’ambizione, la forte volontà di imporsi. C’è una buona ambizione di svolgere il proprio compito nel modo più perfetto possibile: un’ambizione che si oggettiva per così dire, nelle cose; e non è soltanto dovere della moralità cristiana, ma già di quella naturale, chiarirne i motivi in modo che una volontà di azione soggettivamente progettata diventi realizzazione oggettiva.
Si vuole ora obiettare che il cristiano non è capace di questo impegno completo per le cose mondane, perché ha altrove testa e cuore («dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore»): nella vita eterna futura? La vita terrena non sarebbe per lui che un luogo in cui è di passaggio, in cui non vale la spesa attardarsi, guardarsi attorno e mettere su casa o addirittura rifinirla. Perciò i cristiani sarebbero sempre distratti, mai veramente presenti, quando si tratta di costruire il futuro terreno. Per contro, da un punto di vista puramente empirico, si deve anzitutto chiedere chi mai abbia costruito la cultura occidentale, se non quasi esclusivamente i cristiani. Se non avessero avuto un senso dei valori mondani, come avrebbero potuto fabbricare simili recipienti simbolici al sopratemporale, all’eterno? Ma anche in linea di principio, in base al vangelo, il servo amministratore non è forse chiamato a non seppellire il suo talento, ma a farlo rendere? Cioè, a ricavare dai pochi spiccioli dei suoi anni terreni la massima rendita? Non sa il cristiano, ancor più di altri, quanto vale quest’unica vita terrena, questo pezzo di terra, che nasconde nelle sue viscere un tesoro eterno, per trovare il quale merita che si scavi, per il quale merita che si impegni tutto (pur di comperarlo)? È vero che sta scritto: «Non vi ammassate tesori sulla terra, dove tignole e ruggine distruggono, e dove i ladri sfondano e rubano» (Mt. 6,19). Ma l’uomo, che vuole operare e donare, non intende ammassare per sé; il suo tesoro, e perciò anche il suo cuore, sono nel suo compito. La dottrina cristiana approfondisce quasi all’infinito la possibilità di dare la propria vita in un compito, perché non soltanto la prestazione esterna, ma anche i sentimenti, la volontà di dedizione, soprattutto la sofferenza, quando non si può più compiere nulla di attivo, vengono inseriti nell’opera, nella fecondità.
 E quel che chiamiamo speranza cristiana non è sospensione, ma infinito approfondimento ed intensificazione dell’oscura speranza dell’individuo che la sua esistenza non sia stata inutile e priva di senso per il tutto. L’uomo vuole aver collaborato alla costruzione del regno dell’umanità; il cristiano vuole aver dato un qualche contributo al regno di Dio nel regno del mondo e dell’uomo. Egli ha la speranza, che ‘non inganna’, che anche quanto nel tempo deve essere registrato come inutile, non sia immeritevole di una registrazione nei libri della vita e della fecondità. Perciò, in un’epoca che sa vedere e incrementare il progresso ormai quasi solo in senso tecnico-meccanico, egli diventa il custode di una idea più profonda del progresso, non cedendo alla illusione che qualcosa si muova solo quando il successo può essere registrato in cifre. Ma si renderà anche amaro conto delle sue trascuratezze, di non aver mosso nulla quando, proprio come cristiano, avrebbe urgentemente dovuto muovere; e che altri al posto suo hanno assunto il suo compito – spesso contro di lui -, per venirne a capo in senso tecnico-meccanico, materialistico.
 Il cristiano avrebbe sempre dovuto dar l’esempio di autoespropriazione; infatti con questo atto inizia il vangelo. Ora altri han preso in gestione questo atto e dirigono gli avvenimenti in modo ch’esso avvenga per coercizione. Il cristiano dovrebbe inserirsi in questo processo in modo da salvare, in quanto è ancora possibile, la libertà nel suo svolgimento. Allora potrebbe apparire visibile anche per tutti che esiste soltanto un unico vero impegno: quello per i fratelli, per il mondo. È l’impegno di Dio che dà il suo Figlio per il mondo; l’impegno di Cristo che può dare e (con i redenti) riprendere la sua vita; l’impegno dei cristiani nel sì al Signore; l’impegno dell’uomo per il quale il fratello ha più valore di se stesso.

CHIESA UMILE

Ormai si può scorgere la vera portata della tendenza moderna. Il movimento della Chiesa al di là dei suoi confini verso i fratelli cristiani, giudei, non cristiani, potrebbe essere il movimento della autoespropriazione di Dio e di Cristo. Lo sarebbe se i cristiani non aspirassero a facilitazioni per sé, o ad approcci diplomatici come facilitazioni per gli altri, ma alla cosa più difficile: l’esposizione di sé indifesa, disinteressata. Questo è il compito fine a se stesso, mentre tutti gli altri compiti (ad esempio per la disciplina gerarchica della Chiesa) sono relativi in ordine ad esso: buoni, in quanto promuovono il compito principale, non buoni in quanto lo oscurano. Una Chiesa disinteressata cerca soltanto l’onore del suo Signore e non il proprio, perché anche il Signore non ha mai cercato il proprio onore, bensì quello del Padre. Essa cerca nella Bibbia le parole che le insegnano l’obbedienza più completa. Nella sua liturgia non cerca la soddisfazione della comunità, bensì l’adorazione del suo Signore e l’investitura della sua forza per il proprio compito. Nei rapporti con i cristiani separati cerca di osservare il comandamento pressante del suo maestro: unione come amore. Cerca nel mondo profano che le sta attorno la sua missione: essere lievito che agisce scomparendo.
 Nelle sue aperture moderne essa non cerca di giustificare se stessa, anzi proprio in questi movimenti si sentirà umiliata nel più profondo, perché tutte queste cose elementari le sono venute in mente incredibilmente tardi, perché è stata così sorda agli incitamenti ed ai suggerimenti non soltanto dello Spirito santo, ma anche di tutto un mondo di protestanti, di umanisti e di comunisti. E soprattutto si sente piccola nel suo primo dialogo, ancora balbettante, con i giudei. Come deve scegliere almeno le parole, dopo tutto ciò che è accaduto da quasi duemila anni? Forse può nutrire la speranza che i dissidi tra i cristiani possano essere accomodati in gran parte con una umiltà sufficientemente genuina. Ma come sta di fronte ai fratelli giudei? Forse può fare un’ampia confessione di colpa, partendo dalla inosservanza di molti enunciati della Scrittura: che Dio riserva a sé il giudizio, che la Chiesa è innestata sul santo tronco di Israele ed i cristiani devono star molto attenti, perché se Dio non ha avuto riguardo per i nobili rami naturali, la stessa cosa potrebbe capitare ancor più facilmente per i rami selvatici semplicemente innestati; infine che tutto Israele sarà salvato, perché le promesse di Dio sono senza pentimenti. Il raffronto Israele-Chiesa è fondato sulla stessa Scrittura e conseguentemente non è lasciato all’arbitrio della Chiesa. La sua stessa esistenza è. in un senso misterioso, dialettica con Israele, il dissidio proviene dal centro del fatto salvifico e la sua eliminazione spetta al giudice del mondo. Ma ciò per la Chiesa significa che essa rimane, in un modo che le è imperscrutabile, relativa ad Israele, come Israele è relativo ad essa. Essa quindi, da sola, non è semplicemente il tutto, non è semplicemente il regno di Dio. «Non nutrire quindi sentimenti di alterigia, trepida piuttosto», le grida l’apostolo (Rom. 11,20).
In nessun punto la Chiesa è tanto indirizzata all’umiltà come qui. Viene spontaneo il termine vergogna, e non ci si deve sforzare di liberarsene. Ciò non farebbe che peggiorare le cose. Nel confessare, si è sempre vergognosi. E peccati così evidenti, commessi dinanzi a tutta la storia del mondo, non si possono neppure cancellare dalla memoria della storia con una confessione. Perciò sopportiamo; non per virtù, ma perché così stanno senz’altro le cose. E per il singolo cristiano non c’è la speranza, come abbiamo già detto all’inizio, di scindere le proprie responsabilità, perché si tratta della nostra Chiesa. Ai protestanti, che volentieri scagliano pietre e nondimeno vogliono chiamarsi cristiani, bisognerebbe qui ricordare che la storia della cristianità prima della separazione è storia loro altrettanto che nostra, di noi cattolici; perché la Chiesa non incomincia ad esistere soltanto nel sec. XVI. 
La Chiesa umiliata dovrebbe trovare più facilmente la via verso gli umiliati ed offesi; verso coloro che vengono trascurati, perché non mette conto, o ben poco, fare spese sproporzionate per miglioramenti meschini. L’inutilità, come fu il segno della esistenza terrena di Gesù Cristo, così dovrebbe anche essere il segno della Chiesa terrena. Quanto più la civiltà mondana si organizza ed intraprende le sue crociate contro la povertà, le epidemie, la fame, l’ignoranza, tanto più i cristiani dovrebbero partecipare a queste imprese e promuoverle come uomini tra uomini. Gli stati e le unioni di stati acquisteranno un vantaggio sempre più chiaro sulla Chiesa per quanto riguarda la disponibilità di mezzi; anche per questo la Chiesa viene rimandata agli spazi intermedi, che sempre rimangono, tra imprese ben organizzate, redditizie; occupando tra gli ultimi l’ ‘ultimo posto’ del vangelo (Lc. 14,10) e degli apostoli (1Cor. 4,9), essa si pone nel posto che le è assegnato, riservato e che le spetta. Ciò non significa che, per mezzo dei suoi membri in tutte le organizzazioni non cristiane, essa non cerchi di diffondere il più possibile, al di là dello spirito umanitario, il suo spirito particolare di dedizione umile, disinteressata, fin nei più alti uffici e responsabilità della umanità, che vengono amministrati imparzialmente anche e proprio quando una suprema dimenticanza di sé rende possibile tale imparzialità, anche in lotte di pot6nza di particolari gruppi, frazioni, nazioni, di cui c’è da sperare che il crescente orizzonte planetario promuoverà l’imparzialità dei loro punti di vista e argomenti.
Se in questi settori delle cose mondane si deve tener conto di una evidente evoluzione verso l’universale, per l’idea della Chiesa non c’è possibilità di evoluzione. La sua idea ed il fulcro della sua realtà le sono già stati dati pienamente con l’avvio, ed essa può sempre ritornare alla sua origine per costatare, in base ad essa, il suo colpevole declinare per mettere in luce altre cose che finora non è stata abbastanza diligente nello sviluppare. Ciò che in senso mondano apparirebbe progresso e sviluppo, in essa diverrebbe subito sospetto di essere fuga dalla essenza che leè propria. Grandi aumenti numerici, onori, ricchezze, posizioni di potenza culturale e politica provocherebbero necessariamente in essa disagio ed il timore di essere stata dimenticata da Dio. La sua posizione rimane paradossale, perché solo come piccolo gregge, essa può esercitare una grande azione, solo come lievito concentrato può ‘far lievitare tutta la farina’, e naturalmente soggiace di continuo alla tentazione di prendere questa ‘grande azione’ in ‘tutta la farina’ come pietra di paragone della genuinità del stia operare. È tentazione, in quanto l’azione della Chiesa in ultima analisi non può affatto essere misurata. Ciò che è più essenziale nelle sue forze: la preghiera, la sofferenza, l’obbedienza di fede, la disponibilità (forse non sfruttata), l’umiltà, sfuggono ad ogni statistica. Su ciò contano giustamente quelle comunità secolari (instituta saecularia), che rinunciano ad un apostolato diretto (statisticamente controllabile) a favore di una semplice presenza nel mondo scristianizzato (présence au monde). Altre comunità, che con tutti i mezzi aspirano a posizioni di forza mondana-culturale, con l’idea di aiutare in tal modo la Chiesa, semplicemente la danneggiano, e non senza ragione rendono odiosi se stessi e la Chiesa.
Se qui si parla continuamente di ‘Chiesa’, ogni cristiano deve sapere che con essa è inteso egli stesso. San passati i tempi in cui i laici potevano scaricare la loro responsabilità sul clero. Il clero diviene sempre più chiaramente l’organizzazione ausiliaria, che deve educare e conservare il popolo di Dio (laos Theou) nel giusto spirito cristiano. A tale scopo ha ricevuto le sue grazie particolari di ministero, di magistero e di governo. A nessun laico oggi è più possibile, accusando, iniziare una frase con la Chiesa dovrebbe…», senza domandare nello stesso tempo a se stesso se fa tutto ciò che dovrebbe. Ma, per esprimersi così, deve in ogni caso anche accertarsi se, così parlando, parla nello Spirito santo della Chiesa quale sposa di Cristo e comunità dei santi, o non piuttosto per un soggettivo, non caritatevole, e per ciò assolutamente non ecclesiale, puro spirito di critica. Non è possibile che il cristiano voglia esigere e stare a guardare come la Chiesa viene espropriata ed umiliata, senza veder compiersi questo salutare processo nella sua esistenza.
 Se, concludendo, ci si volesse chiedere quale gerarchia nelle forme di vita si debba stabilire affinché l’essenza della Chiesa appaia in piena luce per tutti, si dovrebbe porre al vertice lo ‘stato’ di coloro che nel popolo di Dio hanno ricevuto in dono ed hanno scelto l’obbedienza di fede, la povertà e la feconda ‘sterilità’ mariana come loro forma caratteristica, poi il popolo di Dio nella sua totalità, ed infine i suoi servi ufficiali (come servi servorum). Ma poiché quest’ordine, oggettivamente giusto, tra uomini peccatori corre continuamente il rischio di essere frainteso come un ordine di onore, (così si usa di solito incominciare con il clero e porre in ultimo la forma piena di realizzazione), lo si può benissimo invertire, a maggior ragione in quanto a coloro che stanno all’ultimo posto spetta realmente il primo posto.

LA PREGHIERA, LA SPERANZA E LA PROFANITÀ

Il cristiano deve imparare sempre più a fondo la espropriazione. Per lui, che deve la sua libertà a Cristo, essa diventa preghiera. La preghiera, finché l’uomo è peccatore e quindi egoista, è appesantita dal rapporto con l’io. Egli si dà pensiero e fa sforzi per la sua salvezza, per ‘un Dio clemente’. Ha tutte le ragioni di implorare il perdono per i propri peccati, per la sua debolezza. Inoltre pregherà anche per amici, conoscenti, persone che gli sono affidate. Ed in margine, se gli viene in mente, per la cristianità ed il mondo. Ma a mano a mano che impara a conoscere Cristo, la sua preghiera diviene disinteressata. Egli prega per il perdono dei peccati; in ciò la sua propria colpa è presente, è pesante e nondimeno come scomparsa: infatti ora la cosa più terribile è che esiste il peccato, chiunque l’abbia commesso. Prega per l’avvento del regno, per la santificazione del nome, per la volontà che deve essere fatta in terra, per il pane che Dio deve elargire a noi tutti ed in primo luogo agli affamati, per l’allontanamento della tentazione e del male, soprattutto in coloro che sono sopraffatti, senza quasi più speranza, dalle tenebre.
 Quanto meglio l’orante impara a pregare, tanto più il suo cuore diviene disinteressato. Egli deve fare una singolare scoperta, che inizialmente lo sorprende e quasi gli riesce insopportabile: ciò che egli considera come sua privata cameretta silenziosa, dove riteneva di comunicare con Dio nella più completa solitudine, ha pareti soltanto verso il mondo, ma non verso il cielo. Ognuno nella Chiesa gloriosa può guardarvi dentro. Nell’Apocalisse tutto avviene in cielo e sulla terra come in una grande sala pubblica. Le preghiere dei santi, visibili ad ognuno, sono prese dagli angeli e salgono come incenso dinanzi al trono di Dio. Non c’è nulla di privato. Quanto più un amore è intimo, personale, tanto più è pubblico nel regno di Dio, tanto più ognuno vi ha diritto. Non soltanto il pavimento celeste è di cristallo trasparente, ma anche tutte le pareti. Nella casetta di Nazareth, ognuno ha accesso al cuore della Vergine, anche persone dalle scarpe sporche e dagli abiti cenciosi, che non mandano affatto odore di gigli.
 Qui i cristiani hanno ancora da imparare: i più sono borghesemente smorfiosi, quando si tratta della loro devozione privata. Essi devono riflettere seriamente se qui non siano in coda alla evoluzione della coscienza. La loro esistenza, il loro cuore, la loro preghiera è un pane a cui tutti devono partecipare. Perché i cristiani non dovrebbero poter aver parte al mistero eucaristico?[15] Se essi sono membra di Cristo, il capo ne può disporre. Essi sono in servizio, e la misura dipende dal capo che se ne serve, essi devono sapersi e sentirsi totalmente impegnati, occupati, consumati. E devono regolare in tal senso i moti del loro cuore, la loro preghiera. Devono imparare a recitare il Padre Nostro onestamente e conforme al senso, cioè nel senso di Cristo, e non restringerlo ad ogni frase in modo contrario al senso, ponendo se stessi al centro. Nel Padre Nostro non compare affatto l’io, ma soltanto il noi. In questo noi l’io è in buone mani, ma appunto per questo è annullato.
 Non si comprende come una volta ci fosse nella teologia l’opinione che ognuno potesse avere la speranza soltanto per sé, quella speranza cristiana cioè che ‘non inganna’. Si dovrebbe dire piuttosto il contrario. Ognuno deve avere la speranza per tutti i suoi fratelli, ma per conto proprio difficilmente egli può rinunziare ad un elemento di timore. Certamente, l’amore perfetto spazza via il timore: ma chi può dire di avere l’amore perfetto? Tuttavia dietro il fratello che incontra, egli scorge il Figlio dell’uomo, che per lui è morto e per lui interpone l’intercessione presso il Padre (1Gv. 2,1). Egli lo scorge dietro ognuno, dietro il mondo intero. Di ciò si nutre la sua speranza. Non gli viene più in mente di sperare per sé – ad esempio di giungere il più presto possibile dopo la morte alla visione di Dio -, mentre gli altri possono restare tranquilli. La vera speranza cristiana è escatologica e comunitaria. Fa parte dei ‘gemiti della creazione’, che tutta vuole aver parte alla redenzione. In questa speranza è superata l’opposizione tra vita presente e vita futura. Secondo l’opinione di taluni Padri della Chiesa anche i santi in cielo sperano nella piena e definitiva redenzione del mondo. E infatti lo si vede nelle preghiere dell’Apocalisse. San promessi un nuovo cielo ed una nuova terra. Ci sarà un nuovo cielo quando la terra sarà giunta in cielo. E ciò sarà allora anche la nuova terra, in cui la volontà di Dio si compie in terra come in cielo. Così la speranza dei cristiani non corre via dalla storia, ma lungo la storia corre verso la fine.
Con ciò anche lo slogan del ‘mondo mondano’ e della profanità moderna è trasformato in una vera frase cristiana. Pro-fano significa: fuori dinanzi al santuario (fanum). Il ‘pro’ significa per noi che non siamo ancora dentro, ma significa pure che siamo sempre dinanzi e che ci avviciniamo ad esso. Così in ogni incontro con un uomo; esso ha luogo dinanzi al santuario, ma non avrebbe affatto luogo se il cristiano attraverso la profanità non guardasse al santo, ed in questo guardare attraverso non camminasse anche verso di esso. A mano a mano che cammina scompare la differenza tra profano e sacro. Ma sempre soltanto camminando. Gli amari discorsi dei trascendentalisti sulla profanità totale del mondo negano il passo della speranza, al pari dei discorsi ebbri dei teilhardiani sulla sacralità totale del cosmo. 
Il piccolo passo della speranza è illuminato per colui che nell’obbedienza di fede è espropriato. Egli osa il passo senza domandare se è in esilio od in patria. Se si sente in esilio, sa che il suo passo si avvicina alla patria e che la patria non è altro se non l’esilio che ha trovato la patria.


[1] Hans Jürgen Schultz, Konversion zur Welt (Conversione al mondo), Furche Verlag 1964.

[2] Ad. es. Hans Eckehard Bahr, Poiesis. Theologische Untersuchung der Kunst (Poiesis. Studio teologico dell’arte), 1961.

[3] Das Engagement der Intellektuellen gegenüber dem Staat (L’impegno degli intellettuali verso lo Stato), Merkur 1964, 407.

[4] Cf. H. U. von Balthasar, Cordula ovverosia il caso serio, Queriniana, Brescia 1968.

[5] Walter Dirks, Bittere Frucht (Frutto amaro), in Das schmutzige Geschaft. Die Politik und die Verantwortung der Christen. (Lo sporco affare. La politica e la responsabilità dei cristiani), Walter – Verlag 1964, 261.

[6] «Quando la verità è enunciata da più cose – in modo originario o derivato -, il pieno concetto di vero deve essere enunciato da ciò in cui si trova realizzato in modo originario». (S. Tommaso, De Veritate 1,2).

[7] Devo la formulazione di questo titolo al prof. P. D. Barthélemy (o.p.), il quale ha riflettuto in modo così penetrante sulla connessione tra povertà e vangelo.

[8] Nel suo libro Krise und Erneuerung der Frauenorden (Crisi e rinnovamento degli ordini femminili).

[9] Questa trasformazione è molto ben descritta da Henri de Lubac, in Credo Ecclesiam; in Festschrift für Hugo Rahner (‘Sentire Ecclesiam’) 1961, 13-16. Cf. pure Henri de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Queriniana, Brescia 1968.

[10] Le cose migliori in proposito si trovano in Willibrord Hillmann, Perfectio evangelica. Der klösterliche Gehorsam in biblisch-theologischer Sicht. (Perfectio evangelica. L’obbedienza monastica sotto l’aspetto biblico-teologico), in Wissenschaft und Weisheit 25 (1962), 163-168.

[11] Un teologo non si vergognò di affermare che rientra nell’umiliazione di Cristo l’essersi fatto uomo così presto, in un’epoca evolutivamente così immatura. Quale Cristo ridicolamente savio avremmo dovuto aspettarci già oggi, un paio di giri più in alto nella spirale evolutiva dell’universo in espansione? Non è cosa da pensare!

[12] Cf, il mio articolo: ‘Die Spiritualität Teilhards de Chardin’. Bemerkungen zur deutschen Ausgabe von ‘Le Milieu Divin’ (‘La spiritualità di Teilhard de Chardin’. Note per l’edizione tedesca di ‘Le Milieu Divin’), in Wort und Wahrheit, 18 (1963), 339-350.

[13] Cf. il mio articolo: Die Gottvergessenheit und die Christen (La dimenticanza di Dio ed i cristiani), in Hochland, 57 (1964), 1-11.

[14] Cf. il mio articolo: ‘Integralismus’ (Integralismo), in Wort und Wahrheit, 18 (1963), 737-744.

[15] «Poiché Gesù come tutto in tutti è puro, tutta la sua carne è un cibo e tutto il suo sangue è una bevanda. Infatti ognuna delle sue parole è vera. Perciò quindi la sua carne è un vero cibo ed il suo sangue una vera bevanda. In secondo luogo sono un cibo puro Pietro e Paolo e tutti gli apostoli, in terzo luogo i loro discepoli. E così ognuno, a seconda dell’entità del suo impegno o della purezza della sua mente, può diventare un cibo puro per il suo prossimo. Ogni uomo ha in sé un determinato cibo. Se esso è buono ed egli vi attinge e dai buoni tesori del suo cuore trae fuori cose buone, offre al suo prossimo un cibo puro». (Origene, Omelia 7 sul Levitico).

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