24 Maggio 2012

Gregorio Magno e il monachesimo

Filed under: LEZIONI DI RELIGIONE — giacomo.campanile @ 05:53

Gregorio Magno e il monachesimo

Il pontefice Gregorio Magno diede particolare risalto al monachesimo benedettino, a cominciare dal fondatore, cui dedicò il secondo libro dei Dialogi, descrivendolo, secondo le norme dell’antica agiografia, in toni elevati ed avvolgendolo in una spiccata atmosfera di sacralità

Con il canto gregoriano alle radici della cultura europea. San Gregorio Magno papa e san Benedetto abate: le sorgenti della Chiesa medievale. Due giganti di semplicità e rigore vissuti fra V e VI secolo

Discendente da un’antica famiglia senatoria e nato nel 540 circa, Gregorio ebbe un’istruzione sicuramente di alto livello; la sua ascesa politica lo vide infine, poco più che trentenne, praefectus urbis di Roma (carica paragonabile a quella di sindaco). Poi, però, donò le sue ricchezze alla Chiesa e abbandonò la vita laicale dedicandosi ad opere di carità e fondando monasteri. Nel 578 divenne per nomina del papa (Benedetto I) uno dei sette diaconi di Roma e fu perfino inviato come nunzio presso l’imperatore a Costantinopoli. Cessò il proprio ministero di diacono nel 586 circa e si aggregò quindi alla comunità monastica di S. Andrea ad Clivum Scauri sul Celio, che egli stesso aveva fondata nella propria abitazione e che molto probabilmente seguiva una regola non strettamente benedettina, bensì basata sulle cosiddette regulae mixtae, desunte attingendo da diverse norme e pratiche. Questi pochi anni trascorsi nel monastero furono da lui sempre ricordati come i più felici della sua vita.
Venne eletto papa per acclamazione nel 590, in un momento difficile specialmente nell’Italia attraversata dalle ondate successive della dominazione dei goti, dei bizantini e infine dei longobardi; fra l’altro, proprio in quel periodo a Roma le epidemie avevano decimato la popolazione. Il suo pontificato realizzò un progetto di espansione della latinità e della fede che segnò tutta la storia seguente. Gregorio non era né teologo né filosofo nel vero senso della parola, ma riunì in sé peculiarità tali da meritargli l’appellativo (con cui passò alla storia) di “Magno” e che lo fecero proclamare “dottore della Chiesa”: fu monaco, apostolo, maestro di disciplina, profondo conoscitore del diritto romano, dotato di singolari facoltà organizzative.
Nel suo progetto di riassetto della Chiesa ebbe un ruolo ragguardevole la spinta evangelizzatrice. Intorno al 596 inviò il monaco Agostino con una quarantina di compagni a predicare il vangelo nell’isola britannica, che dopo le invasioni degli angli e dei sassoni era pressoché completamente pagana; a questi pionieri è attribuita la fondazione del monastero di Canterbury, significativamente dedicato ai santi Pietro e Paolo. Ma l’evangelizzazione fu rivolta anche all’interno della Chiesa, specie nei riguardi degli illiterati che, non conoscendo il latino, rimanevano in uno stato di istruzio-ne non elevato e non potevano fruire degli scritti contenuti nei codici: Gregorio non solo promosse nelle chiese l’utilizzo delle immagini (picturae) che permettevano a tutti di “leggere con gli occhi sulle pareti” i testi biblici, ma suggerì anche l’uso della lingua rustica ossia corrente (evidentemente non il latino) nelle omelie ai fedeli e nei sermoni. Ancora, per avvicinare e coinvolgere il popolus cristiano durante la pestilenza del 590, organizzò una processione cittadina che coinvolse l’intera Roma in un ordinato corteo scenografico senza eguali, capace di unire laici e religiosi in una rappresentazione mimata e cantata dell’unità dei credenti.
La sua attenzione si rivolse anche al progresso delle strutture ecclesiastiche, in senso tanto giuridico quanto morale. Perciò riformò il clero arginando soprattutto il commercio venale di beni sacri, ma seppe altresì amministrare il patrimonio della Chiesa in maniera oculata. Fu capace di fronteggiare i longobardi e di stipulare accordi diplomatici. Scrisse diverse opere, fra cui un Liber pastoralis curae (divenuto famosissimo) che dava consigli ai vescovi nella loro missione pastorale. Nei documenti pontifici inserì accanto al proprio nome la formula “servus servorum Dei” (“servo dei servi di Dio”), che rimase elemento costitutivo del titolo papale (lo è ancora oggi).
Fra le tante rappresentazioni medievali, una in particolare mostra la colomba dello Spirito Santo che, posata sulla spalla di Gregorio, gli sussurra all’orecchio la salmodia liturgica, mentre egli prova a cantarla e la detta a due scribi: questa iconografia è legata alla memoria delle riforme liturgiche operate dal pontefice, che riordinò e codificò il repertorio antico introducendo altresì modifiche nel canone della Messa, e a cui pertanto è stata attribuita anche la paternità della monodia sacra cristiana ossia del canto “gregoriano”, riconosciuto come “autentica” salmodia della Chiesa.
Morì nel 604. Circa dieci anni prima, intorno al 593-594, aveva scritto i Dialogi, che costituiscono la fonte principale sulla vita e le opere del monaco santo più famoso del medioevo, Benedetto da Norcia, che all’epoca era morto da una quarantina
Secondo la tradizione, alimentata principalmente dai ricordi gregoriani, Benedetto nacque verso l’anno 480 a Norcia, vicino a Spoleto, da una famiglia benestante. Dopo aver studiato a Roma, di-sgustato dal disordine morale che opprimeva la città si ritirò dapprima ad Affile, tra Fiuggi e Tivoli, poi (forse nel 500) in una grotta (il Sacro Speco) a Subiaco, ove trascorse un periodo di vita eremitica. Poiché accorrevano numerosi discepoli, fondò dodici monasteri nella valle dell’Aniene, indi nel 529 si recò a Cassino con alcuni confratelli e, dopo un’intensa opera di evangelizzazione, edifi-cò il nuovo cenobio di Montecassino. Proprio in questo luogo Totila, rex dei goti, giunse nel 546 per incontrare Benedetto, riconoscendogli santità e virtù. E sempre nei pressi di Montecassino una volta all’anno il santo incontrava sua sorella, santa Scolastica, religiosa anch’essa.
In quegli anni imperversavano le vicende della cosiddetta guerra greco-gotica (535-553), intrapresa dai bizantini per il recupero dell’Italia occupata dagli ostrogoti. Benedetto morì probabilmente nel 547, prima che i conflitti avessero termine.
Con la sua opera, questo santo ci aiuta a riscoprire i tratti del cristianesimo antico anche come vitale elemento dell’identità europea; la sintesi da lui operata tra spiritualità orientale e occidentale ci ricorda quanto sia indispensabile anche oggi il contatto diretto con queste radici, come ha significativamente sottolineato il Concilio Vaticano II (Decreto sull’ecumenismo, 15). Il 24 dicembre 1964 Paolo VI lo ha nominato patrono d’Europa.
Il monachesimo medievale.

Per tutto il medioevo il monachesimo rappresentò una componente fondamentale per diversi aspetti. L’intera vita sociale fu segnata dalla presenza dei monaci. Fra le diverse esperienze, quella fondata da Benedetto ebbe come culla la penisola italiana e si espanse successivamente in tutta Europa.
La diffusione del monachesimo in occidente era cominciata già dalla fine del IV secolo, privile-giando la vita in comune (cenobio, da koinós ossia “comune” e bíos ovvero “vita”) piuttosto che le forme eremitiche. Le cosiddette regole rimasero a lungo eterogenee e flessibili, unificando pratiche di origine orientale trasmesse per iscritto e consuetudini locali; quella più famosa era l’anonima Regula Magistri (o Regola del Maestro).
La Regola di Benedetto, redatta a Montecassino fra il 530 e il 550, operò una sintesi della pratica e della letteratura monastica precedenti; essa diede un ruolo fondamentale alla comunità, costituente una vera e propria famiglia retta dall’autorità di un abate (ab in aramaico indica il padre) e all’interno della quale doveva vigere una totale condivisione, sul modello della comunità apostolica (“tutto sia comune a tutti”, si legge negli Atti degli Apostoli).
Accanto alla preghiera, il monachesimo benedettino valorizzava il lavoro intellettuale (imprescindibile era la pratica della lectio divina, lettura sapienziale dei testi biblici) e manuale. Il famoso motto “ora et labora” non è certo sufficiente a rendere conto dell’esperienza benedettina così complessa e feconda; peraltro esso non si trova nella Regola e, come tale, è stato formulato soltanto nel secolo XVIII in ambiente bavarese. Parametro fondamentale della vita del monaco era, piuttosto, la stabilitas, concetto articolato che solo in parte si può identificare con la saldezza morale: semplificando, si può dire che ciascun monaco doveva avere dentro di sé il proprio “luogo”, paragonabile a una città ben salda, che prefigura la civitas celeste, il cui valore assoluto è l’amore di Cristo (“nulla anteporre all’amore di Cristo”, Regola, 4, 21); allo stesso modo, i monasteri erano concepiti come anticamera del paradiso, una sorta di isola angelica nel mondo.
I monasteri divennero centri importanti sia per l’economia rurale, organizzando lo sfruttamento delle risorse agricole, sia per la trasmissione culturale, in particolare grazie all’attività degli scriptoria in cui i monaci amanuensi trascrivevano i libri in forma di codice a carte rilegate (ma il libro dell’antichità era stato in forma di rotolo ossia di volumen, da cui il termine “volume”).
Soppiantando in gran parte le regole monastiche precedenti, le comunità benedettine maschili e femminili si diffusero rapidamente in Italia e poi in Europa, divenendo anche strumento utilissimo per l’evangelizzazione dei pagani.
Il pontefice Gregorio Magno diede particolare risalto al monachesimo benedettino, a cominciare dal fondatore, cui dedicò il secondo libro dei Dialogi, descrivendolo, secondo le norme dell’antica agiografia, in toni elevati ed avvolgendolo in una spiccata atmosfera di sacralità.
Gregorio, inoltre, indirizzò i monaci ad assumere un vero e proprio ruolo di “bonifica” morale e materiale nel difficile quadro in cui si trovava l’intera Europa e l’Italia in particolare, lacerata dalla conquista longobarda.
Le vicende dei singoli cenobi intessono il quadro storico del medioevo; si pensi che nel 577, nel corso della loro lenta avanzata lungo la penisola italiana, i longobardi distrussero il complesso di Montecassino e i monaci in fuga verso Roma salvarono il codice contenente la Regola di Benedetto.
L’espansione del cenobitismo benedettino si svolse in gran parte spontaneamente, anche se felicemente inserita in un quadro di forze che almeno in parte la favorirono. Si pensi, ancora, all’importanza rivestita dalle abbazie di Farfa, Nonantola, San Vincenzo al Volturno, Novalesa (in Val di Susa), contemporanee alla ricostruita Montecassino (717).
Nel cuore dei secoli medievali, la forma benedettina si legò alle sorti dell’impero di Carlo Magno e dei suoi successori, che ne favorirono il rafforzamento e ne decretarono la vittoria giuridica: nell’817 le norme benedettine vennero rese obbligatorie per tutte le comunità monastiche dell’Impero, che cessarono così di reggersi attraverso consuetudini separate.
Dalla famiglia primigenia presero corpo diverse consuetudini regolari: cluniacensi (sorti nel 910 presso il monastero di Cluny in Borgogna), cistercensi (monaci bianchi dell’abbazia di Cîteaux, istituita nel 1098), certosini (ordine eremitico fondato nel 1084 nel massiccio desertico della Grande Chartreuse presso Grenoble), vallombrosani (congregazione del monastero di Vallombrosa in provincia di Firenze, approvata nel 1055) e camaldolesi (fondati a Camaldoli presso Arezzo nel 1012 circa, in doppia forma sia eremitica sia cenobitica), che furono tutti l’esito di rivisitazioni e riforme della prima norma dettata da Benedetto.

Qualche spunto dalla Regola di san Benedetto.

“(…) Non antepongano a Cristo assolutamente nulla.

(…) Prima di ogni altra cosa, devi chiedere a Dio con insistenti preghiere che egli voglia condurre a termine le opere di bene da te incominciate (…)

(…) È tempo ormai di levarci dal sonno. Apriamo gli occhi alla luce divina, ascoltiamo attentamente la voce ammonitrice che Dio ci rivolge ogni giorno (…)
(…) Come c’è uno zelo cattivo e amaro che allontana da Dio e conduce all’inferno, così c’è uno zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna.”

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