24 Settembre 2015

Religione e musica. Lezione 2015

Filed under: LEZIONI DI RELIGIONE 2015-16,Religione — giacomo.campanile @ 10:00

È raro imbattersi in cerimonie e riti religiosi in cui la musica non svolga una funzione determinante. Si possono individuare tre livelli di interazione tra musica e rituale, con un grado crescente di collaborazione tra i due fenomeni.

A un primo stadio, la musica costituisce un mero complemento della liturgia, accompagna e scandisce la cerimonia, ed è un tratto largamente caratteristico dei riti cristiani e in particolare di quello cattolico. A un secondo livello, la musica può diventare chiave di accesso alla dimensione trascendente e cioè è caratteristico di numerose esperienze religiose, dal sufismo all’induismo, dall’Islam al buddhismo.

Musica e rituale giungono infine a un punto di quasi totale identificazione nelle pratiche di trance, possessione e sciamanesimo, in cui l’invocazione e l’evocazione della divinità seguono precise formule musicali e coreutiche e s’impone la figura del sacerdote-musicista.

Nella cultura occidentale, in cui prevalgono i primi due livelli, l’intervento della musica nel rituale è connesso al rapporto privilegiato tra suono e parola. Nel mondo greco l’unità di poesia, musica e danza – che emerge con particolare evidenza nella struttura drammaturgica della tragedia – ha origine nelle pratiche di culto e si sviluppa per amplificare l’eloquenza del racconto mitico (secondo un processo che, sottratto alla sfera religiosa, è peraltro caratteristico anche della “liturgia” dell’opera in musica).

Nella liturgia cristiana e in particolare in quella cattolica, il legame tra parola sacra e musica è un dato fondamentale: prima il canto e in seguito gli strumenti entrano nel cerimoniale rispondendo alla necessità di amplificare (anche sul piano prettamente acustico) e far giungere la parola di Dio ai fedeli in ambienti sempre più grandi e affollati, ma in primo luogo la musica valorizza e accresce l’efficacia comunicativa e l’impatto emotivo del testo sacro.

Il rapporto parola-musica in Occidente si sviluppa in maniera biunivoca: la musica porta a emergere suggestioni e significati nascosti nel testo religioso, mentre il desiderio di far risaltare la parola sacra spinge la musica a un crescente grado di complessità. È infatti proprio all’interno delle pratiche cultuali che si sviluppano le prime forme di polifonia e l’esigenza conseguente di fermare per iscritto forme sonore sempre più complesse (v. Monodia e polifonia), determinante per la nascita della notazione musicale (v. Oralità e scrittura).

L’unità di intenti che caratterizzava le prime fasi dellapolifonia liturgica era tuttavia destinata a durare poco: se l’utilizzo di strutture ritmiche (v. Ritmo) e soluzioni armoniche (v. Armonia) sempre più sofisticate metteva al servizio del testo sacro una tavolozza espressiva sempre più ampia, la chiarezza e l’intelligibilità della parola risultavano sempre più spesso compromesse dalla complessità dei mezzi musicali impiegati dai compositori. Il dissidio giunge a un punto di rottura con la Riforma protestante e poi con il Concilio di Trento; sia nella nuova chiesa luterana che nel cattolicesimo post-tridentino si cercarono di mettere al bando gli “eccessi” decorativi e artificiosi della polifonia, privilegiando forme musicali più aderenti al testo sacro.

Ciò sortì effetti soltanto in parte e la conseguenza più duratura sulla produzione musicale fu la divaricazione sempre più marcata tra uno stile sacro severo e impersonale e uno stile profano più libero da convenzioni e aderente alla sensibilità del compositore. Come già in precedenza, non mancarono tuttavia prestiti e imitazioni tra musica sacra e profana, con Messe ispirate da temi popolari e motivi a carattere religioso fatti propri dalla musica profana.

Le relazioni tra musica e religione mutarono radicalmente a partire dalla seconda metà del XVII secolo. In Occidente infatti – a differenza che in altre culture, dove come abbiamo accennato esperienza musicale e spirituale presentano punti di contatto maggiori – aveva sin lì prevalso l’idea che la musica e le altre arti fossero un mero complemento della liturgia, significativo certo ma non essenziale alla pratica del culto.

L’estetica del Romanticismo operò un decisivo ribaltamento, secolarizzando la religione e sacralizzando la musica; intellettuali come Wackenroder (1773-1798) e Schleiermacher (1768-1834) disegnano i confini di una religione dell’arte che ha nella musica, più astratta tra le arti e per questo più spirituale, il suo faro. Ciò non significa che nell’Ottocento non si scriva più musica religiosa, che sia destinata all’uso liturgico oppure solamente basata sui testi sacri (è sufficiente qui solo far cenno alla Missa Solemnis di Beethoven); un afflato spirituale meno confessionale tuttavia anima anche opere che nulla hanno a che vedere con tale contesto e che trovano posto in una nuova cornice rituale, quella del concerto. A partire dalle osservazioni di Caroline Humphrey e James Laidlaw sulle azioni archetipiche che caratterizzano le forme rituali, non pare infatti azzardato interpretare il concerto come un rito che attinge consapevolmente alla liturgia a carattere religioso: l’artista ha la funzione di celebrante, il palcoscenico diventa il suo altare, il pubblico assume i tratti dell’assemblea e non a caso alterna silenzi ad applausi o fischi, secondo una cadenza cerimoniale.

Nel Novecento, con la figura di Arnold Schönberg (1874-1951), tale funzione messianica appare estendersi dall’interprete al compositore; animato da vocazione profetica, alimentata anche dalla componente ebraico-cabbalistica della sua formazione culturale, Schönberg con l’introduzione della dodecafonia (v. Tecniche compositive) intendeva contrapporre alla tirannia della bellezza la forza di una superiore verità.

Il concetto di musica religiosa si afferma perciò come qualcosa di più ampio e trasversale rispetto alla musica per uso liturgico, che nei secoli precedenti ne aveva costituito il nucleo principale; in compositori come Olivier Messiaen (1908-1992) o György Ligeti (1923-2006) la musica sacra non intende più descrivere o esplicitare i contenuti del testo sacro, ma utilizzare rappresentazioni simboliche per delineare orizzonti spirituali e spazi di meditazione.

La tensione spirituale ha alimentato la vocazione sperimentale della musica del XX secolo spesso al di fuori dai contesti rituali tradizionali, orientando in particolare alcune tendenze di elaborazione della dimensione temporale dei fenomeni sonori, superando il modello lineare sino ad allora prevalente, fondato sullo sviluppo e la variazione del materiale musicale di partenza (come i temi all’interno di una forma-sonata), per saggiare la possibilità di un tempo verticale, non direzionato ed “eterno” (v. Tempo). La traduzione pratica di tale aspirazione ideale ha prodotto tuttavia esiti diseguali quando non addirittura opposti in autori diversi, si pensi al misticismo a-temporale di alcune opere di Karlheinz Stockhausen (1928-2007), al cristianesimo sofferto di Bernd Alois Zimmermann (1918-1970) – che nutriva i suoi lavori dodecafonici di suggestioni sonore molto eterogenee per restituire l’idea di un contrasto superficiale dominato da un ordine superiore – o alle composizioni dell’estone Arvo Pärt (n. 1935), in cui l’eternità del divino viene ricreata con uno svuotamento del linguaggio musicale, ridotto a un’essenziale polifonia, punto di partenza della corrente del cosiddetto minimalismo sacro.

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