26 Novembre 2014

Caro salutis cardo. LEZIONE NOVEMBRE 2014

Filed under: LEZIONI DI RELIGIONE,Teologia — giacomo.campanile @ 10:22

Tertulliano: “Caro salutis cardo”, “la carne è il cardine della salvezza” (De carnis resurrectione, 8,3: PL 2,806).

Tertulliano, scrittore e apologeta cristiano del II° sec. d.C.

La carne è il cardine della salvezza. Non lo spirito. Non l’anima. Non la bontà di chissà cosa e chi. Non astratti principi generali e naturalmente non sottoponibili ad evidenza umana. No, la carne. La realtà più fragile e, insieme, la più degna di redenzione, la più redimibile nella sua paradossale fragranza di legno da ardere e fango da salvare. La carne.

L’Incarnazione di Cristo è questo: Dio accetta e sceglie la strada della caducità, rendendo quest’ultima, la carne, una ferita sanabile attraverso la quale passa la feritoia della grazia.

Corpus hominis, corpus Domini: sotto il velo della mia umanità la presenza del Signore. Quale grandezza!

“Caro salutis cardo”, ripeteva Tertulliano. La carne è il cardine della salvezza.

Rivestendo l’abito dimesso della fragilità e del bisogno, stabiliva che Dio non è da cercare ma da riconoscere e accogliere. Se Dio si è fatto uomo – e lo è per sempre, tanto che quella umanità se l’è portata con sé accanto al Padre – è sempre con l’uomo che i credenti devono accettare di misurarsi se vogliono misurarsi con Dio.

Come è noto, è stato un libro rimasto in cantiere per tutta la vita del suo autore, a partire dal 1855 fino al «letto di morte» nel 1892, come di solito viene definita l’ultima edizione: stiamo parlando della raccolta poetica Foglie d’erba di Walt Whitman. C’è in quei canti un verso che mi ha sempre impressionato, tanto da ricordarlo a memoria senza esitazione: «Se c’è qualcosa di sacro, il corpo umano è sacro».

Un pensiero che s’intreccia spontaneamente con un’altra asserzione nata dalla penna di un personaggio molto diverso, Nietzsche, che negli anni 1883-85 stendeva l’opera della sua maturità, Così parlò Zarathustra, ove si legge: «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza».

Ma se vogliamo risalire a una sorgente ben più antica e radicale, ecco l’apostolo Paolo che non esitava a interpellare i cristiani di Corinto così: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?» (1Corinzi 6,19).

         Ecco, dunque, il paradosso: quella corporeità così carnale e muscolare, materiale e sessuale, diventa segno di sacralità, di sapienza, persino di divinità, anche perché l’apice della fede cristiana è nell’affermazione provocatoria dell’inno-prologo del quarto Vangelo: «In principio era il Verbo e il Verbo era Dio… E il Verbo carne divenne» (Giovanni 1,1.14).

Anzi, il vocabolo latino corpus-corpo – che metaforicamente applichiamo anche a raccolte di testi scritti o a gruppi sociali (i corpi militari o le corporazioni, ad esempio) – ha probabilmente nella sua matrice etimologica l’indoeuropeo krp/kra– che significa «bellezza, forma».

Quando si parla di corporeità si dovrebbe, allora, trattare innanzitutto non tanto di fisicità, di biologia, di medicina, di sessuologia né di carnalità, bensì di uno dei simboli epifanici dello spirito.

         Non stupisce, allora, che la Bibbia si disinteressi quasi totalmente dell’anima, ponendosi in alternativa antropologica rispetto alla classicità greca, per attestarsi proprio sul corpo, al punto tale che il vocabolo ebraico nefesh, che la versione greca antica dei Settanta per 680 volte su 754 occorrenze rende con psychê, in realtà indica l’«essere vivente» nella sua compattezza esistenziale, interiore e materiale, vitale e mortale.

Per questo, senza esitazione, Tertulliano conierà il motto latino assonante caro salutis cardo, «cardine della salvezza è la carne», mentre l’eucaristia è il «corpo di Cristo»,la Chiesa è ugualmente suo corpo (sempre stando a Paolo) e l’escatologia non è l’immortalità dell’anima ma la risurrezione della carne/corpo.

Due vocaboli che, sempre per stare all’indoeuropeo, si apparentano perché le radicali krp-/kra– di corpo e kreu– di carne alla fine sbocciano nel creare latino.

         Questa lunga premessa-excursus, che potrebbe dilatarsi a dismisura, è destinata a orientare verso un quaderno monografico, molto suggestivo, di una rivista intitolata Parola Spirito e Vita (laddove, però, lo Spirito non è l’anima ma la divinità): il suo numero 81, che è in realtà un volume a sé stante e, quindi, acquistabile a parte senza abbonamento generale, s’intitola appunto Il Corpo. Si noti la maiuscola, nella linea della nostra considerazione preliminare. La trama è diacronico-sincronica al tempo stesso, perché parte dal polo primigenio della Bibbia – ossia dai racconti della creazione della Genesi (cc. 1-3), dal corpo che diventa oracolo e simbolo nei profeti, dal corpo orante, dolorante e corruttibile, dal corpo di Gesù, medico-salvatore, dal corpo sacrificale e risorto di Cristo – per approdare fino al polo ultimo della psicologia contemporanea. Naturalmente entro questi due estremi si distende l’arco della millenaria vicenda cristiana che si è lasciata affascinare dalla «spiritualità» greca, fino all’ascesi fustigatrice del «corpo di peccato» ma che ha registrato in questo spettro cromatico teologico pure ben altri colori.

         Come non pensare a san Francesco e al suo Cantico delle creature o al Francesco papa che, sulla scia evangelica, definisce i poveri e gli ultimi «carne di Cristo», mentre i martiri cristiani – questa volta nel solco anche di san Paolo – offrivano «i loro corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Romani 12,1)?

Lasciamo ai lettori di quel fascicolo di ricomporre questo ritratto del Corpo, che forse abbiamo scoperto nella sua fisicità simbolica proprio attraverso la pandemia del Covid-19, persino al livello estremo rappresentato dalle salme che non erano più «corpi» venerati e amati, ma solo cadaveri.

Con buona pace del Pasolini della Supplica a mia madre, non è possibile avere solo «un’infinita fame d’amore di corpi senz’anima», perché le due componenti sono inscindibili in chi ama veramente. Con Péguy possiamo, perciò, usare senza imbarazzo l’ossimoro «anima carnale», confessando con Turoldo: «Inquieta anima mia quasi / carne… Egli [Dio] non è lontano, / è nel tuo mare di sangue».

         Abbiamo già accennato all’immagine paolina della comunità cristiana come «corpo di Cristo» (almeno sei volte ritorna questo tema nel suo epistolario). È proprio con una di queste asserzioni – «noi siamo, benché molti, un solo corpo» (1Corinzi 10,17) – che Romano Penna, uno dei maggiori neotestamentaristi a livello internazionale, intesta il suo saggio, frutto di un approccio e di una ricerca sempre rigorosa ma dal dettato altrettanto limpido. Il cuore della sua analisi è proteso verso l’unità di questo corpo partendo da una componente che può sembrare a molti paradossale: «Il Gesù terreno, da laico com’era non ha fondato in senso letterale nessun sacerdozio, anche perché non ne parla mai. È stata piuttosto la fede pasquale che, approfondendo il mistero da lui vissuto fino all’ultimo, ha visto ed evidenziato in Gesù Cristo l’esercizio di un nuovo tipo di sacerdozio senza paragoni».

         È la stessa Lettera agli Ebrei, sulla base di una comparazione col sacerdozio ebraico, di sua natura genealogico ed ereditario (legato com’era all’appartenenza tribale levitica), che dichiara senza imbarazzo: «Se Gesù fosse sulla terra, non sarebbe neppure sacerdote… È noto, infatti, che il Signore nostro è germogliato dalla tribù di Giuda, e di essa Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio» (8,4 e 7,14). Altrettanto forti sono state le parole di papa Francesco: «Tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Nessuno è stato battezzato prete o vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è un segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare». Questo, però, non esclude che esistano dei «ministeri» specifici, a partire da quelli di fondazione come gli apostoli o di servizio come i «diaconi». Essi, però, non devono regredire alla tipologia rituale anticotestamentaria o a quella pagana della classicità greco-romana.

         Lo studio di Penna, che si distende fino a raggiungere i primi secoli cristiani, è dedicato a delineare proprio i due profili costitutivi. Da un lato, è in causa la laicità, presente già nel fondatore Cristo, e che si esprime nei molteplici carismi dei fedeli delle varie comunità. Essa si manifesta sia nel culto domestico e non templare, sia nella stessa morale paolina segnata da una struttura non sacrale (legge e libertà, coscienza, etica generale, nesso con la politica). D’altro lato, abbiamo il sacerdozio cristiano che ha il suo archetipo esclusivo nel «sommo sacerdote» Gesù, un prototipo certamente non genetico né rituale. E che è partecipato anche nella dimensione comunitaria e individuale dell’intera Chiesa, «corpo di Cristo». Un sacerdozio che ha, però, una sua identità e specificità ministeriale in alcuni soggetti attraverso un’ordinazione con l’imposizione delle mani. Qui il discorso s’allarga anche nella Chiesa successiva con l’elaborazione di ulteriori precisazioni teologiche e di contrassegni come il celibato o la veste sacra.

         Sintetizzato così, il discorso sembra fin scontato. In realtà le pagine di Penna, fittamente documentate, aprono squarci sorprendenti e, alla fine, si inquadrano nel dibattito sempre vivace del contrappunto tra fede, religione, laicità, secolarità, purtroppo spesso pronti a degenerare in clericalismo e laicismo, sacralismo e secolarismo. Alla radice c’è sempre quella scissione esclusivistica tra anima e corpo, tra spirito e carne da cui siamo partiti.

GIANFRANCO RAVASI

Autori Vari, Il Corpo, in «Parola Spirito e Vita» n. 81, Dehoniane, Bologna, pagg. 226, € 24,60.

Romano Penna, Un solo corpo, Carocci, Roma, pagg. 247, € 23,00.

Pubblicato col titolo: Questa nostra carne, tempio dello Spirito, su IlSole24ORE, n. 252 (13/09/202

2 Ottobre 2014

La Scuola di Alessandria. Religione filosofia e teologia. Lezione ottobre 2019

Filed under: FILOSOFIA RELIGIONE,LEZIONI DI RELIGIONE,Teologia — giacomo.campanile @ 07:50

La Scuola di Alessandria. Religione filosofia e teologia.

La grande Biblioteca di Alessandria

Il Faro di Alessandria, una delle Sette Meraviglie del Mondo

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Il Faro di Alessandria è considerato una delle realizzazioni più avanzate ed efficaci della tecnologia ellenistica.

Venne costruito tra il 300 a.C. e il 280 a.C. sull’isola di Pharos, di fronte al porto di Alessandria d’Egitto. Si ritiene che la torre del faro fosse alta 134 metri! Il faro rimase in funzione per sedici secoli: nel 1303 e nel 1323 due terremoti lo danneggiarono irreparabilmente. Le sue rovine furono recuperate in mare ed utilizzate nel 1480 dal sultano d’Egitto Quaitbay per costruire un forte nelle vicinanze.

 

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Alessandria, la grande città antica situata all’Ovest del delta del Nilo, fu fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C. grazie ad una posizione geografica strategica divenne ben presto una città cosmopolita di commercio e di grande scambio culturale tra le civiltà egiziana, orientale, greca e giudaica. Fu il luogo per eccellenza della fioritura dell’ellenismo ovvero della civiltà greca pagana, con particolare riferimento alla filosofia.

Alessandria conobbe un grande sviluppo dell’arte, della vita intellettuale e di tantissime correnti filosofico-religiose, il tessuto culturale era in continuo fermento impregnato di stoicismo, neoplatonismo, gnosticismo, giudaismo. Qui fu realizzata la più grande Biblioteca, le cui stime parlano di una raccolta di 500.000 rotoli inerenti tutto lo scibile umano.  Calpestarono il suolo di Alessandria personaggi del calibro di Callimaco, Euclide, Archimede, Ipparco, Filone, Ammonio, Plotino e molti altri.

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Già dal III secolo a.C. era presente una comunità giudaica ellenizzata che dette l’impulso per la traduzione greca della Bibbia, diventata famosa come Settuaginta (LXX), perché, secondo la leggenda, sarebbe stata realizzata da 70 saggi.

La cristianizzazione dell’Egitto iniziò con la missione dell’ebreo Marco, l’evangelista.

Durante il primo secolo Alessandria era una città cosmopolita dove convivevano differenti popoli e varie credenze religiose. Vi erano egiziani, greci, romani, etiopi e la lingua più parlata era il greco.
Fin dalla fondazione della città portuale, per opera di Alessandro il Grande, si erano sviluppate varie correnti culturali: l’orientale, erede delle tradizioni babilonesi, persiane e indiane (vediche); l’egiziana, erede delle antiche religioni dei faraoni, all’interno della quale si adoravano ancora Horus, Iside e Osiride; e la greca, con gli dei del pantheon olimpico.
Ad Alessandria però vi erano anche dei giudei adoratori di YHWH, e fin dal secondo secolo a.C. vi era stato un certo intercambio culturale tra la cultura giudaica e quella greca, in quanto era stato tradotto al greco il Tanakh, ovvero i libri che ora conformano l’Antico Testamento (la Bibbia dei settanta).
Uno dei più famosi saggi giudei di Alessandria del I secolo fu Filone, che individuava il demiurgo o Logos di Platone come il Dio della tradizione ebraica.

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A partire dal II secolo si sentì la necessità di difendere la fede cristiana contro possibili attacchi esterni. Fu questa la ragione che la scuola alessandrina si sviluppò e fiorì, proprio nella città dove era più diffuso lo gnosticismo, una tendenza opposta al Cristianesimo apostolico.

I due filosofi più conosciuti che divulgavano la fede gnostica ad Alessandria erano Basilide e Valentino, entrambi attivi nel secondo secolo.
Le quattro caratteristiche della scuola alessandrina furono: il contenuto metafisico nella predicazione della fede, l’influenza platonica, la direzione concettualmente idealistica e il metodo di interpretazione allegorico di vari passaggi scritturali.
Uno dei più importanti decani della scuola alessandrina fu Panteno, che diresse la scuola a partire dal 181 d.C.

Durante l’assenza di Panteno, la direzione della scuola alessandrina fu assunta dall’ateniese Clemente (Atene, 150 d.C. – Cesarea di Cappadocia, 215 d.C.).
Per Clemente tra la filosofia greca e le Sacre Scritture esiste una relazione armoniosa voluta da Dio.

Il Creatore ha dato la Legge ai giudei e la filosofia ai greci. Entrambe vengono da Dio ed entrambe conducono a Cristo.
Sia il pensiero di Clemente Alessandrino che quello dei suoi predecessori (come Giustino, Atenagora, Teofilo di Antiochia) e dei suoi successori (Origene, Alessandro di Gerusalemme) furono caratterizzati dal riconoscimento del valore del pensiero di Platone, il filosofo che per primo ha ammesso l’esistenza di un piano metafisico, non con la fede, ma con la ragione.

Clemente Alessandrino

Nei filosofi cristiani alessandrini però vi è il riconoscimento della superiorità del Cristianesimo sulla filosofia greca, perché la Verità, che i greci avevano solo sfiorato, con la descrizione del Logos, con il Cristianesimo si è rivelata in tutta la sua pienezza.

In quest’ottica non si può parlare di ellenizzazione del Cristianesimo, ma di cristianizzazione del mondo ellenico.

Per loro Gesù Cristo è la Verità ultima, ed è venuto per completare non solo la legge giudaica, ma anche la filosofia greca, in quanto ci ha svelato se stesso, il Logos che si è fatto carne.

Il Cristianesimo pertanto, oltre ad essere l’unica vera religione, è per loro l’unica vera filosofia divina.

Sappiamo che il Cristianesimo apostolico si basava sul pentimento dei propri peccati e la fede in Gesù Cristo per ottenere la salvezza, mentre lo gnosticismo era incentrato sulla conoscenza, o gnosi, per raggiungere l’unione con Dio.

Clemente alessandrino indica una terza via, in quanto per lui la fede e la conoscenza stanno in una relazione intima.

La fede per Clemente è il fondamento della gnosi.

Per lui ogni credente può essere gnostico, ma lo gnostico ecclesiastico è il perfetto cristiano.
La prima opera di Clemente fu il Protrettico, (dal greco “esortazione”, scritto possibilmente tra il 180 d.C. e il 200 d.C. Era un esortazione alla conversione al Cristianesimo rivolta ai pagani e soprattutto ai culti dei greci.
La sua seconda opera fu il Pedagogo, dove al cristiano viene insegnata la disciplina e una vita di rettitudine.

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La terza opera di Clemente alessandrino è denominata Stromateis (Miscellanea), perché analizza molti argomenti con lo scopo di individuare la giusta vita cristiana attraverso la fede e la conoscenza, che secondo lui avrebbero portato alla vera gnosi.
In pratica le tre opere sono legate da un filo sottile. E come fosse Gesù Cristo stesso che prima esorta a intraprendere il cammino della conversione, quindi insegna la retta via da percorrere ed infine come un maestro, indica la via da percorrere attraverso la fede, per la vera conoscenza.
Clemente scrisse anche altre opere tra le quali si ricordano le Disposizioni che furono dei commenti alla Bibbia e ad alcuni testi non canonici, come l’epistola di Barnaba e l’Apocalisse di Pietro.
Nel 202 l’imperatore Settimio Severo ordinò la persecuzione dei cristiani nella parte orientale dell’impero e in Egitto.

Clemente alessandrino fu così costretto a lasciare l’Egitto e la direzione della scuola passò ad Origene Adamanzio.
Clemente si diresse a Cesarea di Cappadocia, nell’attuale Turchia centrale, dove si dedicò alla Chiesa locale in quanto il vescovo Alessandro era stato imprigionato. Morì a Cesarea di Cappadocia pochi anni dopo probabilmente nel 215 d.C

Origene Adamanzio.

Durante quegli anni la scuola alessandrina era diretta da Origene Adamanzio (Alessandria, 185 d.C. – Tiro, 254 d.C.), “uomo di acciaio o di diamante”, etimologicamente “l’indomabile”. Possedeva una scienza enciclopedica ed è annoverato tra i pensatori più grandi e originali di ogni tempo, autore di innumerevoli opere che hanno influenzato tutta le teologia dei secoli a seguire.uno dei principali filosofi del Cristianesimo antico.

Origene esortava alla pratica delle virtù, alla conquista della perfezione morale e spirituale mediante la prassi ascetica.

È importante sottolineare il fatto che all’epoca solo la frequenza alla Scuola poteva essere motivo di persecuzioni.
Nel terzo secolo la convinzione che la Verità fosse stata rivelata contemporaneamente agli ebrei con la Bibbia, e ai greci con la filosofia, e la credenza che essa si fosse incarnata nella persona di Gesù Cristo, si scontrarono con il pensiero dei filosofi neo-platonici, tra i quali si ricordano Ammonio Sacca, Plotino e Porfirio.

La Scuola era sistemata in un edificio pubblico a fianco del museo del Serapeo dove si trovava la Biblioteca, era aperta a tutti, uomini e donne senza nessuna distinzione di credo e ceto sociale. Considerati da molti studiosi i maggiori esponenti del cristianesimo integrale,

Clemente ed Origene svilupparono e diffusero sia l’insegnamento exoterico (popolare, esteriore) che quello esoterico (riservato, interiore) della dottrina di Cristo in conformità alle parole del Salvatore.

Nel 250-253 . fu colpito dalla persecuzione di Decio e morì a seguito delle torture subite. Origene fu autore di numerosissimi scritti; Eusebio (come testimonia s. Girolamo) ne avrebbe elencati oltre mille: lavori sul testo biblico, commenti, scritti teologici e polemici, lettere.

Ma la vastissima produzione è andata in gran parte perduta.

La Scuola di Alessandria

Prima del Cristianesimo la città di Alessandria fu fiorente e cosmopolita, la più grande del mondo antico.

Aveva gran fama per le sue scuole, soprattutto quella del Museo che Tolomeo Primo istituì nel terzo secolo avanti Cristo, con la sua biblioteca che conteneva più di 500.000 volumi che toccavano ogni branca di sapere, oltre alla scuola di Serapione e alle scuole giudaiche che erano sparse in tutto l’Egitto.
Possiamo dire che Alessandria era un luogo unico nel quale fiorirono diverse colture: egiziana, ellenistica e giudaica.
In quell’ambiente la Chiesa ritenne di dover fondare un’istituzione catechistica per affrontare e rispondere ai pensieri di quelle scuole.
San Girolamo testimonia che San Marco fu colui che gettò i fondamenti della Scuola cristiana di Alessandria come mezzo di approfondimento del Cristianesimo su una base salda.
La scuola catechistica di Alessandria fu la più antica scuola catechistica del mondo. Il primo ordinamento teologico nacque lì, come anche l’interpretazione simbolica della Bibbia. La prima questione di cui si occupava è scoprire il significato spirituale in ogni parte della Bibbia e dietro le righe.


 

Origene   Adamantio

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All’inizio la Scuola era dedicata ai catecumeni che chiedevano di essere battezzati, sia dei Giudei che dei Gentili, per insegnare loro tutti i dettagli del credo cristiano e prepararli a ricevere il dono del Battesimo. La sua porta era spalancata per accogliere gente di diverse religioni, di ogni livello sociale e categoria lavorativa. Nel secondo secolo ebbe un efficace impatto sulla vita della Chiesa. La scuola di Alessandria divenne la più importante istituzione di insegnamento religioso della Cristianità.

Molti eminenti vescovi da molte parti del mondo ricevettero la loro istruzione in quella scuola da parte di studiosi quali Atenagora, Clemente, Didimo ed il grande Origene , considerato il padre della teologia ed attivo anche nel campo del commento e degli studi comparativi della Bibbia.

Origene scrisse oltre 6.000 commentari alla Bibbia, oltre al suo famoso Hexapla. Molti studiosi, come S. Girolamo, visitarono la scuola di Alessandria per scambiare idee e comunicare direttamente con i suoi studiosi. Lo scopo della scuola di Alessandria non si limitava ai soli argomenti teologici poiché lì si discuteva anche di scienze, di matematica e di studi umanistici: il metodo del commento tramite domanda e risposta nacque lì e, 15 secoli prima di Braille, venivano usate da studenti ciechi tecniche di intaglio nel legno per leggere e scrivere.

Critica alla scuola di Alessandria.

La visione di Dio
come il risultato di una sostituzione dell’eros pagano
– all’agape cristiana, « Non si è visto
che vi è un abisso tra la visione escatologica… e la contemplazione mistica di Dio, e che la prima non è che un modo di esprimere la realizzazione perfetta della comunione cristiana ». Cosí, tutta la mistica cristiana apparirà come una deviazione, come una deformazionnica del cristianesimo primitivo.
Indipendentemente dal Nygren, P. Festugière arriva
alle medesime conclusioni, per quel che concerne l’ideale
della vita contemplativa. Nel suo articolo Ascèse et con
templation’ cosí si esprime: « Parallelamente a (lla) tta
dizione specificamente cristiana, viene a svilupparsi
partire dal III secolo un’altra tradizione, in cui cio
viene da Gesú si mescola a un elemento di sapienza
greca e se ne lascia talvolta assorbire. L’origine di questo
movimento è facilmente percepibile: si tratta della scuola di Alessandria, di Clemente e Origene »2. P. Festugière
non si ferma qui. Come il Nygren, sebbene con mag-
giori riserve, egli vede in quasi tutta la mistica speculativa posteriore il risultato di una sintesi, di una simbiosi
tra Atene e Gerusalemme.
« Le maglie della catena sono facilmente riconoscibili
sono tutti i dottrinari della contemplazione in Oriente, Evagrio, Gregorio
Nisseno, Diadoco di Fotica, lo Pseudo-Dionigi; in Occi-
dente Agostino e (nella misura in cui segue sant’Agostino) Gregorio Magno »
Cercheremo di renderci conto in seguito, esaminando
la dottrina della visione di Dio in Gregorio Nisseno, in
Diadoco e Dionigi, in che misura possa essere accolta a
loro riguardo la tesi di P. Festugière. Per il momento
Ci limiteremo a un rapido esame della visione di Dio net
due grandi maestri del Didaskaleion alessandrino.

Origene, nei quali P. Festugière vede i fondatori di quella che egli chiama « spiritualità filosofica»
la definisce cosí: « E una mistica, intellettualistica o
superintellettualistica, che conduce a un genere di vita
esclusivamente contemplativo nel quale non vi è piú
posto per l’azione, anche se ispirata dall’amore ». « Es-
sere perfetto equivale a contemplare, e contemplare è vedere Dio di una visione immediata »

Cit. Losky teologica mistica chiesa d’oriente. Pag 280.

 

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18 Febbraio 2014

LA CONOSCENZA DI DIO NEL CORPUS AREOPAGITICUM

Filed under: Teologia — giacomo.campanile @ 16:37

Giacomo Campanile

LA CONOSCENZA DI DIO

NEL CORPUS AREOPAGITICUM

INTRODUZIONE

L’intento di questo studio è una ricerca a livello teologico sul concetto di conoscenza Dio nel Corpus Areopagiticum. Il motivo che ha sollecitato questo lavoro è  l’importanza fondamentale che questo tema ha negli scritti dello pseudo-Dionigi. Lo scopo che ci proponiamo quello di chiarire cosa l’autore intende per conoscenza di Dio, qual è il valore dei diversi gradi di conoscenza. Essendo il problema molto vasto, non pretenderanno di esaurire e risolvere tutti i quesiti che sono posti sia a livello storico sia filologico.

Cercheremo di svelare l’alone di mistero che circonda la persona dell’autore; questo ci servirà per spiegare l’importanza che i suoi scritti hanno avuto nella storia della teologia. Per capire il pensiero gnoseologico di Dionigi non si può fare a meno di confrontare i contenuti presenti nel Corpus con la tradizione patristica, per cogliere le sintonie, le divergenze e gli sviluppi. Considereremo quindi il rapporto che intercorre tra la sua concezione e quella d’alcuni padri anteriori a lui. Poi prenderemo in considerazione quali sono le fonti della conoscenza di Dio, il limite e la capacità di questa gnosi nel pensiero dell’Areopagita; quindi, secondo il principio gerarchico, analizzeremo come Dio conosce se stesso e il mondo e quali sono le peculiarità della conoscenza angelica infine cercheremo di chiarire la conoscenza umana di Dio che si attua in un contesto liturgico e religioso.

I tre stadi di conoscenza: simbolica, intellettuale e mistica, approfonditi singolarmente, ci faranno cogliere la ricchezza teologica dell’autore e cosa egli può insegnarci ancora a livello speculativo e teorico, ma come tensione interiore verso Dio, la quale c’innalza attraverso i diversi gradi fino ad arrivare alla comunione con il” totalmente Altro”. La somma conoscenza di Dio è I ‘unione con Lui. Comunione e conoscenza sono due parole che si richiamano continuamente: la conoscenza porta alla comunione è la comunione fa crescere la conoscenza. La conoscenza di Dio, perciò, è un incontro di amore che si esplicita totalmente solo nella conoscenza mistica, contemplazione del mistero tearchico, possesso, gioia infinita. La concezione che Dionigi ha della gnosi deriva per noi da una mentalità biblica e non dalla filosofia neoplatonica come molti studiosi affermano. Queste sono le tesi che cercheremo di sostenere e che crediamo dl aver riscontrato nella teologia dell’Areopagita.

Tutti i grandi pensatori teologici della storia sono stati affascinati dal pensiero di Dionigi, citiamo Scoto Eriugena, i Vittorini, Bernardo e la sua scuola, Alberto, Bonaventura e Tommaso,Eckhart, Taulero e Ruysbroek, Gersone e il Cusano, i mistici spagnoli sino a Giovanni Della Croce, Bérulle e Fénelon. Tutti questi sono stati succubi della forza teologica del Corpus.

Prima parte

IL MISTERO DELL’AUTORE DEL CORPUS AREOPAGITICUM E L’INFLUSSO NELLA STORIA DELLA TEOLOGIA OCCIDENTALE

Il Corpus Areopagiticum è stato scritto da una  personalità, che conosceva molto bene il pensiero filosofico e teologico a lui anteriore e contemporaneo.

Chi legge per la prima volta gli scritti dello pseudo-Dionigi, rimane colpito dalla profondità con cui egli spiega ogni problema riguardo Dio, il mondo, l’uomo. S’intuisce in quest’autore qualcosa di particolare, nelle sue affermazioni metafisiche e dogmatiche egli ha un’autorità, una chiarezza, una sinteticità uniche. Ci si accorge che si ha davanti un gran maestro, un pensatore coinvolgente.

Resta però difficile dire chi è quest’autore, in che secolo è vissuto, qual è il suo vero nome, qual è la vera identità. In effetti, anche oggi, per la critica storica, questo personaggio è rimasto un mistero, un enigma insolubile. Molti hanno cercato di dare una storia a quest’uomo, ma bisogna dire che si è concluso veramente poco. Alcuni critici hanno attribuito il Corpus a Severo di Antiochia il monofisita (Stiglmairs), altri hanno posto l’autore all’età di Atanasio in Egitto (Schepens), altri lo hanno fatto diventare discepolo di Basilio (Pera), Eloveduy ha avuto il coraggio di identificarlo con Ammonio Sacca, e così altri hanno formulato tantissime ipotesi che non stiamo ad elencare. Per mille anni l’autore del Corpus è stato considerato come un discepolo di Paolo, convertito dall’apostolo all’areopago; questo perché in alcuni punti del corpus l’autore afferma di aver assistito all’eclissi di sole avvenuta al tempo della morte di Gesù (Ep.2-3,1081b-c), di aver visto la morte della Vergine Maria (DN III 2,681 c-d), e aver conosciuto personalmente alcuni apostoli (Ep X 1117 A – 1120 A), di essere stato con lerotero segue seguace Paolo (DN III 2,681 A; Il 3,684 D) ). Questi furono i motivi per cui molti studiosi hanno accusato Dionigi di essere un falsario, aggiungendo al suo nome la particella pseudo.[1]

Il carattere apocrifo del Corpus è stato sottolineato per la prima volta da Lorenzo Valla e da Erasmo, che da uno studio critico letterario avevano posto il Corpus cronologicamente non prima del V secolo. Questa voce però non fece opinione. Nel 1900 due studiosi cattolici H.Koch e J.Stiglmairs diedero una seria documentazione e sfatarono la leggenda dell’Areopagita.[2]

Oggi si è concordi nell’affermare che l’autore è un monaco siriaco del 500 circa. Le considerazioni che abbiamo fatto non tolgono niente all’importanza che questi scritti hanno avuto nella storia della teologia sia occidentale sia orientale. L’influenza enorme che egli ha avuto nel medio evo, manifesta che il Corpus in sé‚ ha un valore molto grande, al di là dalle problematiche storiche. L’opinione di alcuni studiosi vede nel Corpus un platonismo verniciato cristianesimo, un canale attraverso il quale si sarebbe introdotto nella tradizione cristiana il pensiero neoplatonico.[3]

Per altri, come per Lossky, è vero tutto il contrario; si tratta di un pensatore cristiano mascherato da neoplatonico. Egli vuole impadronirsi della tecnica filosofica neoplatonica sia per migliorare la qualità di un ragionamento cristiano, sia per diffondere la fede in una grecità imbevuta di concetto derivati da questa filosofia. Egli come molti padri ha il desiderio di cristianizzare l’ellenismo. [4]

L’influsso che ha avuto il pensiero dionisiano nella teologia posteriore ci stupisce. In effetti è un mistero come il Corpus sia stato accolto senza riserve da grandi pensatori con spiccato senso critico come per esempio è Massimo il confessore, che per primo fece un commento ai Nomi divini.

Nell’occidente il Corpus è entrato per mezzo di Giovanni Scoto Eriugena (805 – 877), l’iniziatore della scolastica, che tradusse in latino i testi di Dionigi. Questo lavoro fu molto importante perché a quel tempo erano pochissimi coloro che conoscevano la lingua greca e ciò ha favorito il diffondersi del pensiero dionisiano in occidente. Nel secolo XIII e nel XV il Corpus esercitò una azione decisiva in tutte le correnti spirituali di quel tempo: Gersone, Ruysbroec e Maestro Eckart si ispiravano a lui. In questo periodo il pensiero di Dionigi invaderà tutti i campi: dalla metafisica all’ecclesiologia, dalla cosmologia alla politica. [5]

Tommaso al culmine della Scolastica imposta la Summa sullo schema del duplice movimento di emanazione e di ritorno e sull’idea della gerarchia cosmica dell’Areopagita. Commenta il “De Divinis Nominibus” e usufruisce della sua gnoseologia che, con tutta la carica simbolica e mistica, completava l’epistemologia aristotelica.

Anche la profonda pace e beatitudine che si riscontra nella dottrina dell’Aquinate vengono da Dionigi, che rimane la più considerevole presenza dell’Oriente nel cuore della teologia occidentale.

Marsilio Ficino ritraduce il Corpus; così l’influsso ideologico dionisiano su di lui è più forte di quello di Origene, che per  Ficino è il “più grande dei platonici: Nicolo’ di Cusa studio approfonditamente la teologia dionisiana e scrisse nel 1439 un libro: “La dotta ignoranza”, con continui riferimenti al tema della divina ignoranza, tema squisitamente dionisiano. Anche Pico della Mirandola si ispira a Dionigi.  Nell’umanesimo, Erasmo e Valla confutano l’origine apostolica del Corpus; anche Lutero è scettico nei confronti di questo scritto per motivazioni religiose. Il Corpus Areopagiticum si propone a noi con la su forza e originalità per insegnare ancora cose alla teologia contemporanea. Speriamo di mettere bene in luce le problematiche e le concezioni gnoseologiche di questo personaggio che viene ancora oggi definito “il padre della mistica occidentale”.

LE FONTI

  1. Introduzione patristica al pensiero di Dionigi.

La formazione culturale dell’autore del Corpus può aiutarci a capire meglio il suo pensiero teologico. In Dionigi si combinano insieme due filoni: quello della filosofia neoplatonica, dovuto all’ambiente culturale del tempo, e quello della tradizione patristica, nella quale emergono soprattutto i padri alessandrini e quelli cappadoci.[6]

Brevemente analizzeremo le idee di alcuni padri, sia quelle che ci sembra abbiano influenzato di più il Corpus, sia quelle a cui il Corpus generalmente si oppone. In Dionigi si trovano un insieme di dottrine e di termini che appaiono strettamente associati a Clemente,Origene, Basilio, Gregorio di Nissa ed Evagrio il Pontico.[7]

Non si può capire la sua concezione gnoseologica, se non si tiene in considerazione questo retroterra ideologico. Considereremo questi pensatori cristiani singolarmente, per cogliere qual’e’ il loro rapporto con Dionigi. [8]

Clemente di Alessandria (l50-2l5) vive in un ambiente molto formato intellettualmente, Alessandria era divenuta il principale centro di cultura ellenistica; per le sue favorevoli condizioni economiche, geografiche, culturali e una accentuata libertà religiosa, diventò alla fine del Il e all’inizio del III secolo il centro della cultura cristiana.  Qui si ebbe la felice sintesi fra la filosofia antica e il cristianesimo. [9]

Per Clemente, il sapere enciclopedico dell’epoca costituisce una propedeutica molto utile alla gnosi cristiana. Secondo lui bisogna apprendere le scienze profane ( cioè‚ la filosofia), e trarne profitto sia per insegnare la Verità cristiana con esattezza e con sicurezza, sia per confutare le erronee teorie che tendevano ad opporsi alla Chiesa.  Perciò il cristiano dovrà conoscere queste discipline  che formano la base delle cognizioni generali e guidano all’apprendimento della filosofia greca. Questa scienza, che i sostenitori di eresie (pagani) adoperano a fin di male, lo gnostico deve usarle per un buon fine.  Da Clemente, Dionigi prende l’esigenza di difendere la verità cristiana e di approfondire la filosofia neoplatonica per adeguarla alla rivelazione. Perciò le scienze profane possono condurre, mediante la contemplazione della creazione, alla conoscenza di Dio come creatore. Per Clemente il mondo fisico è simbolico nella sua essenza; la contemplazione del mondo fisico deve portarci a scoprire il suo carattere spirituale. Questo è un tema Paolino molto caro anche a Dionigi (Ep. IX 2,1108 B) fonte del primo stadio della conoscenza, quello simbolico. Su questa base per Clemente si inserisce anche il simbolismo delle scritture, elemento centrale della gnosi, in quanto essa interpreta allegoricamente le Scritture. Tutto  questo ci porta verso un apice, quello della conoscenza che possiamo chiamare mistica, in senso di visione divina che trasforma l’uomo in quello che vede. Clemente è il primo autore a parlare di deificazione, di theopoiein in senso spirituale. Il concetto di deificazione ricorre continuamente nel Corpus ed è uno dei fini della conoscenza. Clemente è anche colui che inizia la via della teologia apofatica: Dio sorpassa ogni figura, ogni nome, ogni nozione; queste sono sempre inadeguate al suo mistero. Egli forgia il termine “ghnòphos” – tenebra – in cui Mosè entra per incontrare Dio.[10]

Il tema della tenebra divina è ampiamente sviluppato in Dionigi ad esso dedica il trattato della Teologia mistica; anche l’idea di Mosè tipo di ogni gnostico è ripresa dall’Areopagita.

Perciò per Clemente la vera conoscenza  una contemplazione infinita superiore alla fede. La sua conoscenza mistica è fortemente intellettualistica; la beatitudine in verità la comprensione dell’incomprensibile, in questo punto Dionigi completa e supera Clemente. [11]

Secondo Origene (185-255), si progredisce nella conoscenza di Dio soltanto approfondendo il testo sacro alla ricerca del significato spirituale celato sotto il velo della lettera, anche Dionigi parla di una interpretazione spirituale delle Scritture che sta alla base di ogni conoscenza di Dio. (DN IV 11,708 B – C). Per Origene il senso letterale deve essere superato;perché esso è immagine e simbolo del senso spirituale; solo partendo dalla lettera si può arrivare allo spirito della Scrittura. Egli parla della conoscibilità di Dio in questi termini:

” affermiamo che nella sua realtà Dio è incomprensibile e imperscrutabile. Qualunque cosa noi potremo pensare o comprendere di Dio, dobbiamo credere che gli è di gran lunga superiore a ciò che di lui pensiamo. “ (Principi I 1,5)

Questo è il postulato fondamentale contro tutti quei filosofi pagani che concepivano in Dio una corporeità. L’affermazione di Origene, attraverso Gregorio di Nissa, diventerà un postulato fondamentale della teologia dell’Areopagita. Origene nello stesso momento afferma:

“L’intelligenza ha una certa affinità con Dio, di cui è immagine intellettuale, e per questo essa può conoscere qualcosa della natura divina soprattutto se è il più possibile unificata e separata dalla materia corporea.” (I principi I l,7)

Il brano e’ importantissimo, esso si fonda sul dato scritturistico dell’uomo immagine di Dio, ma anche nell’assioma “il simile è comune al simile” (Empedocle), universalmente accettato dai greci, secondo cui potevano conoscere solo realtà omogenee. Qui Dionigi si distacca completamente dal pensiero origeniano affermando l’inconoscibilità della natura divina.(DN Il 7,645 A) Per Origene solo se l’anima si e’ purificata nelle azioni e nei costumi (apàtheia) giunge all’esatta conoscenza delle realtà naturali, per passare poi alle conoscenze dogmatiche e mistiche e con amore sincero e spirituale alla contemplazione della divinità. Egli dice:

“Premesse le nozioni per mezzo delle quali l’anima i purifica nelle azioni e nei costumi giunge all’esatto giudizio delle realtà naturali, in maniera conveniente essa passa alle conoscenze dogmatiche e mistiche e con amore sincero e spirituale sale alle contemplazioni della divinità.”[12]

Qui c’è un abbozzo dei diversi stadi di conoscenza di Dio; il loro sviluppo successivo in Dionigi avrà molta importanza. In Origene le conoscenze dogmatiche e mistiche si identificano, il dogma è concepito come mistero, mentre solo nell’amore si arriva alla contemplazione.

Questi aspetti della gnosi esprimono la Filosofia divina che va dalla conoscenza della realtà inferiore alla conoscenza della realtà perfetta. La contemplazione è una realtà che supera l’aspetto corporale e visibile e coglie qualcosa della realtà divina, la quale è conosciuta solo dall’intelletto.

S.Basilio (330-379) farà una affermazione importantissima che rimarrà nella teologia posteriore: Dio si manifesta con le sue operazioni divine:

“Pur affermando che conosciamo il nostro Dio nelle sue energie, non promettiamo di avvicinarlo nella sua essenza. Di fatti le sue energie discendono fino a noi, ma la sua essenza rimane inaccessibile.” [13]

Distinzione fondamentale tra l’ousia radicalmente trascendente e la energheiai o operazioni manifestatrici. Questa intuizione sarà completata e approfondita dall’autore del Corpus. Basilio con questa distinzione voleva sottolineare il carattere oggettivo dei nomi divini contro l’eretico Eunomio, con i quali esprimiamo un’ certa nozione di Dio, senza mai afferrare col pensiero la sua essenza. Coi cappadoci e specialmente con Basilio, la teologia per eccellenza è quella trinitaria. Accanto ai nomi che esprimono le manifestazioni esterne di Dio, ve ne sono altri che esprimono le relazioni trinitarie, perciò l’essere di Dio in se stesso perciò al di fuori della creazione. Grazie all’incarnazione del Verbo possiamo dare valore assoluto a queste relazioni che trascendono le capacità culturali del nostro pensiero. Solo con la rivelazione queste relazioni assolute possono essere colte dalla nostra intelligenza.

Invece della contemplazione dell’ousia, l’oggetto della teologia è qui la conoscenza della realtà trinitaria.  Ora la gnosi di Clemente e di Origene cede il posto alla comunione con il Dio Trinità. Basilio per questo rapporto non parla di conoscenza ma di “intimità con Dio”,dell’ “unione per mezzo dell’amore”[13]. Essendo Dio per natura, lo Spirito Santo deifica per mezzo della sua grazia gli uomini. Solo nello Spirito possiamo contemplare Dio, in Lui vediamo l’immagine del Figlio e per mezzo suo l’Archetipo, il Padre. Ogni conoscenza di Dio è trinitaria: nello Spirito Santo per mezzo del Figlio, verso il Padre. Anche per l’Areopagita la preghiera alla Trinità svolge un ruolo fondamentale nella conoscenza; egli la invoca all’inizio della Teologia Mistica, definendola soprasostanziale, superdivina, custode della divina sapienza dei cristiani. Con questo Dionigi si inserisce perfettamente nella tradizione patristica.[14]

Per S. Gregorio di Nissa (325-399) al di là della conoscenza, della visione di Dio, vi è una nuova via,quella delle tenebre. Non vi è la visione dell’essenza divina, la contemplazione è al di là dell’intelligenza, dove la conoscenza è abolita e diventa amore. Desiderio di Dio, l’anima esce da sé  e più si unisce a Dio più il suo amore si infiamma. Con Gregorio nasce l’ineffabile conoscenza di Dio che si chiama theognosia. La nozione di tenebra ha un senso mistico, è l’inizio della teologia apofatica. Dionigi come fedele discepolo del Nisseno amplierà il tema delle tenebre divine, facendolo diventare il punto di passaggio obbligato per arrivare all’unione con Dio. Per Gregorio nella vita spirituale Dio prima appare come luce, e poi come tenebra. Non vi è per Gregorio la visione dell’essenza divina (riprende la distinzione fatta da Basilio). L’unione diventa la via che supera la conoscenza. Dove non arriva l’intelligenza, arriva l’amore, anzi la gnosi si trasforma in agape. L’amore ha la caratteristica di essere estatico, l’estasi fa uscire l’anima da se stessa. Si inserisce ora un concetto nuovo di amore, l’eros di derivazione platonico, esso  è intensità dell’agape.

Anche Dionigi parla di eros ma in lui questo termine diventerà un nome divino, un attributo di Dio. Considereremo qui in particolare il pensiero del Nisseno perché secondo molti studiosi è ritenuto uno dei maestri più importanti dell’Areopagita tutte le idee gnoseologiche di Gregorio di Nissa le troveremo o citate o ampliate nel Corpus. [15]

Per Gregorio la beatitudine non è nella conoscenza ma nell’avere Dio in sé e contemplare nella sua immagine purificata le energie deificanti. Gregorio è un origeniano tanto da condividere una delle più discusse dottrine del maestro, quella dell’apocatastasi. In Gregorio come per Origene, Filone e altri antichi, mistikos, definisce soltanto il senso del mistero che circonda Dio ed il contatto che in vario modo si può avere con Lui. Lo scritto più importante di Gregorio riguarda questo argomento è la “Vita di Mosè”. Il libro è l’itinerario dell’uomo verso Dio. La via dell’uomo per arrivare a Dio ha tre stadi: essi sono figurati seguendo esperienza di Mosè che ci viene raccontata nella scrittura:

1°. stadio – purificazione, separazione dagli errori dalle illusioni del mondo e illuminazione circa la giusta direzione della nostra vita. Simboleggiata dal roveto ardente. [16]

2°. Stadio – coincide con la rinuncia ai valori mondani  e nell’esercizio della vita di fede, è simboleggiato la marcia nel deserto.

3°. stadio – simboleggiato dall’esperienza di Mosè i monte Sinai (tenebre, visione, incontro con Dio) che porta all’esperienza mistica dell’unione con Dio. Il tema più importante nella vita di Mosè che Gregorio espone fin dall’inizio e che il tendere (epectasis), il progredire dell’anima a Dio è senza fine e perciò non conosce soste. Questo è il momento fondamentale  e più originale della speculazione gregoriana e si fonda sulla  parallela e altrettanto originale intuizione dell’unità di Dio.  Dio è l’infinito, per questo l’uomo può progredire nella conoscenza e nell’esperienza di Lui, non può esaurirla, e perciò è destinato a progredire in essa  senza fine.  Afferma Gregorio:

“Forse infatti proprio l’essere disposto a voler sempre aumentare la nostra partecipazione al bene, rappresenta la perfezione della natura umana” [17]

Qui il Nisseno supera il concetto origeniano di sazietà (kòros) infatti se l’animo non raggiunge mai la sazietà (ivi Il, 232) non potrà smettere di tendere a Dio. In questo progresso senza fine il punto più importante è l’incontro dell’uomo con Dio. Questo contatto costituisce il momento più alto della vita spirituale. Il pensiero dei padri del IV secolo segna una tappa decisiva di trasformazione in senso cristiano dell’ellenismo  alessandrino i Clemente e Origene.

In campo dogmatico nella ‘Trinità’ non vi è più    posto per un Dio monade semplice, sostanza intellegibile, sorgente dell’essere spirituale. L’influenza di Gregorio di Nissa nella spiritualità fu fortissimo.

E’ importante dire qualcosa anche su Evagrio Pontico (345-399) accennando quali sono le novità in campo gnoseologico che ha apportato, e di cui Dionigi si è servito. Evagrio conobbe i tre cappadoci ma si formò leggendo Origene. Egli lasciò molti scritti, creò la forma letteraria delle “centurie”; esse sono concetti espressi in forma concisa e chiara, consigli di ordine mistico e ascetico. Ma è con lui che l’intellettualismo di Origene superato a livello dogmatico entra in quello della spiritualità, arricchendo la vita cristiana, ma portando anche molte problematiche. Il Pontico sottolinea le tre tappe della vita cristiana fissate da Origene: la lotta per l’ apatheia, la gnosi della natura sensibile e intellegibile; la teologia, gnosi della natura divina in Origene, è contemplazione della trinità in Evagrio. [18] L’amore vero, per il Pontico, è quello rivolto alla vera conoscenza. [19] Questa definizione dell’amore è segnata da un forte accento intellettualistico: l’amore perfetto che non passa, è l’amore alla gnosi divina. Nel Corpus si afferma il contrario; è la conoscenza che porta al vero Amore che  santifica con Dio. Per Evagrio la vera gnosi è quella trinitaria, essa è superiore. Egli afferma:

“Vi sono cinque gnosi fondamentali che comprendono tutte le altre: la prima è, si dice, la gnosi dell’adorabile Trinità; la seconda e la terza sono la gnosi degli esseri incorporei; la quarta e la quinta la gnosi del giudizio e la gnosi della provvidenza.” [20]

Questa gnosi superiore ha una peculiarità che viene espressa con queste parole: “Beato colui che è arrivato all’ignoranza infinita.”[21]Tale è l’originalità di Evagrio, l’ignoranza infinita, tema molto caro all’Areopagita (DN VII 3,872 A) è un termine tecnico creato proprio dal Pontico:

“Dio non può essere capito dalla mente umana. Che se viene compreso quel che ha visto non è Dio.”[22] Dionigi nella prima epistola afferma la medesima cosa, riportando quasi le stesse parole dice:

“Se uno, avendo visto Dio, ha capito ciò che ha visto, non ha visto Dio, ma qualcosa. delle sue opere che esistono e che si conoscono” (Ep I,1065 A) Evagrio nello stesso momento aggiunge che il nous con la preghiera diventa dimora di Dio[23].

Quando l’anima ha raggiunto la pace cioè l’apatheia, allora diventa dimora di Dio. Qui si fa presente l’influsso di Origene, per Evagrio la visione di Dio si confonde con la visione che il nous ha di se stesso:

“Il nous – privo di ciò che non è la sua santità originale – è quello che nella visione di se stesso è unito alla gnosi della Trinità.”[24]

Secondo l’idea di Evagrio il nous diviene quello che conosce: carne quando si lascia assorbire dalla pathe’, Dio quando lo riceve. “Quando il nous riceve la gnosi essenziale, allora chiamato Dio, come essendo giunto alla piena immagine del suo creatore.”[25] Qui in Dionigi si nota un netto divario, una opposizione a questa concezione che si allontana troppo dalla rivelazione cristiana. Evagrio insistendo sulla semplicità di Dio che nulla saprebbe dividere o moltiplicare, distingue due contemplazioni, una del regno  Cristo che dirige tutti gli esseri materiali, la seconda quella del regno del Padre che si potrebbe chiamare la contemplazione della divinità stessa. Qui si ha un superamento dell’umanità di Cristo nella gnosi superiore, queste affermazioni hanno fatto mettere indubbio il carattere cristiano della mistica di Evagrio: essa è più filosofica che teologica perché per conoscere Dio l’uomo non passa più per Cristo unico rivelatore del Padre, ma per contatto diretto con la divinità.

L’opera evagriana ha esercitato un’influenza determinante sull’ spiritualità cristiana, non solo per le sue originali intuizioni e sintesi, ma anche per tutti i suoi equivoci e le sue insufficienze sul piano teologico. Fu irresistibile e fortissimo il suo influsso sul monachesimo: i suoi discepoli sono Palladio, Giovanni Climacco e anche forti personalità come S. Massimo. Anche in Cassiano, e per mezzo di lui, eserciterà una simile influenza sul monachesimo latino. Lo pseudo-Dionigi sembra che abbia attinto non poco dal pensiero evagriano, ma  nel Corpus si nota un trasfigurazione di queste idee.

IL PENSIERO DI DIONIGI

  1. LA CONOSCENZA DIVINA E ANGELICA

  1. Come Dio conosce il mondo

 

Come Dio conosce il mondo? Non si può negare che Dio abbia una certa conoscenza di tutto, nulla a Lui sfugge. In che modo Dio conosce il mondo? L’Areopagita dice che la nostra conoscenza e differente da quella di Dio perché Egli conosce le cose indipendentemente dalla loro esistenza. Dio conosce le cose prima della loro creazione, perciò nell’atto stesso in cui conosce se stesso. Le cose sono in Lui idee esemplari.

“L’intelligenza divina non conosce le cose che sono, apprendendole dalle cose che sono; ma da sé e in sé secondo la causa, essa ha e comprende antecedentemente la scienza, la nozione e la sostanza … sapendo e contenendo tutto secondo il solo contenuto della causa” (DN VII 2,869 B)

E più avanti:

“Egli conoscerà ogni cosa secondo questa causa unica, in quanto le cose esistono da lui e in lui sussistevano in precedenza e non dagli esseri egli riceverà la loro cognizione, ma sarà elargitore a ciascuno della propria conoscenza dunque Dio conosce le cose che sono non con la scienza delle cose, ma con la conoscenza di sé“.(DN VII 2,869 C)

  1. La conoscenza angelica.

 

La differenza essenziale tra gli uomini e gli angeli in ordine alla conoscenza d Dio sta in questo: gli angeli vedono Dio direttamente, mentre gli uomini lo vedono nella varietà dei simboli, perché sono composti da materia e spirito.

“I santi angeli hanno la proprietà di infiammare e di trasmettere, effondendola, la sapienza teandrica, e la possibilità di capire la scienza altissima delle illuminazioni divine e quella proprietà che è dei Troni, e che significa attitudine aperta alle ricezioni del Divino.”(CH XIII 3,304 A)

Solo ora possiamo capire l’importanza degli angeli per una conoscenza di Dio. Dato che gli angeli sono quelli che per primi hanno l’illuminazione e tramite loro noi riceviamo le comunicazioni e le manifestazioni superiori, essi hanno una funzione rivelatrice a tutti i livelli (CH IV 2,108 B – X 2,273 A – XIII 4,305 A – IX 4,261 C;EH V 2,501 B).

Gli angeli, come afferma Dionigi, ci hanno dato la scrittura, la legge, hanno guidato i sacri autori nella scrittura e nella profezia, manifestando, in visioni occulte, i misteri sopramondani (CH IV 2,180 D). Questo tema è molto diffuso sia nell’AT che nel NT (vedi Gal 3,19; At 7,53; Eb 2,2; ecc.). L’Areopagita non si discosta dalla visuale biblica.

“Quei nostri grandiosi Padri venivano iniziati a queste divine visioni per la mediazione di queste potenze celesti.” (CH IV 3,180 C)

Gli angeli sono i nostri mediatori sia nell’ordine della conoscenza di Dio sia nell’ordine della partecipazione alla natura di Dio, perciò all’unione con Lui che è per l’autore la vera divinizzazione. (CH 1V 3,181 A; DN I 5,593iB) Essi furono i primi a conoscere il mistero del Verbo incarnato e questa loro conoscenza successivamente passò a noi.(CH IV 4,181 B; vedi l’annunciazione a Zaccaria ed a Maria Lc 1,11-17; 1,26-38; a Giuseppe Mt 1,20-21 e infine ai pastori Lc 2,8-14)

Anche gli angeli conoscono Dio, per quanto loro è concesso, perciò sempre parzialmente. (EH I 2,373 B) Infatti il nome dei cherubini ( che sono al secondo posto della gerarchia angelica) per  Dionigi significa attitudine a conoscere e a contemplare Dio (CH VI 1,205 a). Queste intelligenze divine si muovono in maniera circolare attorno al Bello e al Buono, incessantemente; questo li fa pronti alle illuminazioni che vengono dal Buono e dal Bello, a qualsiasi rivelazione che viene dall’alto.(DN IV 8,704 D) La conoscenza di questi esseri e’ perfetta, non perché illuminata da un sapere capace di spiegare punto per punto la varietà delle cose sacre, ma perché sono riempiti da Dio di una deificazione originale ed eccellente.(CH VII 2,208 C)

Secondo la gerarchia i diversi tipi di sostanze celesti si comunicano le conoscenze teologiche (CH x 2,273 B).

“Difatti i cherubini partecipano ad una sapienza e conoscenza più elevata, mentre le sostanze inferiori partecipano si a una sapienza e di una conoscenza, ma parziale, adatta a loro e di ordine inferiore…anche se la conoscenza e la sapienza è partecipata universalmente ed è comune a tutti gli esseri intelligenti deificati, ma non è cosa comune parteciparvi continuamente e come i primi.” (CH XXII 2,292 D)

Perciò gli angeli conoscono per primi Dio e cosi viene rispettato il principio gerarchico che regola l’universo dionisiano. Gli spiriti celesti della prima triade dopo Dio sono il principio di ogni sacra conoscenza, e di imitazione in quanto illuminazione teandrica si distribuisce attraverso di essi a tutti gli ordini.(CH XIII 3,301 a)

Solo ora riusciamo a capire che la conoscenza di Dio segue sempre il principio gerarchico dell’ordine. La prima gerarchia, serafini, cherubini e troni, gode di una conoscenza di Dio grande quanto è grande la sua comunione con il Mistero trinitario. Dato che essi partecipano alla conoscenza primordiale, il metro della conoscenza di Dio non è altro che l’unione di comunione, più essa è intensa più grande è la gnosi. (CH VII 3,209 D – 4,212 A)

Ora, per ultimo, bisogna vedere come gli angeli conoscono le cose. Essi colgono la realtà in un atto intellettuale ‚ uniforme, che non ha nulla a che fare con la frammentaria conoscenza legata alla materia e al divenire. Gli angeli conoscono gli uomini, e gli avvenimenti con lo stesso atto intellettuale in cui conoscono Dio.(DN VII 2,305 – 8)

Nella conoscenza dell’angelo c’è perfetta unione tra soggetto intelligente, atto intellettivo ed oggetto conosciuto

  1. LA SACRA SCRITTURA FONTE  DELLA CONOSCENZA DI DIO

“A dunque, in nessun modo si deve osare, dire o pensare alcunché intorno alla Divinità soprasostaniziale e occulta tranne ciò che è stato rivelata noi divinamente dai detti sacri” (DN I 1,988A cf. DN I 2,588c quasi le stesse parole).

Questa è l’affermazione fondamentale: non si può conoscere Dio, né si può pensare qualcosa di Lui, se non quello che ci dicono le S. Scritture. L’uomo naturalmente è nell’impossibilità di conoscere questa Divinità soprasostanziale, perché essa e occulta ed è situata al di là della ragione. All’inizio del commento ai nomi divini Dionigi specifica il modo per una corretta conoscenza di Dio. La rivelazione come manifestazione di Dio e come unica vera conoscenza di lui è un dono, non un diritto dell’uomo: essa è una grazia misteriosa che viene dall’alto, che va al di là di ogni parola umana, essa è “Parola inesprimibile” (DN I l,588B).

Al di là della scrittura la conoscenza di Dio è inaccessibile all’uomo, in quanto solo nelle Scritture occulte i misteri semplici e occulti sono svelati (MT l,997B): questa è la vera gnosi a cui sono iniziati i cristiani nel battesimo e che avrà il suo compimento quando diventeremo incorruttibili e immortali (DN I 4,592B). Queste scritture occulte sono l’Antico testamento e il Nuovo testamento considerati il primo come annuncio e figura e il secondo come attuazione e presenza reale.

In effetti   il   Nuovo patto compie il Vecchio, e con l’evento Cristo si ha la vera e perfetta conoscenza di Dio (I Gv. 5,20). La vita eterna diventa un rapporto di conoscenza: “Questa è la vita eterna, che conoscano te, l’unico vero Dio, è colui che ha mandato Gesù Cristo. (Gv. 17,3)

Anche Dionigi afferma che solo con l’incarnazione del Figlio è consentito a noi di risalire alla conoscenza del Padre, proprio in forza della visibilità e umanità di Cristo, l’uomo riesce a conoscere, secondo le proprie capacità, e ad amare il vero Dio:

“Allora, dopo aver invocato Gesù luce paterna che, illumina ciascun uomo che viene in questo mondo, ad opera del quale noi abbiamo ottenuto l’accesso al Padre , principio della luce”. (CH I 2,l2lA)

Solo il Cristo è la perfetta immagine del Padre dei cieli solo invocando Gesù l’uomo può conoscere Dio come Padre e può entrare in comunione con Lui, non c’è altra via o altro modo. Il Figlio eterno, prendendo la carne, è diventato l’ ultimo il perfetto segno della teofania divina. I due testamenti sono stati creati da una concorde ispirazione dello Spirito Santo (EH III 3,5; 432 A-B); proprio dall’origine divina, deriva il carattere misterioso della Scrittura.

La Sacra Scrittura è chiamata da Dionigi sapientissima e veracissima, in essa le cose divine si rivelano e si mostrano secondo la misura dell’intelligenza di ciascuno (DN I l,58A). La S. Scrittura da all’uomo la possibilità di arrivare alla conoscenza di Dio. La Rivelazione è la manifestazione amorosa del piano salvifico di Dio. In questo contesto la bibbia è il libro per eccellenza della gnosi cristiana, essa narra la storia dell’incontro dell’uomo con Dio. Nella storia della salvezza Dio si è manifestato all’uomo attraverso segni sensibili perché egli possa comprendere qualcosa del suo mistero insondabile.

Gli Autori sacri (i veri teologi secondo Dionigi) possono parlare di Dio non perché hanno una sapienza umana ma perché sono mossi dallo Spirito Divino (DN I l,585B). essi sotto ispirazione divina trasmettono ai fedeli nei libri sacri o detti divini cose ineffabili ed ignote all’intelligenza (DN I l,58B). Questi detti sacri sono visti da Dionigi come dei Raggi che vengono a noi, ci inondano di luce e ci introducono alle lodi sante (DN I 3,589B).

La retta conoscenza di Dio avviene solo con una indagine scientifica sulle scritture, con un esercizio  ed una pratica su di esse che si protrae nel tempo, oppure per divina ispirazione, dopo aver imparato non solo intellettualmente, ma anche sperimentato le cose divine (DN Il 9,648B). La meditazione e la penetrazione della storia sacra nella Scrittura  per l’uomo immensa fonte di gnosi. Come nella bibbia così nel Corpus la conoscenza non si svolge solo in un contesto di scienza, ma in un contesto essenzialmente religioso che coinvolge non solo l’intelligenza dell’individuo, ma tutta la sua persona, specialmente volontà ed affetti.

3) LA CONOSCENZA UMANA DI DIO

  1. Il limite e la capacità della conoscenza umana

 

“Dio è la Causa di tutti gli esseri, senza che egli sia nessuno di questi per il fatto che è separato da tutti in modo soprasostaniziale”(DN I 5,93e).

In campo gnoseologico e teologico bisogna sempre salvare la trascendenza di Dio che è a fondamento della sua realtà. Il Mistero come verità di Dio, dà all’uomo  la possibilità di evitare un errore molto frequente nella grecità pagan­­­a: il panteismo. Dio, pur essendo dappertutto, non è in nessun luogo egli è al di sopra di tutte le cose, pur essendo il Creatore. Solo così riusciamo rettamente a parlare ai Dio e a salvaguardare la sua peculiarità. Questa è una regola metodologica della teologia dionisiana: è la grandezza e la miseria della conoscenza dell’uomo (DN I 6-7,596 C). Il  limite è categoria fondamentale per una esatta conoscenza di Dio; infatti Dionigi afferma:

‘Noi abbiamo coscienza di sapere che non riusciamo a coglierne sufficientemente le cose relative a Dio, né ad esprimere e a dire quello che si può dire della conoscenza divina….”(DN III 3,684 B; DN XIII 3,981 A).

La spiegazione dei nomi divini è fatta con un procedimento affermativo e negativo nello stesso tempo. Questa dialettica sarà superata nella teologia mistica, perché Dio è al di sopra di ogni affermazione e negazione (DN lI4,641 A;  V 1048 A-B).

Anche a livello di creazione non vi e perfetta somiglianza tra causa suprema e cose create, le cose causate recano in sé le immagini ricevute dalla Causa, rimangono staccate dagli effetti (DN Il 8-9, 64 D). Di Dio tutto si può dire, però egli non si identifica con nessuna di tutte le cose che sono. Infatti:

“Ha ogni figura e ogni forma, Egli che è oltre le forme e la bellezza, ha precedentemente in sé i principi, i mezzi, i fini delle cose che sono     ” (DN V 8,824 B). Ne c’ è alcuna delle cose che si conoscono, che spieghi il mistero che trascende ogni ragionamento ed ogni intelligenza”. Dio, dice Dionigi, abita nella divina caligine e in una luce inaccessibile. Questa luce o tanto luminosa che per noi diventa oscurità. In effetti la nostra intelligenza, pur essendo un grande dono di Dio, è limitata rispetto a questa immensità (EP v 1073 A; MT I 1,997 B-3,1000 C-1001 A ). Come quando noi fissiamo il sole, la luce ci abbaglia e non vediamo più niente, così è nei confronti di Dio.

Questo e anche il pensiero del profeta Isaia quando dice che il nostro Dio è un  Dio nascosto e che si nasconde (Is 45,l.7; 42,26; anche altri testi scritturatici Es 20,21; Dt 4,11; 5,22; 2 Sam 22,10; Sal 97,2 imp; Gb 22,13; Sir 45,5 ) Dionigi si inserisce perfettamente nel filone biblico . L’unica via adatta per accostarsi al mistero è l’analogia; che salvaguarda nello stesso tempo la presenza creatrice e sostentatrice nel mondo e la trascendenza divina (DN v 10,825 B). Solo mediante questa cognizione analogica è possibile che ci eleviamo verso la causa di tutte le cose (DN V 9,825 A) . La frase seguente ci illuminerà sul problema:

Tutte le cose tendono a Lui” (DN IV 4,657 I)). Dio come fonte di Bontà (agathos) e bellezza (kallos) cercato da tutte le creature. Egli e causa esemplare, efficiente e finale di tutte le cose belle e tutte le cose tendono a Lui, ciascuna secondo il modo che le è proprio. Dio è il Bene sostanziale; da esso deriva tutto ciò che esiste e tutto tende verso questa Bontà; solo così le cose raggiungeranno lo stato di perfezione “(DN IV l,694A-2,696 D).

Tutti tendono a Lui gli angeli, con la loro conoscenza intuitiva rappresentata dal moto circolare, gli uomini con i sensi e la ragione attraverso un processo di unificazione e anche gli esseri infraumani nel loro modo (DN IV 2,696 D).

Anche ciò che è privo di essere tende verso la Bontà (DN IV 3,697 A).

Alla base della conoscenza di Dio c’è questa tensione o desiderio naturale mai appagato di possederlo. L’uomo, come natura razionale, ha questa predisposizione gratuita creaturale che Dio ha messo in lui; qui si delinea una scienza naturale di Dio che sarà poi appagata dalla totale novità della rivelazione soprannaturale (DN IV 4,700 B imp. ). Questa è la capacità, la grandezza della nostra conoscenza.

  1. Contesto liturgico

L’autore concepisce la sua opera come una celebrazione liturgica e non esclusivamente come un ragionamento; questo aspetto è molto affascinante, è qualcosa che i teologi occidentali devono urgentemente recuperare.

Il senso sacro e liturgico della teologia (perciò della conoscenza di Dio) è importantissimo. Questa concezione si riallaccia in particolare al contesto dei padri cappadoci; in Dionigi si sviluppa in un modo meraviglioso e diventa un primato. (DN Il 2,636 C) Se si legge attentamente il suo discorso sui nomi divini, ci si accorge che esso e una celebrazione. L’autore non solo si preoccupa di far capire, ma egli ci immette alla presenza sacra di questo Dio trascendente e misterioso. (DN V 2)

E’ tutta la vita del teologo che deve essere trasformata da Dio, non solo la mente, tutta l’esistenza va vissuta alla presenza di questo mistero insondabile d’Amore. Lo studio intellettuale non sarà altro che un approfondire qualcosa che si ama, qualcosa a cui si è già uniti: il Dio Vivente. La preghiera è un mezzo efficacissimo per una maggior conoscenza di Dio, essa ci eleva avvicinandoci sempre più alla Trinità.

“Invocando la Trinità fonte di ogni bene e al di sopra dello stesso Bene…occorre che con la preghiera ci eleviamo a Lei, siamo istruiti proprio in questo atto…quando noi la invochiamo con santissime preghiere, con intelligenza limpida e con attitudine all’unione divina, allora anche noi siamo presenti a Lei.” (DN III 1,680 B) Solo con la preghiera e con l’invocazione l’intelligenza viene innalzata e istruita sempre più dal Bene a cui si è profondamente uniti. “prima di tutto, ed in particolare prima di parlare di Dio è necessario cominciare con la preghiera…affinché con il ricordo e le invocazioni possiamo metterci nelle sue mani e unirci a Lui.11 (DN III 1,680 D)

Quando preghiamo siamo nelle mani di Dio, qui sta il fondamento di ogni vera gnosi; in effetti l’unione con Dio vale molto di più del freddo raziocinio. Una cosa è parlare del sole e altra cosa è stare al sole e sentire i raggi che ci accarezzano e il calore che ci avvolge.

  1. I tre stadi della conoscenza di Dio

“Ora dunque per quanto a noi è possibile, usiamo simboli appropriati alle cose divine e da questi tendiamo, secondo le nostre capacità, verso la semplice ed unitaria verità della contemplazione intelligibile, e dopo, facendo cessare le attività intellettuali ci slanciamo, per quanto è possibile, verso il soprasostanziale nel quale tutti i limiti di tutte le cognizioni preesistono in modo più che ineffabile.”(DN I 4,592 C)

In Dionigi le diverse forme di conoscenza di Dio hanno l’intento di far giungere l’uomo alla perfetta comunione con Dio, L’oggetto di questa conoscenza è Dio.

Questi diversi gradi di gnosi hanno la loro origine nella condizione storica dell’uomo, sottoposto in ogni situazione a categorie spazio temporali. La realtà mondana a cui l’uomo e soggetto lo costringe a salire piano piano questi stadi per arrivare alla piena conoscenza divina.

Nel Corpus dionisiano si possono ritrovare tre stadi di conoscenza di Dio per l’Homo viator:

I – Conoscenza simbolica, attraverso le realtà sensi

Il  – Conoscenza intellettuale, astraendo dalle cose sensibili.

III – Conoscenza mistica dell’attività intellettiva, unione con Dio.

Cercheremo di approfondire queste diverse conoscenze. Prima di considerare quali sono le peculiarità di ogni stadio, affermeremo con Dionigi che ogni conoscenza è possibile grazie al concetto di partecipazione “Tutte le cose divine e quante si sono rese manifeste si conoscono solo per partecipazione, ma quali siano nel proprio principio e nella propria sede è cosa che per la nostra intelligenza e ogni sostanza e scienza.” (DN Il 7,645 A) Dio si comunica e si fa conoscere nelle sue manifestazioni ad extra, ma resta inconoscibile nella sua natura. Egli si fa conoscere mediante la partecipazione alle sue energie. Le dynamis sono Dio ma fuori dalla sua essenza. E’ la distinzione fondamentale di S. Basilio tra ousia radicalmente trascendente e le energie manifestatrici immanenti. (DN Il 11,65) Dionigi tale distinzione costituisce il perno di tutto il suo pensiero teologico.

I Stadio- La conoscenza simbolica

La teologia simbolica è un’opera di Dionigi che a noi non è pervenuta. Il trattato spiega quei simboli attribuiti a Dio dalla S. Scrittura che creano più difficoltà a chi li ascolta senza fede. (Ep.IX 1,1104 B)

Infatti queste anime imperfette, come le chiama Dionigi, considerano un’assurdità che Dio manifesti i suoi misteri divini anche attraverso segni sensibili. Con questo discorso stiamo entrando nella problematica della conoscenza simbolica di Dio. Negli scritti areopagitici vi sono sufficienti riferimenti espliciti o impliciti a questo tema. renderemo in considerazione in articolare la lettera IX, poiché essa contiene in sintesi tutte le idee del trattato sulla teologia simbolica. Questa lettera vuole spiegare alcune figure con cui S. Scrittura rappresenta Dio simbolicamente e come la conoscenza di Dio si serve dei simboli per arrivare a cogliere qualcosa di Lui. (Ep.IX 1,1104 C). Dionigi vuole chiarire perché la scrittura attribuisce a Dio figure di uomini (Dn 7,10), di bestie selvagge (Nm 24,9), di pietre (Ez 10,1); a volte lo chiama vasaio (Ger 18,1-6) o fonditore (Sal 66,10), o gli attribuisce delle passioni umane come nel Cantico dei Cantici. L’autore spiega che questi simboli sono delle coperture che salvaguardano una scienza segreta e inaccessibile ai più, affinché le cose santissime non siano profanate dai non iniziati. Queste figure rappresentative rivelano la Verità solo ai sinceri amatori della santità.

Solo questi ultimi sanno che bisogna spogliarsi di ogni immaginazione puerile, per penetrare con semplicità di mente in questi simboli e arrivare alla vera conoscenza della Verità che è al di sopra di questi. (Ep. IX 1,1105C ) Tale conoscenza simbolica è possibile perché corrisponde ad una delle due tradizioni che i sacri autori ci hanno trasmesso.

Vediamo cosa ci dice Dionigi sulle due tradizioni:

“Una è segreta e occulta, l’altra è chiara e più conoscibile; l’una si serve di simboli e riguarda i misteri, l’altra è filosofica e dimostrativa. Ciò che non si può dire si incrocia con ciò che si può dire; l’una persuade e conferma la Verità mediante insegnamenti misteriosi e che non si possono insegnare.” (Ep.IX 1,1105 D)

E’ molto importante questo brano; esso ci fa percepire che anche il primo stadio della conoscenza umana deve essere inserito nella realtà della rivelazione. Infatti alla fonte dei sacri autori c’è l’intenzione di Dio; perciò il simbolo come manifestazione del mistero diventa un dono della Bontà divina per gli uomini. (DN I 4,592)

La conoscenza simbolica si inserisce in quel meraviglioso piano salvifico di Dio; essa esprime la sua volontà. Dionigi dice per fondare la sua  tesi che Gesù parlava di Dio in parabole e ci dona i misteri divini sotto figura di cena. (Ep.IX 1,1106) Il motivo profondo per cui Dio ha voluto usare questa via, per farsi conoscere all’uomo, è la povertà della vita umana che è immersa nel mondo. L’uomo, per intuire qualcosa delle realtà spirituali, deve usare la sensibilità.

Una rivelazione che riguardi l’uomo lo deve cogliere nei suoi due piani esistenziali, quello corporale e quello spirituale uno divisibile e l’altro indivisibile.

Dice l’Areopagita;

“Così la parte impassibile dell’anima pare destinata agli spettacoli divini semplici e interiori delle immagini che rappresentano Dio, mentre la parte passibile di questa stessa anima, in modo conforme  alla  sua natura, viene educata. e tende verso le cose più divine attraverso le finzioni, ben combinate in precedenza, dei simboli figurativi; difatti questi veli le convengono propriamente.” (Ep.IX!;1;1108 B)

Anche nei riti dei santi misteri i sacri autori han­no usato dei simboli che convengono a Dio. (Ep.IX 1,1105 A)

Tutto quello che abbiamo detto fino ad ora deve essere completato da una idea di origine biblica che è il con­cetto di Creazione. Dionigi si serve di questo concetto per dare il vero fondamento a tutto il discorso sul simbolo. Il mondo, proprio perché creatura. di Dio, esprime in un certo modo il suo artefice.

“E  la stessa macchina del mondo sensibile è come un velo gettato sulle proprietà invisibili di Dio, come diceva  S. Paolo è la Parola vera.” (Ep.IX 2,ll08B).

Qui l’Areopagita riprende un tema Paolino che è la  rivelazione naturale di Dio nel cosmo. (Rom 1,20) Proprio l’origine divina della creazione fa si che, per mezzo dei simboli naturali, l’uomo colga dietro queste figure le qualità divine. I simboli sono come dei germi, delle immagini sensibili di visioni soprannaturali.(Ep. IX 2,1108 C) Ora bisogna fare un’altra chiarificazione: può succedere, dice Dionigi, che la stessa immagine figurativa venga applicata a diverse realtà spirituali: agli angeli, alle intelligenze e a Dio. Un esempio: la rappresentazione di Dio come fuoco ha un senso quando viene attribuita Dio ed un altro quando si applica agli angeli. Perciò, nella conoscenza simbolica, non bisogna confondere i sacri simboli, ma spiegarli in modo conveniente. Per questa operazione è richiesta una acutezza, una profondità di spirito e un discernimento non comuni. C’è un immagine molto bella alla fine della lettera IX ; è come il sigillo di chiusura, la perla più preziosa, l’interpretazione più genuinamente cristiana che sta alla base del pensiero teologico dell’Areopagita; essa cerca da far capire la condizione escatologica dell’uomo redento.

Dice così:

“E noi crediamo che la tavola è la fine di molte fatiche e una vita priva di dolori e un’ esistenza divina nella luce e nella regione dei viventi, un’esistenza riempita di santa gioia, e che essi ricevono una donazione abbondante di beni di ogni sorta e beati, trovandovi ogni tipo di piacere; e essa che fa la loro gioia, li fa sedere e li serve, da eterno riposo e distribuisce e vera la pienezza di beni” (Ep.IX 5,1113 A).

L’interpretazione simbolica  che Dionigi dà del regno di Dio prende spunto dalla metafora scritturistica della tavola imbandita dalla sapienza. Il banchetto è figura del paradiso.

Leggendo questo brano ci si accorge che l’influsso filosofico neoplatonico sulla sua escatologia è nullo. Così si coglie il carattere cristiano del pensiero dell’Areopagita. In effetti la vita eterna e considerata come beatitudine, come comunione con ”Gesù Cristo, che da gioia eterna ai salvati”. Tale simbolismo e preso propriamente da una matrice cristiana, e non dai vari culti misterici pieni di miti per quanto riguardano la salvezza dell’uomo. L’eternità sarà un rapporto di amore con il figlio di Dio incarnato, che ci farà partecipi sempre più della sua divinità.

Con questo, l’intento di Dionigi si è realizzato: il  simbolo ci fa capire il mistero.

II STADIO – La conoscenza intellettuale.

 

Il simbolo in certe situazioni è inadeguato; esso espresso nel Corpus dialetticamente come una “dissimile somiglianza” (CH Il 5,1446). In effetti la conoscenza simbolica di Dio ha dei limiti; non possiamo attaccarci alle rappresentazioni sensibili; si può correre il rischio del materialismo e dell’idolatria. Uno dei compiti essenziali della conoscenza  di risalire dalle raffigurazioni materiali alle realtà intellegibili e sante che queste rappresentano. La conoscenza intellettuale si pone in questa dimensione. Il trattato sui Nomi Divini è l’opera che è considerata la più importante tra quelle dionisiane dal punto di vista speculativo: si interessa di spiegare i nomi intellegibili di Dio. Questo tipo di conoscenza parte sempre dal sensibile e dalla realtà rivelata, ma passa attraverso la mediazione del concetto. Invece la conoscenza simbolica è immaginata da Dionigi come un movimento rettilineo dell’anima, che va direttamente dalle realtà create ai misteri nascosti (DN I 8,597 A-B).

La conoscenza intellettuale è concepita come un movimento elicoidale dell’anima; essa parte sempre dalle cose create ma, contrariamente al simbolismo che ci fa percepire un’immagine dell’intelligibile, essa si sforza grazie ad un processo logico, di comprendere dapprima la realtà attraverso un movimento ascensionale ed arrivare ai nomi intellegibili di Dio.

La conoscenza intellettuale passa dalla sensazione al concetto poi, attraverso il suo superamento, arriva alla sua sorgente. Questa conoscenza si acquisisce attraverso atti complessi e progressivi, cioè con un metodo speculativo, discorsivo e dialettico. Si nota che nel pensiero dell’Areopagita non vi e’ diretta opposizione tra le prime due conoscenze, ma un perfetto completamento. Una non può fare a meno dell’altra, esse non si escludono a vicenda. La conoscenza intellettuale comprende, implica ed esplica la conoscenza simbolica: sono diversi gradi della stessa conoscenza umana. Dice Dionigi nel prologo dei Nomi Divini:

“Veniamo alla spiegazione dei nomi divini intellegibili, e come la legge gerarchica prescrive a noi per ogni disputa, guardiamo con intelligenza spirituale, contemplativa del Divino, per usare un linguaggio preciso, le visioni quali Dio si manifesta e prestiamo orecchie sante alle spiegazioni dei sacri nomi divini, per trasmettere le cose sante ai santi secondo la divina tradizione”. (DN. I 8,597 B)

Qui viene spiegato cosa l’autore intende per conoscenza intellettuale di Dio, essa si stacca dalla realtà materiale, per fissarsi nella realtà spirituale propria di Dio; così arriva alla vera contemplazione della Divinità. Il fine del secondo stadio della gnosi è la contemplazione. In questo brano ritorna come un leitmotiv l’idea che sia i nomi divini che la loro spiegazione sono stati trasmessi dalla divina tradizione, cioè dalla S. Scrittura e dalla Tradizione apostolica. Nel trattato dei Nomi Divini, Dionigi vuol fare una sintesi fra l’intelligenza che la S. Scrittura ha degli attributi di Dio e un razionalismo che viene dall’ambiente neoplatonico. Questo intellettualismo era espresso in particolare dal commento che questi facevano al “Parmenide” di Platone, che a quel tempo era considerato il libro di “Teologia” per eccellenza.

In questo scritto si cerca la soluzione dei problemi tra l’Uno e il molteplice, basandosi su speculazioni filosofiche e L’Areopagita vuole fondere la verità che c’è in quella filosofia con le concezioni che la Chiesa ha di Dio. Ad esempio l’idea che Dio è Trinità, la realtà dell’incarnazione del Figlio, la dialettica tra l’immanenza e trascendenza di Dio. In effetti il cristianesimo introduce, rispetto alla filosofia greca una nuova visione di Dio e una nuova visione dei rapporti tra Dio e il mondo. Nella conoscenza intellettuale di Dio, l’Areopagita vuole usufruire della tecnica speculativa neoplatonica, per riempirla di contenuti che vengono dalla Rivelazione.

Il trattato dei Nomi Divini parla della causalità divina, e come essa può essere considerata nelle sue forme più generali. Gli altri nomi sono ricavati dalle realtà particolari, e sono trattati nella Teologia simbolica. I nomi intellegibili ricavati dalla S. Scrittura debbono essere rettamente intesi. Anche per la conoscenza intellettuale  vero il principio che, nella spiegazione del nome intelligibile, non si deve pretendere ai arrivare all’essenza divina, che è per natura inaccessibile ad ogni intelligenza creata. Nella conoscenza intellettuale, il nome perfettamente conoscibile che si trova al primo posto è il Bene (ed altri nomi ad esso collegati: Luce, Bellezza, Amore), in quanto la bontà è la ragione ultima dell’opera creatrice di Dio (DN IV). Poi vengono subito dopo quei nomi che indicano le manifestazioni più generali del Bene: l’Essere, la Vita, la Sapienza o Ragione (DN V – VII). Poi si esaminano i nomi ai Dio che esprimono l’unificazione dell’universo in Lui: la Pace e l’Uno unificano e riconducono l’universo all’unità (DN XI – XIII). Accanto ai nomi che indicano l’opera creatrice di Dio, ci sono nomi che indicano la vita intima (Padre, Figlio,Spirito), e che non hanno nulla a che fare con la creazione; non bisogna fare confusioni tra questi due gruppi.

I nomi intellegibili che spiegano i rapporti tra Dio e il mondo sono anche delle categorie universali; però con i nomi divini non si conosce Dio, che rimane nascosto nel suo mistero. I nomi riguardano la sfera dell’essere e dell’intelligenza, mentre Dio è al di là dell’essere e dell’intelligenza, per cui alla fine nessun nome lo può esprimere in se stesso.

Data l’incapacità della conoscenza intellettuale, bisogna ora passare al terzo stadio della gnosi dionisiana, che forse ci permetterà di cogliere Dio nel suo profondo mistero.

III STADIO   La Conoscenza mistica.

 

Dionigi spiega che cos’è la conoscenza mistica in un piccolo trattato: De Mystica Theologia. Il trattatello, che è stato oggetto di tanti commenti nella storia della teologia occidentale, descrive l’itinerario verso l’unione con Dio. Proprio per questo scritto S.Bonaventura definì l’Areopagita il maestro della mistica.[26]  Nel primo capitolo si parla del significato di questa conoscenza. Dopo una preghiera alla Santissima Trinità si afferma:

“Conduci noi direttamente verso il vertice superinconoscibile e splendidissimo delle Scritture occulte, là dove i misteri semplici e assoluti e immutabili della teologia sono svelati nella caligine luminosissima del silenzio che insegna arcanamente (MT I 1,997 A).

Alla luce di questo brano, parleremo inizialmente della conoscenza mistica in generale, per poi specificare qual è la sua vera natura, considerando l’idea di estasi, di Ignoranza assoluta, di Tenebra divina, per arrivare alla conoscenza mistica di Dio bisogna staccarsi da ogni rappresentazione sensibile o intelligibile di Dio (MT I 997B).

Partendo dalla rivelazione che Dio dà nella S. Scrittura, unirsi a Dio significa entrare nel segreto delle Scritture occulte. Per arrivare a questo, ci vuole l’aiuto della Trinità, perciò la si invoca nella preghiera. La conoscenza mistica perciò è sempre un dono che viene dall’alto, e che passa per la scrittura. Dionigi chiede di riconoscere l’inadeguatezza di tutti i nomi divini contenuti nella Scrittura, per slanciarsi nell’unione (MT III  1032 D – 1033 B-C).  Questa unione viene descritta sulla linea della salita di Mosè al Sinai e del suo incontro con Dio nella caligine (MT 3,1001 A). Tale conoscenza mistica non coglie Dio, non è Dio che Mosè contempla nella sua unione, perché egli sfugge ad ogni contemplazione intelligibile. Mosè vede il luogo in cui risiede Dio (MT 1000 D).

Dio sfugge sia all’oggetto della visione mistica, sia al Veggente stesso (MT I 1001 A), (cfr La mistica di S. Gregorio di Nissa). La conoscenza mistica si situa al di là della teologia affermativa e negativa di cui sarà la giustificazione il compimento. L’insegnamento più alto sarà questa conoscenza sperimentale, vissuta, trascendente da ogni simbolo e da ogni discorso, che e’ posta nel silenzio, e secondo la quale “Dio e’ essenzialmente inconoscibile“. La differenza tra la teologia negativa e la conoscenza mistica è questa: mentre la prima resta un procedimento discorsivo dell’intelligenza, la seconda si pone al dl là del discorso ed  situata nell’amore:

“Così ora, penetrando nella caligine che sta sopra l’intelligenza, troveremo non la brevità delle parole, bensì la mancanza assoluta di parole e pensieri” (MT III 1033B).

Le negazioni nella conoscenza mistica hanno lo scopo di esprimere il contatto, l’incontro, l’unione con Dio. Nei vari stadi di conoscenza c’è sempre la presenza dell’amore con intensità diversa (DN IV 14-15, 713 A – D). Questa conoscenza mistica e’ situata nell’amore di Dio; quest’amore, per sua natura, è estatico, perché conduce all’unione dell’uomo con Dio (DN IV 13,712 A). La conoscenza mistica sradica l’intelligenza dalla condizione umana per divinizzarla.

  1. L’estasi dionisiana

 

Per capire meglio la gnosi mistica, l’unione con Dio, si deve chiarire cosa l’Areopagita intende per estasi e quale è il ruolo che essa svolge nell’unione. Anche se il termine ekstasis è raro negli scritti di Dionigi (tre volte, al capitolo IV dei DN a proposito dell’amore divino, all’ ‘inizio della Teologia Mistica (MT I 1,1000 A) e nella lettera IX per spiegare l’ebbrezza divina (Ep. IX 5,1112 C-D). Non ci si deve lasciare ingannare dallo scarso vocabolario. Tutto il corpus dionisiano prepara all’estasi e ne determina le condizioni. Qui Dionigi si distacca da Gregorio di Nissa, che usa abbondantemente questo termine. Il motivo per cui Dionigi parla poco dell’estasi, è perché, una spiegazione razionale non può fare a meno di offuscare la verità di questa esperienza che in sé è velata di mistero. L’esperienza mistica, l’incontro con l’ineffabile, non ha bisogno di tante parole. L’abbondanza delle spiegazioni caratteristica degli stadi anteriori e preparatori (vedi l’esegesi dei simboli e la Conoscenza dei nomi intellegibili di Dio). Analizzeremo quali sono le caratteristiche dell’estasi.

  1. a) L’estasi come rottura. L’estasi dionisiana si attua al termine di una rottura, per la quale si è lasciato il mondo dei sensi e il mondo dell’intelligenza (MT 1,997B). Questa volontà di escludere tutto e di rompere con se stessi sino ad arrivare alla violenza, è motivata dall’importanza della comunione con Dio; a lui non importa il processo psicologico, secondo il quale si compie quest’unione ineffabile.

  2. b)  L’estasi come unione con Dio. Per Dionigi l’estasi è prima di tutto unione con Dio (enosis), divinizzazione (theosis). La divinizzazione nell’Areopagita non consiste soltanto nel raggiungere o nel liberare nella sua purezza la parte più nobile del nostro animo (nous), e neanche nel trovare l’unità vera (en). In Dionigi l’estasi non è una semplice pratica di liberazione morale o interiorizzazione progressiva, come in Plotino e nella maggior parte dei platonici. Dionigi si separa anche da Origene e dai suoi discepoli per questi il nousper natura “capace di Dio”. L’estasi in Dionigi  al contrario un insieme i condizioni umane; essa si situa al di là all’intelligenza, o al di là della ragione (logos), al di là di ogni spirito. L’estasi al di là delle pratiche purificatrici e’ una uscita dalla condizione umana.

  3. c) Rapporto “conoscenza   estasi – amore”.I termini che esprimono il concetto di amore (agape, eros) sono totalmente assenti dalle parti del corpus in cui si parla della conoscenza mistica e dell’estasi (TM e Ep. I). I termini sono assenti in questi due scritti forse per la preoccupazione che ha l’autore di liberare la conoscenza mistica da ogni equivoco naturalista; perciò egli considera solo l’aspetto gnoseologico del problema. Nel capitolo IV dei DN si associa la nozione di estasi e quella di amore. Questo brano ci permetterà di completare i dati della teologia mistica. Il ciclo dell’amore si estende progressivamente da Dio alla gerarchia degli esseri (intellegibili, sensibili, viventi e materiali) e, in un ritorno simmetrico, egli riconduce gerarchicamente tutti gli esseri nell’unità (D 712 A – 713 D).

Questo corrisponde ai due processi inversi comuni a tutti i platonici della proodos e della epistrofe (emanazione e ritorno). Dobbiamo perciò affermare che c’e un estasi creaturale che è un’imitazione dello stesso estatico amore divino, che per amore ha creato il mondo e per amore si addentra nella molteplicità del cosmo (D IV 12 -13/709 – 712).

“L’amore divino è anche estatico, in quanto non permette che gli amanti appartengano a se stessi, ma a quelli che si amano” (DN IV 13,712 A).

Come afferma Dionigi, l’amore di Dio è per sua natura estatico; questo amore viene trasmesso gerarchicamente. Così si opera una fusione universale nell’unità (DN IV 19,713 D)e L’amore divino non permette che i soggetti che amano appartengano a se stessi. L’amore come forza spinge gli ordini superiori a donarsi a quelli inferiori e viceversa; la fusione dell’unità non comporta la fusione degli ordini. L’Areopagita attribuisce al nome divino di amore il significato di eros, tale tradizione si rifà a Origene e a Gregorio di Nissa che identificano l’eros con l’agape.

In Origene come in Gregorio l’eros-agape e’ lo slancio dell’uomo spirituale (anima) verso il Logos divino. In loro e’ conservato il carattere cristiano, perché in questa tensione entra la grazia, Cioè il dono di Dio, ma la direzione rimane quella dal basso verso l’alto, che è caratteristica dell’eros platonico. Con Dionigi l’eros è innanzi tutto un nome divino, e solo secondariamente una proprietà delle creature superiori. In tale prospettiva la peculiarità essenziale, comune di ogni eros, non è lo slancio verso l’alto, ma la capacità di uscire fuori da sé‚ (l’estasi) per dirigersi verso gli altri. Dionigi riconosce anche un eros che discende. In Dionigi l’amore (eros e agape) comprende senza contrapporli l’amore dono (che è I’aspetto dominante ma non esclusivo dell’agape cristiana) e l’amore desiderio (che è la caratteristica essenziale dell’eros platonico).

L’uomo arriva all’unione con Dio in forza dell’amore e nell’amore. L’amore è la forza divina che ci spinge all’unione trascendente. (DN IV 14,712 a) L’amore è l’unica causa della creazione ed è anche l’unica causa della redenzione. (DN lV 20,708 B)

  1. L’ignoranza assoluta di Dio.Il mistico fugge a se stesso, si abbandona interamente, intelligenza compresa.

“La conoscenza divina di Dio (tou theou gnosis) è quella che si acquisisce attraverso l’inconoscenza (agnosis) in un’unione che si attua aldilà dell’intelligenza.” (DN 872 A – B)

Il frutto essenziale dell’estasi è di spossessare il mistico stesso, di alienarlo in Dio, attraverso l’abnegazione radicale del nous (MT 976 – 1000 A). La cessazione di ogni attività fa nascere una conoscenza transintellettuale. Qui ci sembra di intravedere un elemento basilare della vita cristiana. Come afferma Cristo, il Padre dei cieli ha rivelato il mistero del regno ai piccoli, e non ai sapienti ad agli intelligenti. (DN Il 7-8,645 B – C – D) Questo significa che, come Dionigi dice ripetutamente, la conoscenza razionale è sì importante, ma molto limitata nei confronti del mistero di Dio; ciò che conta è questo slancio del cuore, questo uscire da sé (exstasis) questa tensione che termina con la comunione con il Dio Trinità. L’unione che allora si sperimenta è l’Amore divino, l’abbandono totale all’Altro. Tale tipo di conoscenza o esperienza mistica è un dono per i piccoli, per i poveri che si riconoscono limitati e ignoranti. (Mt.11,25) Dionigi afferma:

“C’è una conoscenza divinissima di Dio quella che si ottiene mediante l’ignoranza secondo l’unione, superiore all’intelligenza (nous). (DN VII 872 A) (49)

Il mistico è il povero che si sottrae a se stesso e nella conoscenza mistica si pone nell’unione. La dotta non conoscenza è una super-conoscenza. L’ignoranza assoluta, presa nel senso migliore della parola, ci fa conoscere colui che sorpassa ogni cosa conosciuta. (Ep. I 1065 A) Difatti le negazioni nella conoscenza mistica hanno lo scopo di esprimere il contatto con Dio come realmente è. La conoscenza culmina nell’amore; essa è nello stesso tempo mezzo per arrivare a Dio, ma significa in Dionigi, come nella scrittura, l’esperienza personale di comunione con il Dio eterno.

Questa comunione ha la peculiarità di non sopprimere La personalità del mistico, che si unisce attivamente a Dio, ma non ci si confonde con lui.

  1. Il significato della tenebra divina

“Allora, dunque, Mosè si libera da tutte le cose che sono viste e da quelle che vedono e penetra nella Caligine veramente segreta dell’ignoranza, in cui fa tacere ogni percezione conoscitiva e aderisce a colui che è completamente impalpabile e invisibile, appartenendo completamente a colui che tutto trascende e a nessun altro,  unito in modo superiore a Colui che  è completamente sconosciuto, mediante inattività di ogni conoscenza, e capace di conoscere al di là della intelligenza con il non conoscere nulla”. (MT I 3,1001 A)

La caligine o tenebra divina e’ un simbolo che non si riferisce all’amore, ma e specifico della conoscenza mistica strano il fatto che, dopo aver escluso da questa conoscenza ogni immagine sensibile e le rappresentazioni intellegibili, Dionigi ricorre ancora ad un simbolo per farci intuire ciò che per definizione, sfugge ad ogni simbolismo.

Sebbene di tipo eminentemente negativo e trascendente, questo ricorrere al simbolismo ci insegna qualcosa: non bisogna mettere in contrapposizione tra loro le diverse  forme di conoscenze dionisiane.

Sottolineammo inizialmente che il tema della tenebra mistica non appare mai nei filosofi neoplatonici. Al contrario l’A.T. e il N.T. e le opere di ispirazione giudeo cristiane non hanno smesso di utilizzare questa metafora.

Il termine greco skotos designa propriamente l’oscurità, le tenebre. Questo termine in ambiente platonico ha un senso dispregiativo: indica il contrario di scienza e santità. Anche Dionigi, quando parla del battesimo (EH III 6,432 C-433 A), degli angeli (CH VII 1,205 Q), o del Bene come Luce (DN IV 5,700 D) che scaccia l’oscurità, usa il termine di tenebre con un significato negativo: difatti male e oscurità vanno insieme, come vanno insieme Bene e Luce (EH Il III 5,401 B; VI III 6,537 B).

Solo nella Teologia Mistica e nella lettera I il senso privativo e peggiorativo di skotos si trasforma e diventa sovrabbondanza ed eccelso di luce. Leggiamo un brano che esprime bene quello che abbiamo detto:

“Le tenebre diventano invisibili di fronte alla luce, e più ancora di fronte alla luce abbondante” (Ep. I l065 A).

Qui i termini che esprimono la tenebra divina diventano due: skotos e gnofos. Gnofòs appare quasi esclusivamente nella Teologia mistica: questo termine va inteso come trascendente ad ogni qualificazione della luce, e non in senso negativo.

Il termine gnofos in Dionigi ha due significati: un significato soggettivo, concernente l’attitudine dell’anima che contempla il mistero, e un significato oggettivo relativo il carattere inaccessibile, dell’assoluta trascendenza della luce divina. La tenebra figura il luogo e la modalità della comprensione mistica; è l’assoluta trascendenza di Dio che impone la dottrina delle tenebre.

Leggiamo in Teologia mistica I,2,1000 A che Dio “dimora nelle tenebre come in un luogo di riposo”, come nel Salmo 17,12, e così seguendo anche l’Esodo 20,21, in cui la parafrasi rinforza il significato di: “Colui che è al di là di tutto è  realmente nella nube” (TM I 3,1000 C).

Più chiaramente, nella EP V  1073 A, che commenta l’Esodo attraverso I Timoteo 6,16:

“La nube divina è  luce inaccessibile, nella quale si dice che abita Dio. Questa luce invisibile, a causa del suo splendore supereminente, non si lascia penetrare, per eccesso della sua effusione di luminosità soprasostanziale”

Un Dio assolutamente inaccessibile, invisibile, intangibile, innominabile (D I 8,597 C), che sfugge ad ogni presa (DN I 2,588 C; IX 3,912 B) e ad ogni determinazione (DN I 8,597 ; V 3,817 B; VIII 2,889 D): questo è  il senso più elevato delle tenebre dionisiane.

La tenebra divina non può essere riferita a nessun essere; il suo carattere più essenziale risiede certamente in questa pura “assolutezza”, che nulla può scalfire (EP IX 3,1109 C) Dalla parte del soggetto, la tenebra corrisponde a questo stato in cui, essendo sormontati i sensi e l’intelligenza, il mistico racchiude la più elevata conoscenza di Dio. Questa conoscenza, di nuovo tipo, non prende più niente in prestito dagli elementi sensibili, né  dalla realtà discorsiva del pensiero.

E’ per questo che Dionigi la definisce in senso negativo: essa è  inconoscenza (agnosia). L’inconoscenza differisce dall’ignoranza puramente privativa del profano o del peccatore (agnoia). Perciò c’è una analogia tra le tenebre come assoluta trascendenza e “l’incoscienza” che rigarla il mistico.

La tenebra nel mistico implica l’inattività, il silenzio. In effetti solo questa rinuncia ai modi di conoscenza inferiori umani può introdurre, il mistico alla vera scienza. In M 1001 A, Mosè penetra nella tenebra dell’inconoscenza e attraverso questa all’unione con l’Assolutamente inconoscibile, così arriva ad una conoscenza che supera l’intelligenza.

In questa esperienza divina l’assoluta trascendenza di Dio si impone al mistico e gli appare con una profondità sempre maggiore, ma questo non toglie niente alla conoscenza mistica che, in quel momento, è diventata comunione di vita, adorazione, rapporto interpersonale, abbandono totale nell’amore.

CONCLUSIONE

Abbiamo considerato inizialmente il valore oggettivo che il Corpus dionisiano ha in sé, indipendentemente dal mistero dell’autore e dalla realtà storica in cui è stato scritto. Esso è un capolavoro di intuizioni metafisiche e teologiche, e una sintesi unica, che è stata considerata nella storia della teologia occidentale come un qualcosa di molto prezioso. Al di là della critica storica moderna, che mette in dubbio la verità oggettiva del Corpus, noi abbiamo visto il rapporto che lo scritto ha con la tradizione patristica anteriore. Si è considerato quello che l’Areopagita ha attinto da Clemente e da Origene, e a quali idee gnoseologiche esso si oppone.

Poi si è sottolineato il rapporto di forte dipendenza del Corpus dalle poderose sintesi teologiche di Basilio e Gregorio di Nissa. Dai due cappadoci  Dionigi ha attinto il concetto importantissimo “noi conosciamo Dio nelle sue manifestazioni (dynamis), non nella sua essenza (ousia)”. Questa fondamentale distinzione salvò l’originalità della rivelazione cristiana. Infatti Dio, che ha creato il mondo ed è sempre intervenuto nella storia della salvezza, è anche il Dio che trascende totalmente la realtà creata. Abbiamo trattato poi, secondo lo schema gerarchico come Dio conosce il mondo, qual è la caratteristica della conoscenza angelica, e il ruolo degli angeli nella trasmissione dei misteri divini all’uomo.

La S. Scrittura come unica fonte della vera gnosi, è un dono di Dio. L’evento Cristo compie l’antico patto e innalza l’uomo alla conoscenza del Padre; come nella bibbia, così nel Corpus la conoscenza di Dio non si svolge in un contesto di scienza, ma in un contesto essenzialmente  religioso, che coinvolge non solo l’intelligenza dell’individuo, ma tutta la sua persona, specialmente volontà ed affettive Secondo Dionigi la conoscenza umana di Dio nel suo limite e nella sua capacità è situata sempre in un contesto liturgico e di preghiera. Tale conoscenza si specifica in tre stadi che costituiscono il cammino verso l’unione con Dio.

La conoscenza simbolica si situa in un “cosmo” creatura di Dio, che esprime in sé una bellezza trascendente e perciò rimanda al suo creatore. Il mondo diventa simbolo, segno, velo del mistero di Dio. Come creatura il cosmo ha partecipato alla realtà del peccato dell’uomo e perciò non deve essere assolutizzato, altrimenti si rischia di farlo diventare un idolo. Tutto questo richiede all’uomo di elevarsi intellettualmente attraverso i nomi intellegibili che la Scrittura attribuisce a Dio (Bene, Amore, Bello, ecc.) arrivando ad una conoscenza più elevata del mistero.

Ma Dio è al di là anche dell’idea, per questo non bisogna assolutizzare in concetto, in quanto ci può ingannare. Bisogna anche riconoscere i limiti della ragione, in quanto se da una parte essa e’ un dono di Dio, dall’altra non ci porta direttamente a Lui. Rimane per Dionigi la validità di un altro tipo di conoscenza che si distacca sia dal mondo dei sensi che dal mondo del pensiero. Questa gnosi è per sua natura estatica (ex-tasis   uscire da), per amare l’Altro.

La gnosi mistica si basa sulla povertà dell’uomo, sulla sua limitatezza, perciò come l’Amore divino, deve amare e non pensare più a se stesso. L’esperienza chiave è quella di Mosè: egli entra nella nube (o caligine) per incontrare Jahvè. Nella conoscenza mistica c’e’ un elemento fondante; si conosce Dio nelle tenebre. Le tenebre esprimono una verità sull’uomo, la sua incapacità; è una verità su Dio, la sua assoluta trascendenza. Quello che ci sembra che sia stato il filo conduttore della tesi ora si realizza. La conoscenza mistica porta all’estasi, l’estasi porta all’amore di Dio nelle tenebre: qui si ha l’esperienza del Dio che trascende il mondo e Dio si unisce veramente e profondamente con il mistico. La conoscenza diventa rapporto mistico con il Dio trinitario, esperienza concreta, incontro personale, in cui l’uomo, esclusa la perdita della sua identità, trova la vera salvezza.

 

BIBLIOGRAFIA

 

LE FONTI

 

Testo

MIGNE J . P., Patrologia greca 3, Paris 1857, 119-1120. E’ riprodotta l’edizione di Anversa (1634) di B.Cordier, con una traduzione latina e note dello tesso editore.

Traduzione

SCAZZOSO P., Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Milano, 983, Introduzione, prefazioni, parafrasi, note  indici di Enzo Bellini.

LETTERATURA

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CONSULTAZIONI

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PORRO O., Conoscibilità di Dio, in Dizionario Teologico interdisciplinare, Torino 1977, vol. I, pp. 568 ss

[1] Adottiamo le seguenti sigle per i titoli delle opere  del Corpus: i) De caelesti hierarchia = CH; De Ecclesiastica hierarchia = EH; De divinis nominibus = DN. De mystica theologia = MT; Epistolae = Ep; La traduzione italiana di P. Scazzoso a cui si fa continuamente riferimento: Dionigi Areopagita. Tutte le opere, Milano 1983, introduzione, prefazione e note di E.Bellini. Per le abbreviazioni della Bibbia vedi versione CEI.

[2] H. Koch, Peudo-Dionyius Areopagita in seinen Beziehungen zum Neoplatonisius und  Mysterien wesen  Mainz 1900. J. Stiglmairs sj, Der Neuplatonker Proclus als Vorlage des sogenannten Dionysius Aeropagita in der Lehre von Ubel, in Hist. Jhb. d. Gozzesges 16, Munchen 1895

[3] A. Nygren, Eros e Agape, Bologna 1971, pp. 589-607

[4]  cfr Lossky, La teologia mistica della chiesa d’Oriente, Bologna 1967, pp. 354 ss.

[5] H. De Lubac, Esegesi medioevale, Roma 1972, vol. Il p. 1659 ss.

[6]  H.U  Balthasar in Gloria Una estetica teologica, Il: stili ecclesiastici, I’Milano 1978, pp. 128

[7] Tommaso D’Aquino, La conoscenza di Dio, Padova 1982, introduzione di M.D. Chenù p. 29 ss.; anche M.D.Chenù, La teologia nel Medioevo, Milano, 1972. pp.136-142

[8]  S.Lilla, Introduzione allo studio dello ps. Dionigi Areopagita, ‘Augustinianum’ 22/1982, 533-537.568-571

[9]  J. Danielou, Nuova storia della Chiesa, Torino 1980, V.1,  pp 172 s.

[10] L. Bouyer, j, Spiritualità dei padri, Bologna 1968, p. 166

[11] P.N. Evdokimov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, Roma 1983, pp.  43 ss.

[12] Origene, Commento al Cantico dei Cantici, Roma 1982, a cura di M.Simonetti, pp 57 ss.

[13] Questo passo è tratto dalla Lettera ad Anfiolochio, Epistola CCXXIV p. 32 coll. 869, cosi anche altri, testi nel  Contra Eunomium 1,6 p. 29, coll. 521-524; Il, 4 coll. 577-588; 11, 32 coll. 648; in Lossky o.c. pp. 310 ss.

[14]  Hom quod est Deus 6, PG 31 Col. 344B ivi p. 314

[15] J.Danielou, Mystigue de la tenebre chez Gregoire de Nysse in Dictionnaire de Spiritualitè voll. 2 1954 coll. 1872-l85,

[16] in Gregorio di Nissa,La vita di Mosè, traduzione, introduzione e note di M. Simonetti, Vicenza 1984, le citazioni dei capitoli si riferiscono a questa opera. II,15 p. 71.

[17] ivi I,10 p. 13

[18] Losky V.,o.c. p. 337

[19] Centurie IV,50  p 377

[20]  I Centuria 27.

[21] III Centuria, 86 ivi p. 336

[22] PG40,1275C

[23] Practicos 1, 71; P t. x L col. 1244A

[24] III Centuria 3,5 ivi p.337

[25] IV Centuria 84     p.  338

[26] S. Bonaventura, L’ascesa a Dio, itinerarium mentis in Deo, Milano 1984

4 Ottobre 2013

PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO.

Filed under: LEZIONE,Teologia — giacomo.campanile @ 11:52

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San Tommaso d’Aquino

Le vie che portano alla conoscenza di Dio

31 Creato a immagine di Dio, chiamato a conoscere e ad amare Dio, l’uomo che cerca Dio scopre alcune « vie » per arrivare alla conoscenza di Dio. Vengono anche chiamate « prove dell’esistenza di Dio », non nel senso delle prove ricercate nel campo delle scienze naturali, ma nel senso di « argomenti convergenti e convincenti » che permettono di raggiungere vere certezze.

Queste « vie » per avvicinarsi a Dio hanno come punto di partenza la creazione: il mondo materiale e la persona umana.

35 L’uomo ha facoltà che lo rendono capace di conoscere l’esistenza di un Dio personale. Ma perché l’uomo possa entrare nella sua intimità, Dio ha voluto rivelarsi a lui e donargli la grazia di poter accogliere questa rivelazione nella fede. Tuttavia, le prove dell’esistenza di Dio possono disporre alla fede ed aiutare a constatare che questa non si oppone alla ragione umana.

37 Tuttavia, nelle condizioni storiche in cui si trova, l’uomo incontra molte difficoltà per conoscere Dio con la sola luce della ragione.

« Infatti, sebbene la ragione umana, per dirla semplicemente, con le sole sue forze e la sua luce naturale possa realmente pervenire ad una conoscenza vera e certa di un Dio personale, il quale con la sua provvidenza si prende cura del mondo e lo governa, come pure di una legge naturale inscritta dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia la stessa ragione incontra non poche difficoltà ad usare efficacemente e con frutto questa sua capacità naturale. Infatti le verità che concernono Dio e riguardano i rapporti che intercorrono tra gli uomini e Dio trascendono assolutamente l’ordine delle cose sensibili, e, quando devono tradursi in azioni e informare la vita, esigono devoto assenso e la rinuncia a se stessi. Lo spirito umano, infatti, nella ricerca intorno a tali verità, viene a trovarsi in difficoltà sotto l’influsso dei sensi e dell’immaginazione ed anche a causa delle tendenze malsane nate dal peccato originale. Da ciò consegue che gli uomini facilmente si persuadono, in tali argomenti, che è falso o quanto meno dubbio ciò che essi non vorrebbero che fosse vero ».41

47 La Chiesa insegna che il Dio unico e vero, nostro Creatore e Signore, può essere conosciuto con certezza attraverso le sue opere, grazie alla luce naturale della ragione umana.47

40) Concilio Vaticano I, Cost. dogm. Dei Filius, c. 2: DS 3004; cf Ibid., De Revelatione, canone 2: DS 3026; Concilio Vaticano II, Cost. dogm. Dei Verbum, 6: AAS 58 (1966) 819.

(41) Pio XII, Lett. enc. Humani generis: DS 3875.

(42) Ibid.: DS 38

www.vatican.va/archive/catechism_it/p1s1c1_it.htm

22 Aprile 2013

Il mistero degli Angeli. Conferenza del teologo senigalliese Renzo Lavatori

Filed under: Teologia — giacomo.campanile @ 21:17
immagineSabato 27 aprile 2013 ore 18,00, presso palazzo del Duca di Senigallia il teologo Renzo Lavatori presenterà il libro: Gli angeli. Storia e pensiero. Editore: Marietti 2013. Con la possibilità di intervenire con domande.Interverrà Don Renzo docente di teologia dogmatica alla Pontificia Università Urbaniana a Roma.
Conosciuto per numerose pubblicazioni sui temi fondamentali della fede e per le sue trasmissioni mensili a Radio Maria. Sito di Don Renzo Lavatori: www.mistagogia.net.

La presentazione teologica musicale del libro di Renzo Lavatori sarà allietata da interventi musicali di musica angelica, il sottotitolo della conferenza è ANGELI ADORANTI e ANGELI MUSICANTI
Suoneranno GIACOMO CAMPANILE, chitarra classica, MAURO MENCARONI, batteria e percussioni, MASSIMO SANTINI, basso.

Le musiche eseguite sono CANTI RELIGIOSI DI G. CAMPANILE Scaricati gratuitamente gli mp3 nel sito www.giacomocampanile.it

di Giacomo Campanile
redazione@vivereroma.org

19 Aprile 2013

La verità è sinfonica di Hans Urs von Balthasar .Pag 25-27

Filed under: Teologia — giacomo.campanile @ 06:29

Copertina di 'La verità è sinfonica. Aspetti del pluralismo cristiano'

Sinfonia vuol dire accordo. Un suono. Diversi strumenti suonano. Diversi strumenti suonano insieme. Una tromba basso non è un violoncello; un violoncello non è un fagotto. Il contrasto fra gli strumenti deve essere il più netto possibile, in modo che ciascuno mantenga il suo timbro inconfondibile. Il compositore deve scrivere la parte in modo tale che il timbro di ogni strumento raggiunga il suo massimo effetto. In questo campo Bach, quando trascrive i concerti di violino per il clavicembalo, apportando solo leggere modifiche, forse non è il miglior rappresentante. Maestro consumato invece è Mozart: i suoi concerti per violino, per corno o per clarinetto, mettono sempre in risalto la peculiarità specifica dello strumento. Nella vera sinfonia, però, tutti gli strumenti si fondono nell’accordo generale. Mozart possedeva a tal punto questa visione d’insieme che, talvolta, era in grado di annotare la parte di un singolo strumento per lo spazio di un intero tempo musicale, perché egli la sentiva in armonia con tutte le altre parti. Per poter esprimere tutta la ricchezza dei suoni che il compositore sente dentro di sé, l’orchestra deve essere pluralistica. Il mondo è simile a una grande orchestra che sta accordando i suoi strumenti; ognuno suona sul suo strumento una nenia monotona, mentre il pubblico affluisce e il direttore d’orchestra non è ancora arrivato. Ad un certo punto però il pianoforte suona un la, perché tutt’intorno si stabilisca una certa uniformità di suono: si accorda su qualche cosa di comune. Anche la scelta degli strumenti presenti non è casuale. Essi costituiscono già, con la diversità delle loro caratteristiche, qualche cosa come un sistema di coordinate. L’oboe, aiutato forse dal fagotto, farà da contrappunto alla parte degli archi; tuttavia non sarebbe sufficientemente efficace, se i corni non svolgessero il compito di sottofondo unitario per il dialogo dei diversi strumenti. La scelta è determinata dal disegno che provvisoriamente giace, muto, nella partitura aperta; non appena però la bacchetta del direttore d’orchestra si alzerà, richiamerà su di sé l’attenzione di tutti gli strumenti, trascinerà tutta l’orchestra con sé e allora si vedrà qual è il compito di ognuno. Con la sua rivelazione Dio sta seguendo una sinfonia, della quale non è possibile dire cosa sia più maestoso, se l’ispirazione unitaria della composizione, oppure l’orchestra polifonica della creazione, che egli si è preparato a questo scopo. Prima che la Parola di Dio si facesse uomo, l’orchestra andava invece strimpellando senza un disegno preciso: concezioni del mondo, religioni, progetti di vita politica in grande quantità; ognuno suona qualche cosa per sé. In qualche modo si ha il presentimento che questo suono cacofonico era soltanto una “accordatura”: al di sopra di tutto risuona il la, simile a una promessa. “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti…” (Eb 1, 1). Infine giunse il Figlio, l’“erede di tutto” per il quale era stata voluta anche tutta l’orchestra. Mentre sotto la sua direzione viene eseguita la sinfonia di Dio, si svela anche il significato della sua pluralità. L’unità organica della composizione è opera di Dio. Per questo motivo il mondo era, è e sarà sempre (e, perché no, in una maniera sempre più accentuata) pluralistico. Ovviamente il mondo non riesce ad abbracciare com­pletamente la sua pluralità, perché l’unità non è mai albergata in esso, ieri non meno di oggi. Ma il significato del suo pluralismo non è quello di rifiutare l’unità di Dio, unità che Dio stesso gli ha rivelato, ma quello di aderire sinfonicamente a questa unità divina e di dare il suo assenso a tale crescente unità. Non sono peraltro previsti altri spettatori all’infuori di coloro che suo­nano: eseguendo la sinfonia divina – la cui composizione non può essere in alcun modo ricavata dagli strumenti e neppure dal loro insieme –, tutti conoscono per quale scopo sono radunati. All’inizio siedono, estranei e nemici, l’uno accanto all’altro. Improvvisamente, quando l’opera comincia, com­prendono perfettamente come tutti si integrano a vicenda. Non all’unisono, ma – cosa molto più bella – in una sinfonia. La situazione odierna da cui noi dobbiamo prendere le mosse è caratterizzata da un atteggiamento di impazienti strappi e scossoni, dati alla struttura di una unità che è sperimentata come un carcere. Non è forse un cont­rosenso quando una melodia è costretta dentro gli schemi di una fuga; quan­do la legge della fuga ne determina lo sviluppo e perfino la forma originaria? Essa vorrebbe uscire da questo condizionamento per potersi presentare e ma­nifestare allo “stato puro”. Oggi assistiamo a un potente desiderio di pervenire alla figura affascinante di Gesù Cristo, di comprendere il Cristo come egli era in sé, allo stato genuino, liberato dai funesti legami con una Chiesa istituzionale, con un mucchio di dogmi incomprensibili, di usanze sorpassate e di tradizioni sclerotizzate. Dopo le incrostazioni di duemila anni di storia, egli deve risorgere per noi nel suo primitivo, semplice e nuovo splendore. E proprio oggi l’esegesi ci dice, in modo perentorio, che noi conosciamo Gesù Cristo solo attraverso la testimonianza di fede della Chiesa primitiva; che questa fede ha contribuito alla redazione dei racconti della sua vita. Quindi noi non potremo mai strappare dal Cristo gli abiti della Chiesa. Siccome questi non si possono rifiutare, ecco che incomincia una seconda battaglia che consiste nello spogliare, nel ripulire, nel semplificare a tal punto la Chiesa attuale, ricca di tradizioni, fino a che non cominci a trasparire in essa la supposta signoria di Gesù Cristo. Inoltre bisogna mettere in discussione anche le più originarie formule di fede della Chiesa primitiva: non sono forse già anch’esse un velame, un soffocamento? Se al cavolo togliamo, una dopo l’altra, tutte le foglie, alla fin fine non ci resterà più nulla! In qualche modo non hanno forse ragione ambedue questi movimenti? La Chiesa come totalità dovrebbe certamente rispecchiare la figura del Cristo; essa non dovrebbe essere assolutamente nient’altro che questo. Se non lo è, perché meravigliarsi se dopo di essa viene attaccato anche il nucleo fon­damentale? D’altro canto: se Gesù si è dato spontaneamente alla morte, per rendersi comprensibile ai suoi discepoli come Christus totus solo al di là della morte nella sua risurrezione, apparizione e autocomprensione, allora la Chiesa non è forse il luogo, che egli stesso si è scelto, nel quale egli vuole essere presente e nel quale vuole essere incontrato? Ciò che noi chiamiamo “incarnazione di Dio” in Gesù di Nazareth si completa soltanto nella comunità dei credenti, che hanno e avvertono la missione di annunciare al mondo il suo evento e di riproporlo al mondo con la loro testimonianza. Nessuno è in grado di dire con esattezza quando la prima comunità comincia a diventare la “prima comunità cattolica”. Fin dall’inizio è presente la struttura ministeriale in Pietro ed estremamente accentuata in Paolo; fin dall’inizio è presen­te Maria, la Madre, che con Giovanni stava ai piedi della croce, pregando in mezzo alla comunità. Fin dall’inizio si battezza, si spezza il pane, si rimettono i peccati, si ungono gli ammalati, si impongono le mani, si impartiscono precise istruzioni, vengono eletti i presbiteri, viene sancito il diritto sacro, ci si appella alla tradizione. I motivi sono già intrecciati, sono già armonizzati fra loro; la fuga prende inizio. Non possiamo strappare con violenza il Cristo dalla Chiesa, ma non possiamo neppure ridurre semplicemente la Chiesa al Cristo. Se vogliamo soprattutto sentire qualche cosa di comprensibile siamo costretti ad ascoltare tutta la polifonia della rivelazione. La trasparenza in ordine al Cristo non si raggiunge distruggendo la Chiesa o sostituendola con formule comunitarie inventate da noi, ma operando in modo tale che i credenti si rendano il più possibile conformi alla realtà ecclesiale: la Chiesa infatti è corpo di Cristo e perciò la sua presenza fisica. D’altro canto anche il tentativo di voler «afferrare» Cristo è una stoltezza: egli è sempre nuovamente sfuggito di mano a coloro che volevano catturarlo; egli stesso, in tutta la sua realtà, è soltanto uno specchio: «Chi vede me, vede il Padre», «Chi conosce il Figlio, ha conosciuto anche il Padre», «La mia dottrina non è mia, ma di chi mi ha mandato», «Non trattenermi, perché non sono ancora salito al Padre». Lasciandoci condurre alle sorgenti scopriremo il suo mistero. E lo Spirito, che procede dal Padre e dal Figlio, poiché non è né il Padre né il Figlio, ma il loro reciproco amore, ci introdurrà in questo mistero. Anche la verità eterna è sinfonica.

13 Dicembre 2012

Ecclesiologia di B. Gherardini di Giacomo Campanile 1995 pdf

Filed under: Teologia,TITOLI TEOLOGICI — giacomo.campanile @ 21:13

Bibliografia Gherardini 1995

1. Ecclesiologia di B. Gherardini di Giacomo Campanile 1995

2. Ecclesiologia di B. Gherardini di Giacomo Campanile 1995

3. Ecclesiologia di B. Gherardini di Giacomo Campanile 1995

4. Ecclesiologia di B. Gherardini di Giacomo Campanile 1995

23 Settembre 2012

PROBLEMATICHE ATTORNO AL DEMONIO

Filed under: Teologia — giacomo.campanile @ 13:59

Esiste il Diavolo? Esso è un simbolo o un soggetto reale?
Dubitare dell’esistenza di Satana come ente reale, soggetto concreto e individuale, è una questione piuttosto recente, sorta, in ambito cattolico, dopo il concilio Vaticano II, verso gli anni 1968-70. Prima di questo tempo, l’esistenza reale del demonio era di pacifica accettazione da parte di tutti i credenti e pensatori cristiani. Una verità che rientrava nel deposito della fede o nella dottrina professata dalla Chiesa.
Alcuni teologi, e filosofi e pensatori in genere, si sono posti la domanda di fondo: Satana esiste realmente o è solo un genere letterario biblico per indicare il male?E’ soltanto un simbolo o una raffigurazione concettuale dell’uomo per segnalare il fatto della cattiveria nel mondo? La questione era già sorta, in ambito filosofico e scientifico, da parte dell’empirismo inglese, in particolare da Hobbes (1588-1679) con la sua opera Il Leviatano, dove affermava la sostanziale impostazione simbolica delle affermazioni bibliche intorno agli esseri spirituali, tra cui gli angeli e i demoni.
Nell’area cattolica il primo teologo che ha negato in modo netto ed eclatante l’esistenza di Satana è stato il tedesco Haag, nel 1970, con il famoso libro: La liquidazione del diavolo. A lui seguirono altri teologi e pensatori.

Cosa ne pensa la dottrina della Chiesa e il recente magistero dei Papi?
Il recente insegnamento dei pastori della Chiesa si è pronunciato più volte per difendere e sostenere come dottrina certa e vera la reale esistenza di Satana. Il concilio Vaticano II espone 18 frasi sulla realtà e l’opera del diavolo nelle sue nefaste azioni nei confronti del mondo, degli uomini e dei fedeli cristiani, riconfermando la fede cattolica tradizionale. Alla fine proclama la vittoria di Cristo, iniziata con la sua morte e risurrezione e che sarà portata a compimento con la sua gloriosa venuta alla fine dei secoli. Il pontefice Paolo VI si è soffermato in modo esplicito sulla questione del diavolo, due volte nel 1972 e una volta nel 1977, dove ha manifestato la sua impressione che “da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. Similmente Giovanni Paolo II, in due catechesi al popolo di Dio nel 1986, ripropone le tesi essenziali della dottrina cristiana, ribadita dal nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992.

Quale è l’origine dei demoni? Chi li ha fatti e da dove vengono?
Una questione fondamentale riguarda l’origine dei demoni. Essi sono stati creati da Dio quali esseri angelici e in quanto tali sono buoni. La loro cattiveria non trova la causa in Dio sommo bene, ma unicamente da una loro libera scelta (concilio Lateranense IV del 1215). Sono perciò creature a tutti gli effetti e non possono essere considerati come dei o semidei, similmente ai demiurghi greci. Sotto questo aspetto essi hanno i limiti degli enti creati, dipendenti dal Creatore che ha dato loro l’esistenza

Perché da angelo buono è divenuto angelo cattivo o diavolo?
Da qui sorge la domanda di sapere quale sia stata la loro colpa o il loro peccato, che li ha resi malvagi da buoni che erano. L’opinione primitiva fu quella di un peccato carnale, in conformità alla tradizione legata ad Enoc, secondo il quale gli angeli si sarebbero innamorati delle belle figlie degli uomini e si sarebbero uniti ad esse, generando dei giganti terribilmente malvagi e fautori di ogni male sulla terra. (Cf. Gen 6, 1-4). Ben presto i pensatori cristiani si orientarono verso altre spiegazioni, basandosi in particolare sul testo biblico di Sap 2,24, in cui si dice che la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, indicando nell’invidia per Adamo la causa del peccato diabolico. Ma anche questa opinione fu abbandonata per far posto all’idea di un peccato di superbia e di ribellione a Dio, sostenuta unanimemente dai pensatori cristiani dopo Origene.( III Sec. D.C.).

Quale il tipo di colpa commessa da Satana?
Infatuato della sua bellezza e della sua altezza spirituale, Lucifero ha pensato di potersi mettere al posto del Signore del cielo e della terra e non essere più sottomesso a lui, non accettando la propria condizione di creatura, ma ribellandosi al dominio e all’onnipotenza divina. Ha trascinato dietro di sé una moltitudine di suoi simili, i quali si sono congiunti a lui nell’insubordinazione a Dio, divenendo suoi compagni di cattiveria. Si parla giustamente del peccato angelico come di uno stato d’alienazione, di un essere che non è più se stesso e non accetta di relazionarsi agli altri e di comunicare con loro, ma di lottare contro Dio e contro gli uomini e tutte le altre creature, rimanendo irrigidito in se stesso con una forma di tronfio orgoglio e di profondo egoismo.

Quale è stata la pena succeduta al peccato satanico?
Per quanto concerne la loro pena si ritiene che i demoni siano stati condannati subito dopo il loro peccato, ma non ancora in maniera definitiva, come avverrà alla fine dei secoli. Nel frattempo essi sono operanti nel mondo e nell’umanità, ma al giudizio universale subiranno la sconfitta totale e saranno puniti nel fuoco eterno. Circa la determinazione della natura del fuoco infernale, alcuni gli attribuiscono una consistenza fisica, mentre altri propendono per una realtà interiore e spirituale. Oggi la Chiesa ritiene che si tratti di un fuoco sia a livello sensibile ed esteriore sia di valore intimo quale inasprimento e turbamento dello spirito.

Quali gli atteggiamenti profondi dell’essere diabolico?
L’intento principale del diavolo e dei suoi compagni è quello di allontanare l’uomo dal suo rapporto ordinato con Dio e, di riflesso, con gli altri, con se stesso e con il mondo. Vuole fomentare il disordine, il disorientamento dei valori, il sovvertimento della verità in falsità, del bene in male, dell’amore in odio. A tale scopo i demoni suscitano tensioni, rivalità, guerre, antagonismi. Secondo i Padri della Chiesa sono sempre loro che causano malattie e sciagure naturali, inventano la magia e l’astrologia, imitano i riti cristiani, favorendo l’idolatria e la mitologia, corrompono la sana dottrina incitando all’eresia, stimolano gli uomini al peccato e al vizio.

Quali i limiti invalicabili per l’azione del diavolo?
E’ altrettanto chiaro che la loro azione nefasta non è illimitata, poiché sono sottomessi, come tutte le creature, alla volontà divina e agiscono secondo la divina provvidenza. La parola decisiva non spetta ai demoni, ma a Dio. Ugualmente si deve supporre che alle azioni malvagie dei demoni si contrappongono gli interventi degli angeli buoni, i quali vengono in difesa e protezione dell’uomo. Soprattutto, e questa è un’idea presente ovunque e ben salda nella dottrina cattolica, i demoni non possono costringere la libertà umana, la quale, con l’aiuto di Dio e con la propria disponibilità, può sempre rigettare le seduzioni del maligno e opporsi ad esse.

Quali sono le azioni principali di Satana nei confronti degli uomini?
L’azione principale più comune del diavolo è quella della tentazione che consiste nella seduzione della mente e della volontà dell’uomo affinché compia azioni contrarie alla verità, alla giustizia e al bene. Così è stato fin dalle origini quando il serpente o diavolo ha tentato Adamo ed Eva per disobbedire al comando divino. La tentazione si ripete frequentemente nella vita del cristiano e può assumere configurazioni molto diverse e complicate. Addirittura alle volte il diavolo si può travestire da angelo buono e suggerire atteggiamenti apparentemente positivi ma che di fatto portano al male.
La seconda azione è la vessazione, che causa forti attacchi contro l’uomo anche a livello fisico come incidenti, malattie, ulcerazioni, lacerazioni, ecc. I Santi hanno subìto tali vessazioni con gravi conseguenze a livello corporeo.
La terza azione è data dalla infestazione, per mezzo della quale il diavolo svolge il suo influsso malvagio negli ambienti in cui vive l’uomo, come nelle abitazioni, nei locali pubblici, nelle strade, nei campi, ecc..
La quarta azione è detta ossessione, con la quale il diavolo colpisce la psiche umana, causando situazioni di dolore, di smarrimento, di ottenebramento e di confusione. Gli effetti poi sono spiacevoli, poiché comportano stati di depressione o di angoscia o di ansia o di tensione che spesse volte sono molto pesanti e incontrollabili. Neanche le medicine possono risolverle.
La quinta ed ultima azione, la più tremenda, è la possessione, in cui il diavolo domina sia sul corpo sia sulla psiche umana in modo che l’individuo non è più capace di governare se stesso e di essere autonomo nelle proprie scelte. Per questo ultimo caso, quando è sicuramente accertato, è necessario l’intervento dell’esorcista legittimamente autorizzato dalla Chiesa.

Come si vincono le seduzioni sataniche?
Noi abbiamo i mezzi sufficienti per vincere e sconfiggere le azioni malvagie di satana. Tra essi la più usuale è la preghiera con cui chiediamo aiuto a Dio per sorreggere la nostra volontà a non cedere alle seduzioni del maligno. Un altro mezzo è dato dalla frequenza ai sacramenti, come la confessione e la comunione eucaristica. Sono importanti anche alcune benedizioni o strumenti che la Chiesa pone a nostra disposizione, come il segno della croce, l’uso dell’acqua benedetta e altre buone cose. Ciò che conta è l’educazione interiore alla vita di grazia e di unione con Dio, con l’intercessione dei Santi e l’aiuto degli angeli.

Quale il rapporto tra l’azione di Satana e l’opera redentrice di Cristo?
Un’ultima considerazione scaturisce dal primato di Cristo con la sua opera redentrice, che costituisce l’evento capitale della vittoria contro Satana. Con la morte in croce di Gesù si attua la salvezza redentrice totale, di fronte alla quale tutte le potenze avverse come il peccato, la morte e Satana, che ne è il capo, sono annientate. In effetti il male cagionato dal diavolo trova la sua soluzione, anzi la sua definitiva sconfitta, proprio dall’offerta liberatrice attuata dal sacrificio di Cristo e dalla sua gloriosa risurrezione. Il riscatto di Cristo stabilisce non solo la vittoria su Satana, ma anche un capovolgimento di situazioni: il male stesso può diventare occasione di crescita e di maturazione nella fede, esso è trasformato in un momento salvifico, se vissuto in unione all’atto redentore di Cristo. A questo punto la potenza demoniaca non solo non ha più forza contro il cristiano, ma si fa strumento di gloria e di santità, come è avvenuto per numerosi testimoni dell’ascesi e della spiritualità nel cristianesimo.

http://www.mistagogia.net/indexART.asp

DEMONOLOGIA

Filed under: Teologia — giacomo.campanile @ 13:52

PROBLEMATICHE ATTORNO AL DEMONIO

Esiste il Diavolo? Esso è un simbolo o un soggetto reale?
Dubitare dell’esistenza di Satana come ente reale, soggetto concreto e individuale, è una questione piuttosto recente, sorta, in ambito cattolico, dopo il concilio Vaticano II, verso gli anni 1968-70. Prima di questo tempo, l’esistenza reale del demonio era di pacifica accettazione da parte di tutti i credenti e pensatori cristiani. Una verità che rientrava nel deposito della fede o nella dottrina professata dalla Chiesa.
Alcuni teologi, e filosofi e pensatori in genere, si sono posti la domanda di fondo: Satana esiste realmente o è solo un genere letterario biblico per indicare il male?E’ soltanto un simbolo o una raffigurazione concettuale dell’uomo per segnalare il fatto della cattiveria nel mondo? La questione era già sorta, in ambito filosofico e scientifico, da parte dell’empirismo inglese, in particolare da Hobbes (1588-1679) con la sua opera Il Leviatano, dove affermava la sostanziale impostazione simbolica delle affermazioni bibliche intorno agli esseri spirituali, tra cui gli angeli e i demoni.
Nell’area cattolica il primo teologo che ha negato in modo netto ed eclatante l’esistenza di Satana è stato il tedesco Haag, nel 1970, con il famoso libro: La liquidazione del diavolo. A lui seguirono altri teologi e pensatori.

Cosa ne pensa la dottrina della Chiesa e il recente magistero dei Papi?
Il recente insegnamento dei pastori della Chiesa si è pronunciato più volte per difendere e sostenere come dottrina certa e vera la reale esistenza di Satana. Il concilio Vaticano II espone 18 frasi sulla realtà e l’opera del diavolo nelle sue nefaste azioni nei confronti del mondo, degli uomini e dei fedeli cristiani, riconfermando la fede cattolica tradizionale. Alla fine proclama la vittoria di Cristo, iniziata con la sua morte e risurrezione e che sarà portata a compimento con la sua gloriosa venuta alla fine dei secoli. Il pontefice Paolo VI si è soffermato in modo esplicito sulla questione del diavolo, due volte nel 1972 e una volta nel 1977, dove ha manifestato la sua impressione che “da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”. Similmente Giovanni Paolo II, in due catechesi al popolo di Dio nel 1986, ripropone le tesi essenziali della dottrina cristiana, ribadita dal nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992.

Quale è l’origine dei demoni? Chi li ha fatti e da dove vengono?
Una questione fondamentale riguarda l’origine dei demoni. Essi sono stati creati da Dio quali esseri angelici e in quanto tali sono buoni. La loro cattiveria non trova la causa in Dio sommo bene, ma unicamente da una loro libera scelta (concilio Lateranense IV del 1215). Sono perciò creature a tutti gli effetti e non possono essere considerati come dei o semidei, similmente ai demiurghi greci. Sotto questo aspetto essi hanno i limiti degli enti creati, dipendenti dal Creatore che ha dato loro l’esistenza

Perché da angelo buono è divenuto angelo cattivo o diavolo?
Da qui sorge la domanda di sapere quale sia stata la loro colpa o il loro peccato, che li ha resi malvagi da buoni che erano. L’opinione primitiva fu quella di un peccato carnale, in conformità alla tradizione legata ad Enoc, secondo il quale gli angeli si sarebbero innamorati delle belle figlie degli uomini e si sarebbero uniti ad esse, generando dei giganti terribilmente malvagi e fautori di ogni male sulla terra. (Cf. Gen 6, 1-4). Ben presto i pensatori cristiani si orientarono verso altre spiegazioni, basandosi in particolare sul testo biblico di Sap 2,24, in cui si dice che la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo, indicando nell’invidia per Adamo la causa del peccato diabolico. Ma anche questa opinione fu abbandonata per far posto all’idea di un peccato di superbia e di ribellione a Dio, sostenuta unanimemente dai pensatori cristiani dopo Origene.( III Sec. D.C.).

Quale il tipo di colpa commessa da Satana?
Infatuato della sua bellezza e della sua altezza spirituale, Lucifero ha pensato di potersi mettere al posto del Signore del cielo e della terra e non essere più sottomesso a lui, non accettando la propria condizione di creatura, ma ribellandosi al dominio e all’onnipotenza divina. Ha trascinato dietro di sé una moltitudine di suoi simili, i quali si sono congiunti a lui nell’insubordinazione a Dio, divenendo suoi compagni di cattiveria. Si parla giustamente del peccato angelico come di uno stato d’alienazione, di un essere che non è più se stesso e non accetta di relazionarsi agli altri e di comunicare con loro, ma di lottare contro Dio e contro gli uomini e tutte le altre creature, rimanendo irrigidito in se stesso con una forma di tronfio orgoglio e di profondo egoismo.

Quale è stata la pena succeduta al peccato satanico?
Per quanto concerne la loro pena si ritiene che i demoni siano stati condannati subito dopo il loro peccato, ma non ancora in maniera definitiva, come avverrà alla fine dei secoli. Nel frattempo essi sono operanti nel mondo e nell’umanità, ma al giudizio universale subiranno la sconfitta totale e saranno puniti nel fuoco eterno. Circa la determinazione della natura del fuoco infernale, alcuni gli attribuiscono una consistenza fisica, mentre altri propendono per una realtà interiore e spirituale. Oggi la Chiesa ritiene che si tratti di un fuoco sia a livello sensibile ed esteriore sia di valore intimo quale inasprimento e turbamento dello spirito.

Quali gli atteggiamenti profondi dell’essere diabolico?
L’intento principale del diavolo e dei suoi compagni è quello di allontanare l’uomo dal suo rapporto ordinato con Dio e, di riflesso, con gli altri, con se stesso e con il mondo. Vuole fomentare il disordine, il disorientamento dei valori, il sovvertimento della verità in falsità, del bene in male, dell’amore in odio. A tale scopo i demoni suscitano tensioni, rivalità, guerre, antagonismi. Secondo i Padri della Chiesa sono sempre loro che causano malattie e sciagure naturali, inventano la magia e l’astrologia, imitano i riti cristiani, favorendo l’idolatria e la mitologia, corrompono la sana dottrina incitando all’eresia, stimolano gli uomini al peccato e al vizio.

Quali i limiti invalicabili per l’azione del diavolo?
E’ altrettanto chiaro che la loro azione nefasta non è illimitata, poiché sono sottomessi, come tutte le creature, alla volontà divina e agiscono secondo la divina provvidenza. La parola decisiva non spetta ai demoni, ma a Dio. Ugualmente si deve supporre che alle azioni malvagie dei demoni si contrappongono gli interventi degli angeli buoni, i quali vengono in difesa e protezione dell’uomo. Soprattutto, e questa è un’idea presente ovunque e ben salda nella dottrina cattolica, i demoni non possono costringere la libertà umana, la quale, con l’aiuto di Dio e con la propria disponibilità, può sempre rigettare le seduzioni del maligno e opporsi ad esse.

Quali sono le azioni principali di Satana nei confronti degli uomini?
L’azione principale più comune del diavolo è quella della tentazione che consiste nella seduzione della mente e della volontà dell’uomo affinché compia azioni contrarie alla verità, alla giustizia e al bene. Così è stato fin dalle origini quando il serpente o diavolo ha tentato Adamo ed Eva per disobbedire al comando divino. La tentazione si ripete frequentemente nella vita del cristiano e può assumere configurazioni molto diverse e complicate. Addirittura alle volte il diavolo si può travestire da angelo buono e suggerire atteggiamenti apparentemente positivi ma che di fatto portano al male.
La seconda azione è la vessazione, che causa forti attacchi contro l’uomo anche a livello fisico come incidenti, malattie, ulcerazioni, lacerazioni, ecc. I Santi hanno subìto tali vessazioni con gravi conseguenze a livello corporeo.
La terza azione è data dalla infestazione, per mezzo della quale il diavolo svolge il suo influsso malvagio negli ambienti in cui vive l’uomo, come nelle abitazioni, nei locali pubblici, nelle strade, nei campi, ecc..
La quarta azione è detta ossessione, con la quale il diavolo colpisce la psiche umana, causando situazioni di dolore, di smarrimento, di ottenebramento e di confusione. Gli effetti poi sono spiacevoli, poiché comportano stati di depressione o di angoscia o di ansia o di tensione che spesse volte sono molto pesanti e incontrollabili. Neanche le medicine possono risolverle.
La quinta ed ultima azione, la più tremenda, è la possessione, in cui il diavolo domina sia sul corpo sia sulla psiche umana in modo che l’individuo non è più capace di governare se stesso e di essere autonomo nelle proprie scelte. Per questo ultimo caso, quando è sicuramente accertato, è necessario l’intervento dell’esorcista legittimamente autorizzato dalla Chiesa.

Come si vincono le seduzioni sataniche?
Noi abbiamo i mezzi sufficienti per vincere e sconfiggere le azioni malvagie di satana. Tra essi la più usuale è la preghiera con cui chiediamo aiuto a Dio per sorreggere la nostra volontà a non cedere alle seduzioni del maligno. Un altro mezzo è dato dalla frequenza ai sacramenti, come la confessione e la comunione eucaristica. Sono importanti anche alcune benedizioni o strumenti che la Chiesa pone a nostra disposizione, come il segno della croce, l’uso dell’acqua benedetta e altre buone cose. Ciò che conta è l’educazione interiore alla vita di grazia e di unione con Dio, con l’intercessione dei Santi e l’aiuto degli angeli.

Quale il rapporto tra l’azione di Satana e l’opera redentrice di Cristo?
Un’ultima considerazione scaturisce dal primato di Cristo con la sua opera redentrice, che costituisce l’evento capitale della vittoria contro Satana. Con la morte in croce di Gesù si attua la salvezza redentrice totale, di fronte alla quale tutte le potenze avverse come il peccato, la morte e Satana, che ne è il capo, sono annientate. In effetti il male cagionato dal diavolo trova la sua soluzione, anzi la sua definitiva sconfitta, proprio dall’offerta liberatrice attuata dal sacrificio di Cristo e dalla sua gloriosa risurrezione. Il riscatto di Cristo stabilisce non solo la vittoria su Satana, ma anche un capovolgimento di situazioni: il male stesso può diventare occasione di crescita e di maturazione nella fede, esso è trasformato in un momento salvifico, se vissuto in unione all’atto redentore di Cristo. A questo punto la potenza demoniaca non solo non ha più forza contro il cristiano, ma si fa strumento di gloria e di santità, come è avvenuto per numerosi testimoni dell’ascesi e della spiritualità nel cristianesimo.

16 Luglio 2012

Gianni Zaccherini RENDETE PIENA LA MIA GIOIA

Filed under: Teologia — giacomo.campanile @ 15:19

Gianni Zaccherini
RENDETE PIENA LA MIA GIOIA
Lettura e commento della LETTERA AI FILIPPESI
EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA 2004

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