9 Febbraio 2011

Teologia della morte di Dio. teologia radicale

Filed under: LEZIONI DI RELIGIONE,Religione — giacomo.campanile @ 12:37

William Hamilton e la morte
di Dio
È incredibile che un professore di teologia come William
Hamilton (1924-2012), dicesse negli anni Sessanta che
la teologia era morta, soprattutto in un paese materialista
come gli Stati Uniti, l’erede più radicale della riforma
luterana. Bisogna proprio dire che gli anni Sessanta e
Settanta sono stati tra i più significativi dal dopoguerra
ad oggi.

Nel testo che andremo a esaminare, La teologia radicale e
la morte di Dio (ed. Feltrinelli, Milano 1981), scritto con
Thomas Altizer, tre suoi articoli sono molto eloquenti in
proposito, anche se il suo testo più importante fu La nuova
essenza del cristianesimo (ed. Queriniana, Brescia 1969, ma
si veda anche a cura di R. Gibellini, Antologia del
Novecento teologico, ed. Queriniana, Brescia 2011).

Per questo docente del seminario di Colgate-Rochester (Usa)
non era morta solo la teologia (dogmatica), ma anche
la Chiesa (istituzionale), la Bibbia (come strumento di
lettura popolare), il cristianesimo in generale (che andava
ogni volta riattualizzato per renderlo credibile) e persino
il concetto di “Dio” (che all’uomo moderno non dice
più nulla): tutti morti sotto il peso di un irreversibile e
imponente progresso tecnico-scientifico e consumistico.

Al teologo non resta che utilizzare il linguaggio laicizzato
del mondo contemporaneo per riuscire a farsi capire.
Difficile trovare, nello stesso periodo, una radicalità del
genere in Europa occidentale, benché lui stesso dica che
i teologi della morte di Dio avevano tratto ispirazione da alcune opere di Hegel,
Feuerbach (di cui apprezzavano la riduzione della teologia in antropologia),
Nietzsche,Dostoevskij, ecc.

In particolare Hamilton sostiene che la
prima opera di teologia secolare, in area britannica, fu pubblicata nel
1956 da Ronald G. Smith, The New Man, ma ritiene che il movimento americano
della teologia della morte di Dio abbia preso le mosse dall’opera del
vescovo anglicano John A. T. Robinson, Honest to God
(Lealtà verso Dio), del 1963, con cui veniva rifiutato il teismo oggettivato.

In Europa occidentale, restando nell’ambito della teologia, si era arrivati ad accettare la demitologizzazione dell’esegeta Bultmann, oppure si tendeva
ad associare il cristianesimo col socialismo. Se qualcuno
fosse arrivato ai livelli di autoconsapevolezza dei teologi
americani, avrebbe fatto presto a uscire dalla Chiesa e a
impegnarsi in tutt’altra direzione.

Infatti quel che non si capisce nell’atteggiamento di
Hamilton è l’idea di voler tenere “due maschere”:
una “moderatamente devota, zelante e seria, ed è quella che
si mette quando insegna e durante il suo lavoro
ecclesiastico. L’altra è moderatamente mondana, e la mette
per i contatti coi suoi amici laici e nella vita comune.

Qualche volta, deliberatamente, scambia le maschere e
indossa la maschera mondana durante un sermone o una
conferenza o nei discorsi coi parrocchiani. Ciò diventa
causa di innocuo divertimento…” (p. 107).
Ci pare molto difficile che un soggetto del genere avrebbe
potuto insegnare in un istituto religioso di un
qualunque paese europeo.

Le autorità ecclesiastiche di qualsivoglia Confessione, preoccupate per la fede dei
propri adepti, non avrebbero visto in tale dicotomia esistenziale alcun “innocuo divertimento”. Dunque, già negli anni Sessanta Hamilton rifletteva una
crisi di valori religiosi molto forte negli Stati Uniti.

Tuttavia, egli, invece di combatterla assumendo una
posizione contro il sistema borghese o cristiano-borghese,
responsabile di quella crisi, rifiutando cioè, pur
nell’accettazione di una concezione laicistica della vita,
lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura,
preferiva dire che se doveva avere un modello da seguire,
avrebbe scelto Dietrich Bonhoeffer, che l’Europa
occidentale – secondo lui – aveva abbandonato come “guida
teologica” (p. 110).
Lottare contro il sistema per lui voleva dire assumere una
posizione da sconfitto o, se si preferisce, da “martire”:
“il suo fragile, bisogno d’amore ha qualche cosa in comune
con l’amore della Croce” (ib.). Indubbiamente molto
kierkegaardiano in questa scelta di vita.
Davvero quindi la teologia della morte di Dio non aveva
fatto altro che portare alle conseguenze più logiche
le riflessioni dei grandi filosofi atei dell’Europa
occidentale?

Noi diciamo che tale consequenzialità è
possibile rinvenirla solo nelle opere di Marx ed Engels, i
quali avevano saputo unire l’ateismo col socialismo. Sotto
quest’aspetto neppure la riduzione dell’idealismo hegeliano
al materialismo naturalistico, compiuta da Feuerbach,
poteva essere considerata sufficiente.

La filosofia borghese ha eliminato la teologia cristiana, ma
una rivoluzione socialista, come p. es. quella dell’Ottobre
russo, aveva avuto la pretesa di superare la stessa
filosofia borghese.

Viceversa, i teologi radicali, rifiutando il nesso
strategico di ateismo e socialismo, finivano con fare della
sofferenza causata dall’antagonismo sociale ed economico un
male invincibile e, in fondo, del tutto incomprensibile.

La loro è stata la classica dimostrazione che non
basta dirsi atei per riuscire ad affrontare meglio le
contraddizioni del presente.
Il sistema va politicamente rovesciato. Senonché questo non
è mai stato un obiettivo di Hamilton, che vedeva nel
Cristo soltanto un “servo sofferente”, totalmente privo di
alcuna strategia eversiva: un Cristo che soccombe alle
figure simboliche di Oreste o Prospero, i quali non hanno
un rapporto travagliato col proprio padre (come Edipo e
Amleto), ma anzi vivono come se non esistesse alcun padre,
e non si lasciano determinare da forze
imponderabili, ma anzi si affidano totalmente alla loro
volontà, che non è certo una volontà democratica.
Nota
1 Oltre ad Hamilton e Altizer vanno annoverati Gabriel
Vahanian e Paul van Buren, ma anche il teologo battista
Harvey
Cox, che difendeva la teologia della liberazione,
simpatizz

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