La Basilica paleocristiana di S.Sabina fu fondata da Pietro d’Illiria nel 425 d.C. durante il pontificato di Celestino I ed ultimata nel 432 sotto Sisto III, sul luogo precedentemente occupato dal “titulus Sabinae“, utilizzando le 24 colonne bianche di marmo ancirano appartenenti al “Tempio di Giunone Regina” che sorgeva nelle vicinanze. Fu restaurata da papa Leone III e poi da papa Eugenio II, che la abbellì con uno splendido ciborio d’argento (scomparso durante il Sacco di Roma nel 1527) e con la “schola cantorum“, ovvero il recinto ricavato nella navata centrale per accogliere i coristi durante le funzioni religiose: questi lavori furono soltanto l’inizio di una serie di rimaneggiamenti che finirono per stravolgere l’intera costruzione. A causa della posizione privilegiata che le permetteva di dominare la zona sottostante ed una parte del corso del Tevere, nel X secolo la basilica venne trasformata in un fortilizio per ordine di Alberico II. In seguito divenne residenza fortificata di alcune nobili famiglie, i Crescenzi prima ed i Savelli dopo: proprio un membro di quest’ultima famiglia, Cencio, divenuto papa con il nome di Onorio III, nel 1219 concesse la chiesa e parte del palazzo a S.Domenico di Guzman, fondatore dell’Ordine dei Predicatori (meglio conosciuti come “Domenicani”), che qui visse e operò, tanto che la sua cella, trasformata in cappella, è tuttora visitabile. Quando nel 1222 i religiosi lasciarono alle Domenicane il convento di S.Sisto per insediarsi nel complesso di S.Sabina, questo era stato già trasformato ed adattato alle esigenze monastiche: a quest’epoca risale la costruzione del chiostro e del campanile. Questa chiesa, definita “la perla dell’Aventino“, fu restaurata nel 1587 da Domenico Fontana per incarico di Sisto V: in questa occasione furono radicalmente trasformati gli aspetti medioevali della chiesa, con la demolizione della “schola cantorum” e del ciborio, la costruzione di un nuovo altare maggiore con un grande baldacchino, la muratura di quasi tutte le finestre, l’asportazione dei marmi dell’abside e del soffitto a lacunari. Nel 1643 fu ulteriormente restaurata da Francesco Borromini e nel 1938 da Antonio Muñoz, su commissione dell’Ordine Domenicano, in occasione del quale la chiesa fu riportata all’antico aspetto medioevale, eliminando le sovrastrutture barocche. Nel 1874 il Comune di Roma utilizzò l’edificio conventuale come lazzaretto, in occasione di un’epidemia di colera che colpì la città. Vari scavi furono compiuti sotto la chiesa negli anni 1855-1857 e 1936-1939, nel corso dei quali apparvero resti delle Mura Serviane, con la chiara sovrapposizione di due fasi: quella arcaica, in cappellaccio, e quella dell’inizio del IV secolo, in tufo di Grotta Oscura. Vari edifici furono costruiti a ridosso delle mura: i più antichi, con muri in opera incerta e pavimenti in mosaico con inserzione di pezzi di marmo, furono identificati come abitazioni private del II secolo a.C. Più tardi alcuni edifici in reticolato furono costruiti al di fuori delle Mura, nelle quali vennero allora aperti quattro passaggi per permettere la comunicazione fra l’interno e l’esterno. Nel II secolo d.C. alcuni ambienti vennero restaurati ed utilizzati da una comunità isiaca, come appare dai soggetti delle pitture conservate e dai graffiti. Rifacimenti in mattoni nel III secolo d.C. trasformarono parte di questi edifici in un impianto termale, ornato da affreschi. Altri saggi sotto il quadriportico della chiesa rivelarono la presenza di una “domus” del III-IV secolo, nella quale si vuole identificare la residenza di Sabina, e quella di una strada antica, che correva parallela al “vicus Armilustri“, da identificare, a causa del suo percorso sulla cresta più elevata della collina, con il “vicus Altus“. Assai interessanti gli scavi effettuati all’interno della basilica, dove sono apparse abitazioni con magnifici pavimenti marmorei dell’inizio dell’età imperiale: in particolare un piccolo tempio in antis, con due colonne di peperino fra le ante, risalente al III secolo a.C., che fu messo fuori uso da un muro in opera reticolata, risalente alla fine della Repubblica o agli inizi dell’età imperiale, che ne chiuse gli intercolumni. Si tratta di uno dei tanti santuari della zona, probabilmente quello “di Libertas“: notevole il fatto che il tempio venne poi sostituito da una ricca “domus” nel I secolo d.C. Il duecentesco portico (nella foto in alto sotto il titolo) con arcate su colonne (quelle originali, di marmo nero, sono oggi conservate al Museo Chiaramonti in Vaticano) che si affaccia sulla piazza Pietro d’Illiria, sovrastato dalle finestre della navata destra, costituisce un ingresso laterale e quasi sempre chiuso. Per entrare nella chiesa è necessario attraversare il portico a pilastri in laterizio e giungere all’atrio, racchiuso da otto colonne di età romana, quattro di marmo bianco e quattro di granito, dove vi è conservato materiale di spoglio della chiesa: avanzi di transenne originali delle finestre, lapidi e frammenti provenienti dalle sepolture del quadriportico, due fronti di sarcofagi romani riutilizzate, sulla facciata originariamente non lavorata, come lastre tombali cristiane. Una presenta da un lato la scena del matrimonio pagano, la “dextrarum iunctio“, e dall’altra ricorda la sepoltura di Ildebrando da Chiusi; la seconda lastra presenta su un lato la porta degli inferi socchiusa e sull’altro il ricordo della sepoltura di Sisto Fabri. In fondo all’atrio si erge la statua di S.Rosa da Lima (1668).

1 Arancio di S.Domenico

Sulla sinistra, attraverso una piccola apertura nel muro, protetta da un vetro, si può ammirare una pianta di arancio (nella foto 1) che, secondo la tradizione domenicana, fu qui piantata nel 1220 da S.Domenico di Guzmán. Si narra che il Santo avesse portato con sé un pollone della pianta dalla Spagna, sua terra di origine, e che questo frutto sia stato il primo ad essere trapiantato in Italia. L’arancio, messo in risalto da un muretto circolare con la scritta “LIGNUM HABET SPEM“, ossia “il legno mantiene la speranza”, è considerato miracoloso in quanto a distanza di secoli continua a riprodursi e fruttificare mediante nuovi alberi nati direttamente su quello originale. L’atrio presenta due dei tre antichi ingressi alla chiesa, mentre il terzo venne chiuso nel XIII secolo per consentire la costruzione del campanile.

2 Portale duecentesco

Un portale ligneo, inquadrato da una magnifica cornice marmorea, permette di accedere all’interno della chiesa, ma quello degno di menzione è il portale laterale in legno di cipresso del V secolo (nella foto 2, oggi in parte coperto da lastre protettive), contemporaneo quindi alla costruzione della chiesa, unico monumento di tal genere rimasto a Roma: gli stipiti sono ricavati da cornici di età romana ed i 18 pannelli a rilievo superstiti dei 28 originali raffigurano “Scene dell’Antico e Nuovo Testamento“. Interessante notare che il primo pannello a sinistra raffigura Cristo in croce tra i due ladroni e, visto che risale al V secolo, rappresenta la più antica raffigurazione plastica della Crocifissione. Nel 1836 i pannelli furono restaurati e fu proprio in questa occasione che nel pannello raffigurante il “Passaggio del Mar Rosso” il restauratore modificò il volto del Faraone in procinto di annegare raffigurandovi quello di Napoleone Bonaparte, segno inequivocabile di un odio profondo per il generale francese, deceduto già 15 anni prima. L’interno della chiesa è a tre navate divise da 24 colonne corinzie scanalate sui cui capitelli poggiano archi: su essi corre un fregio di età romana ottenuto con marmi policromi. La luce oggi filtra dall’alto delle 29 vetrate del IX secolo (riaperte soltanto all’inizio del Novecento); le pareti un tempo erano rivestite da tarsie romane di cui oggi restano scarse tracce, mentre sulle pareti laterali sta un ornato floreale ad affresco del V secolo. Importante è la grande iscrizione metrica con l’affermazione del primato papale, Vescovo di Roma, che ricorda sia papa Celestino I sia S.Pietro d’Illiria: l’autore dei versi è ritenuto S.Paolino da Norcia. Ai lati sono situate due grandi figure femminili allegoriche, una rappresentante la Chiesa di Gerusalemme con l’Antico Testamento in mano e l’altra la Chiesa Romana con il Nuovo Testamento. Il tutto realizzato in uno splendido mosaico policromo che veniva completato, in origine, lungo le pareti della navata, dalle figure degli apostoli Pietro e Paolo e dagli Evangelisti, mentre sull’arco trionfale vi erano le figure della Gerusalemme terrena e celeste, del Cristo con gli Apostoli ed i quattro evangelisti: quest’ultima serie iconografica è stata ricostruita nei tempi moderni con affreschi.

3 Antica colonna romana

La navata destra presenta la Cappella di S.Giacinto con il “Trionfo ed episodi della vita del santo” di Federico Zuccari e conserva anche un’antica colonna romana che fuoriesce dal pavimento (nella foto 3), a testimonianza della fase più antica della chiesa.

4 Firma di Rufeno

La navata sinistra presenta invece la Cappella di S.Caterina con la “Madonna del Rosario” del Sassoferrato, mentre è da segnalare, sulla base della terza colonna, la firma di Rufeno (nella foto 4), molto probabilmente colui che eseguì materialmente il lavoro. Sull’altare è posta una tela con la “Madonna e S.Giacinto“, opera cinquecentesca di Lavinia Fontana.

5 Schola Cantorum

Nel presbiterio è stata ricostruita, usando i frammenti originali, l’antica “schola cantorum” (nella foto 5) dai plutei ornati da racemi e dalla Croce. Il catino absidale presenta un affresco raffigurante “Cristo tra gli apostoli” di Taddeo Zuccari.

6 Pietra tombale a mosaico

Al centro della navata centrale è posta una pietra tombale (nella foto 6) di uno dei primi generali dei domenicani, Muñoz de Zamora (1380), unica a Roma per le decorazioni a mosaico.

7 Pietra di basalto nera

Alla destra del bellissimo portale ligneo è situata una colonnina che indica il luogo dove, secondo la tradizione, S.Domenico passava le notti in preghiera: sopra vi è posta una pietra di basalto nero (nella foto 7), quasi certamente un peso di un’antica bilancia romana. La leggenda vuole che il diavolo, mal tollerando l’intensa pietà con cui S.Domenico pregava sul sepolcro contenente le ossa di alcuni martiri, gli scagliò contro questa pietra, che non colpì il santo ma infranse la lapide che copriva il sepolcro: le spaccature, sia sulla lapide che sulla pietra, sono ancora ben visibili. La verità probabilmente è che fu l’architetto Domenico Fontana, durante il restauro del 1587, a ridurre la lapide in frammenti, poi recuperati e ricomposti.

8 Base del campanile nella navata sinistra

Innalzato direttamente all’interno della navata sinistra, sacrificando un ingresso alla chiesa, è situato il campanile (nella foto 8), di struttura quadrata ed alto 25 metri: composto di materiale laterizio di recupero e lavorato a finta cortina, risale al XIII secolo. Originariamente era costituito da quattro piani, sormontato dalla cella campanaria a doppio ordine di trifore; nel XVII secolo furono amputati tre lati della cella campanaria, lasciando solo un lato a sorreggere il peso delle tre campane, risalenti al 1596, al 1843 e al 1946. Non si può certo dimenticare il chiostro, uno tra i più belli di Roma: molto ampio ed a pianta rettangolare, presenta le gallerie divise in campate da pilastrini quadrati in mattoni. Le campate, sette nei lati lunghi e sei nei lati corti, sono formate da quattro archetti sorretti da colonnine di marmo, in alternanza singole e binate, che poggiano sullo stilobate: quelle singole hanno capitelli a stampella, le altre a nenufari. La sopraelevazione cinquecentesca compromise la staticità delle gallerie, nonostante l’impiego delle volte che sostituirono l’antico tetto; fu quindi necessario incorporare alcune colonnine dentro i mattoni, per sostenerle, evitando che cedessero sotto il peso del piano superiore.