22 Dicembre 2014

Papa: 15 malattie dell’umanità

Filed under: articoli,PAPA FRANCESCO — giacomo.campanile @ 23:24

Ecco le malattie che il Papa, nella udienza alla curia per gli auguri di Natale, ha elencato e analizzato invitando alla riflessione, alla penitenza e alla confessione, in questi giorni che separano dal Natale.

La prima é la “malattia del sentirsi immortali, immuni da difetti, trascurando i controlli” un corpo che non fa “autocritica, non aggiorna e non cerca di migliorarsi, è un corpo infermo”. Il Papa ha suggerito una “ordinaria visita ai cimiteri, dove vediamo i nomi di tante persone che si consideravano immuni e indispensabili”.

Questa malattia, ha commentato il Papa, “deriva spesso dalla patologia del potere, dal narcisismo che guarda la propria immagine e non vede il volto di Dio impresso” negli altri, sopratutto “i più deboli”. “Antidoto a questa epidemia – ha suggerito il Pontefice – è la grazia di sentirci peccatori, e il dire ‘siamo servi inutili'”.

La secondo è la “malattia del martalismo, che viene da Marta, la malattia della eccessiva operosità”, di coloro che “si immergono nel lavoro trascurando inevitabilmente la parte migliore, il sedersi ai piedi di Gesù”. “Trascurare il necessario riposo – ha ammonito – porta allo stress e alla agitazione” un “tempo di riposo da trascorrere con i familiari è necessario”, come necessario è “rispettare le ferie come momenti di ricarica spirituale e fisica”, ricordando quanto dice il libro del biblico del Quelet, ‘c’è un tempo per ogni cosa’”.

La terza: “malattia dell’impietrimento mentale e spirituale”, “il cuore di pietra e duro collo di coloro che strada facendo perdono serenità interiore audacia e si nascondono sotto le carte diventando macchine di pratiche e non uomini di Dio”, “è pericoloso perdere la sensibilità umana, ed è la malattia di coloro che perdono i sentimenti di Gesù, il cuore col tempo si indurisce e diventa incapace di amare incondizionatamente il padre e il prossimo, essere cristiani infatti – ha ricordato il Papa – significa avere gli stessi sentimenti di distacco, donazione e generosità di Gesù”.

La quarta è la “malattia della eccessiva pianificazione e funzionalismo, quando l’apostolo – ha osservato papa Bergoglio – pianifica tutto minuziosamente e crede che le cose progrediscono diventando così un contabile e un commercialista: preparare tutto e bene è necessario, ma senza voler mai richiudere e pilotare la libertà dello Spirito che è più generosa di ogni pianificazione”. “Si cade in questa malattia – ha denunciato papa Francesco – perché è più comodo adagiarsi nella proprie posizioni immutate”, voler “regolare e addomesticare lo Spirito Santo che è freschezza fantasia, novità”.

La successiva malattia in agguato per ogni chiesa, curia e gruppo di fedeli elencata dal Papa, la quinta, é la “malattia del mal coordinamento: quando i membri perdono coordinamento tra loro” la curia diventa “un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo Spirito di grazia”. Qui il Papa ha esemplificato parlando tra l’altro della “testa che dice al braccio ‘comando io'”.

La sesta é la “malattia dell’alzheimer spirituale, la dimenticanza della storia della salvezza, della storia personale con il Signore, del primo amore: si tratta – ha spiegato papa Francesco – di un declino progressivo delle facoltà spirituali” che “in un tempo più o meno lungo” rende la persona o il gruppo “incapace di un’attività autonoma, in uno stato di assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie: lo vediamo – ha rimarcato – in coloro che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore, dipendono dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie, che costruiscono intorno a sé dei muri e delle abitudini e diventando sempre di più schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani”.

La settima é “la malattia della vanità e vanagloria” di chi vede solo “l’apparenza, i colori delle vesti e le insegne di onorificienza come vero obiettivo della vita, dimenticando le parole di san Paolo”, e qui il Papa ha citato l’invito paolino a non considerare gli altri secondo il proprio interesse. “Questa malattia – ha denunciato il Pontefice davanti alla curia – ci porta ad essere uomini e donne falsi e a vivere un falso misticismo e un falso pietismo san paolo ‘nemici della croce di cristo’ perché si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi”.

L’ottava è la “malattia della schizofrenia esistenziale: avere una doppia vita frutto della ipocrisia del mediocre” e “del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare, coloro che abbandonando il servizio pastorale si limitano a pratiche burocratiche, vivono in un loro mondo parallelo dove mettono da parte ciò che insegnano agli altri e iniziano una vita dissoluta”. “La conversione per questa gravissima malattia – ha rimarcato il Papa dopo una frazione di silenzio – è urgente indispensabile”.

La nona malattia è quella “di chiacchiere, mormorazioni pettegolezzi, ne ho parlato tante volte – ha ricordato – ma non è mai abbastanza: è grave, inizia magari per fare due chiacchiere, e si impadronisce della persona facendola diventare seminatrice di zizzania come Satana”. Questa malattia è “delle persone vigliacche, che non avendo il coraggio di parlare direttamente, parlano dietro le spalle”, e anche a questo proposito il Papa ha citato san Paolo con il suo invito a agire senza mormorare, ed essere irreprensibili e puri. “Guardiamoci – ha ancora esortato papa Francesco – dal terrorismo delle chiacchiere”.

La decima è “la malattia di divinizzare i capi, di coloro che corteggiano i superiori sperando di ottenere la benevolenza. Sono vittime di carrierismo e opportunismo, onorano le persone e non Dio, sono persone meschine, infelici, ispirate solo dal proprio fatale egoismo. Questa malattia – ha osservato papa Bergoglio – potrebbe anche colpire i superiori quando corteggiano loro collaboratori per averne lealtà e dipendenza. Ma il risultato finale – ha sottolineato con forza – è una vera complicità”.

L’undicesima: “la malattia dell’indifferenza verso gli altri, quando ognuno pensa solo a se stesso e perde la sincerità dei rapporti umani, quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli atri, quando per gelosia o scaltrezza si prova gioia nel vedere altro cadere invece di incoraggiarlo e rialzarlo”.

La dodicesima è “la malattia della faccia funerea, delle persone burbere e arcigne che ritengono che per essere seri occorra dipingere il volto di malinconia e trattare gli altri, soprattutto quelli ritenuti inferiori, con rigidezza e arroganza”. La “severità teatrale e pessimismo sterile sono spesso sintomo di insicurezza di sé” ha detto il Papa, che ha invitato a “sforzarsi di essere una persona entusiasta e allegra che trasmette gioia: un cuore pieno di Dio è felice e contagia con la gioia attorno a sé; non perdiamo quello spirito gioioso, pieno di humour e persino autoironico che ci rende persone anche nella situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di santo umorismo e ci farà bene recitare spesso la preghiera di Thomas Moore: io la prego tutti i giorni, mi fa bene”.

La tredicesima malattia, ha spiegato Bergoglio, è quella “dell’accumulare, di chi cerca di riempire un vuoto esistenziale accumulando beni materiali, non per necessità ma solo per sentirsi sicuro”. Il Papa ha ribadito che “il sudario non ha tasche”, cioè che morendo non ci si porta dietro niente “e – ha sottolineato – tutti i tesori terreni, anche se sono regali, non riempiranno quel vuoto”. “A queste persone – ha aggiunto il pontefice – il Signore ripete ‘tu dici sono ricco, non ho bisogno di niente, ma non sai di essere un povero cieco’. L’accumulo appesantisce solamente e rallenta il cammino inesorabilmente”. Ha quindi raccontato un aneddoto: “Un tempo – ha ricordato – i gesuiti spagnoli descrivevano la Compagnia di Gesù come la ‘cavalleria leggera della Chiesa; ebbene, un giovane gesuita che doveva traslocare e stava sistemando il suo bagaglio, tanti regali, oggetti, si sente dire da un vecchio gesuita saggio, ‘questa sarebbe la cavalleria leggera della Chiesa?’ I nostri traslochi”.

Quattordicesima malattia quella “dei circoli chiusi, dove la appartenenza al gruppetto diventa più forte di quella al corpo e a Cristo stesso. Anche questa inizia sempre da buone intenzioni, ma con il passare del tempo schiavizza diventando un cancro” che causa tanto male e scandali, specialmente ai nostri fratelli più piccoli. La autodistruzione o il fuoco amico dei commilitoni è il pericolo più subdolo”: ‘ogni Regno bene diviso in se stesso va in rovina’”.

Infine, “l’ultima malattia – ha detto Bergoglio alla curia romana – è quella del profitto mondano, degli esibizionismi, quando l’apostolo trasforma il suo servizio in potere e il suo potere in merce per ottenere profitti mondani, o per ottenere più potere”. E’ la malattia “delle persone che cercano insaziabilmente di moltiplicare poteri e per questo capaci di calunniare, diffamare e screditare gli altri, persino su giornali e riviste, naturalmente per esibirsi e mostrarsi più capaci degli altri. Fa male al corpo – ha sottolineato il Pontefice – perché porta a usare qualsiasi scopo, spesso in nome della giustizia e della trasparenza”. E a questo punto il Papa ha raccontato del prete che chiamava i giornalisti per spiattellargli i difetti dei confratelli, e lo ha chiamato “poverino”.

18 Giugno 2013

Discorso d’apertura. Papa Francesco Convegno Diocesano di Roma 17 Giugno 2013

Filed under: articoli,PAPA — giacomo.campanile @ 11:25

immagineAl via ieri sera in un’Aula Paolo VI gremita e festosa, il Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma sul tema:“Cristo, tu ci sei necessario!”- La responsabilità dei battezzati nell’annuncio di Gesù Cristo. Ad aprire i lavori, Papa Francesco, che prima del suo ingresso, si è fermato a salutare centinaia di fedeli che hanno seguito l’evento dall’esterno attraverso i maxischermi. “Io non mi vergogno del Vangelo” questo il titolo della catechesi tenuta dal Pontefice e Vescovo di Roma, al quale il cardinale vicario Agostino Vallini ha rinnovato la fedeltà nel Magistero, ribadendo l’attuale impegno della Diocesi all’evangelizzazione “in una città attraversata da profondi cambiamenti”. Un interminabile applauso, l’Aula Nervi accoglie, al suo ingresso, un sorridente Papa Francesco.Al saluto commosso del cardinale Vicario è seguita una prima Lettura, quindi la Catechesi del Pontefice, da cui prendono vita, preghiere e meditazioni successive incentrate sul Battesimo, l’Evangelizzazione, la vicinanza alla cittadinanza romana, specie ai poveri e ai piccoli. Il clima è di gioia e di raccoglimento insieme. “Io non mi vergogno del Vangelo… Da battezzati non siete più sotto la legge ma sotto la grazia”. Il Papa trae spunto da queste parole di San Paolo ai Romani per spiegare nella sua catechesi, cosa significa vivere sotto la grazia e in che rapporto ciò è con l’evangelizzazione. Grazia è la nostra gioia, è la nostra libertà di figli di Dio è la rivoluzione che ci ha cambiato il cuore da peccatori a santi, come San Paolo. Questa grazia dataci gratuitamente dobbiamo donarla altrettanto gratuitamente al prossimo, spiega Papa Francesco. Quindi il riferimento va alla realtà romana e a chi cerca inutilmente speranza da una società che, però, non può darla:
“E in mezzo a tanti dolori, a tanti problemi che ci sono qui, a Roma, c’è gente che vive senza speranza. Ma, ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza speranza, e sono immerse in una profonda tristezza da cui cercano di uscire credendo di trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel gioco d’azzardo, nel potere del denaro, nella sessualità senza regole …”.
Noi dobbiamo offrire speranza con la nostra gioia, dice il Papa ai fedeli che lo interrompono con gli applausi più volte. E come? Con il sorriso e soprattutto con la testimonianza. Testimoniare richiede coraggio e pazienza, le due virtù di san Paolo e di tutti i cristiani, con le quali uscire andando incontro alla gente, a partire dalle periferie esistenziali. Quindi l’invito alla comunità:
“Ma, cosa dobbiamo fare con il coraggio e con la pazienza? Uscire da noi stessi: uscire da noi stessi. Uscire dalle nostre comunità per andare lì, dove gli uomini e le donne vivono, lavorano e soffrono e annunciare loro la misericordia del Padre che si è fatta conoscere agli uomini in Gesù Cristo di Nazareth. Annunciare questa grazia che ci è stata regalata di Gesù”.

C’è un altro nemico, conclude il Papa,che si può opporre all’evangelizzazione è la delusione, è la tristezza che instilla il diavolo in noi: questa è lotta spirituale,questo è il ”martirio” di tutti i cristiani, a cui occorre prepararsi. Ma il messaggio finale è:non abbiate paura.Trascrizione di lavoro della Radio Vaticana del la Catechesi di Papa Francesco
Buonasera a tutti, cari fratelli e sorelle!
L’apostolo Paolo finiva questo brano della sua lettera ai nostri antenati con queste parole: non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia. E questa è la nostra vita: camminare sotto la grazia, perché il Signore ci ha voluto bene, ci ha salvati, ci ha perdonati. Tutto ha fatto il Signore, e quella è la grazia, la grazia di Dio. Noi siamo in cammino sotto la grazia di Dio, che è venuta da noi in Gesù Cristo che ci ha salvato. Ma questo ci apre verso un orizzonte grande, e questo è per noi gioia. “Voi non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Ma cosa significa, questo “vivere sotto la grazia”? Cercheremo di spiegare qualcosa di che significa vivere sotto la grazia. E’ la nostra gioia, è la nostra libertà. Noi siamo liberi. Perché? Perché viviamo sotto la grazia. Noi non siamo più schiavi della Legge: siamo liberi perché Gesù Cristo ci ha liberati, ci ha dato la libertà, quella piena libertà di figli di Dio, che viviamo sotto la grazia. Questo è un tesoro. Cercherò di spiegare un po’ questo mistero tanto bello, tanto grande. Vivere sotto la grazia.
Quest’anno avete lavorato tanto sul Battesimo e anche sul rinnovamento della pastorale post-battesimale. Il Battesimo, questo passare da “sotto la Legge” a “sotto la grazia”, è una rivoluzione. Sono tanti i rivoluzionari nella storia, eh?, sono stati tanti. Ma nessuno ha avuto la forza di questa rivoluzione che ci ha portato Gesù. Una rivoluzione per trasformare la storia che cambia in profondità il cuore dell’uomo. Le rivoluzioni della storia hanno cambiato i sistemi politici, economici, ma nessuna di esse ha veramente modificato il cuore dell’uomo. La vera rivoluzione, quella che trasforma radicalmente la vita, l’ha compiuta Gesù Cristo attraverso la sua Resurrezione: la Croce e la Resurrezione. E Benedetto XVI diceva, di questa rivoluzione, che “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Ma pensiamo questo, eh? E’ la più grande mutazione della storia dell’umanità, è una vera rivoluzione e noi siamo rivoluzionarie e rivoluzionari di questa rivoluzione, perché noi andiamo per questa strada della più grande mutazione della storia dell’umanità. Un cristiano, se non è rivoluzionario, in questo tempo, non è cristiano! Deve essere rivoluzionario per la grazia! Proprio la grazia che il Padre ci dà attraverso Gesù Cristo crocifisso, morto e risorto fa di noi rivoluzionari, perché – e cito nuovamente Benedetto – “è la più grande mutazione della storia dell’umanità”. Perché cambia il cuore. Il profeta Ezechiele lo diceva: “Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”. E questa è l’esperienza che vive l’Apostolo Paolo: dopo avere incontrato Gesù sulla via di Damasco, cambia radicalmente la sua prospettiva di vita e riceve il Battesimo. Dio trasforma il suo cuore! Ma pensate, eh?: un persecutore, uno che inseguiva la Chiesa e i cristiani, diventa un santo, un cristiano fino alle ossa, proprio un cristiano vero! Prima è un violento persecutore, ora diventa un apostolo, un testimone coraggioso di Gesù Cristo, al punto di non aver paura di subire il martirio. Quel Saulo che voleva uccidere chi annunziava il Vangelo, alla fine dona la sua vita per annunciare il Vangelo. E’ questo il mutamento, il più grande mutamento del quale ci parlava Papa Benedetto. Ti cambia il cuore, da peccatore – da peccatore: tutti siamo peccatori – ti trasforma in santo. E ciascuno di noi non è peccatore? Ma, se c’è qualcuno, alzi la mano! Ah, guardi … lavoro per lei, eh? Tutti siamo peccatori, eh?, tutti! Tutti siamo peccatori! Ma la grazia di Gesù Cristo ci salva dal peccato: ci salva! Tutti, se noi accogliamo la grazia di Gesù Cristo, lui cambia il nostro cuore e da peccatori ci fa santi. Per diventare santi non è necessario girare gli occhi e guardare là, o avere un po’ una faccia di immaginetta, tutta così, no? No, no, non è necessario quello! Una sola cosa è necessaria per diventare santi: accogliere la grazia che il Padre ci dà in Gesù Cristo. Ecco, questa grazia cambia il nostro cuore. Continuiamo, noi, ad essere peccatori, perché tutti siamo deboli. Ma anche con questa grazia che ci fa sentire che il Signore è buono, che il Signore è misericordioso, che il Signore ci aspetta, che il Signore ci perdona, questa grazia grande, che cambia il nostro cuore.
E, diceva il profeta Ezechiele, che da un cuore di pietra lo cambia in un cuore di carne. Cosa vuol dire, quello? Un cuore che ama, un cuore che soffre, un cuore che gioisce con gli altri, un cuore colmo di tenerezza per chi, portando impresse le ferite della vita, si sente alla periferia della società. L’amore è la più grande forza di trasformazione della realtà, perché abbatte i muri dell’egoismo e colma i fossati che ci tengono lontani gli uni dagli altri. E questo è l’amore che viene da un cuore mutato, da un cuore di pietra che è trasformato in un cuore di carne, un cuore umano. E questo lo fa la grazia, la grazia di Gesù Cristo che noi tutti abbiamo ricevuto. Alcuni di voi, quanto costa la grazia, lo sa? Dove si vende la grazia? Dove posso comprare la grazia? Nessuno sa dirlo: no. Vado a comprarla dalla segretaria parrocchiale, forse lei la vende, la grazia? Qualche prete la vende, la grazia? Ma, sentite bene questo: la grazia non si compra e non si vende. E’ un regalo di Dio in Gesù Cristo. Gesù Cristo ci da la grazia. E’ l’unico che ci da la grazia. E’ un regalo: ce lo offre, a noi. Prendiamola. E’ bello questo. L’amore di Gesù è così: ci dà la grazia gratuitamente. Gratuitamente. E noi dobbiamo darla ai fratelli, alle sorelle, gratuitamente. E’ un po’ triste quando uno incontra alcuni che vendono la grazia: nella storia della Chiesa alcune volte è accaduto, questo, e ha fatto tanto male, tanto male. Ma la grazia non si può vendere: la ricevi gratuitamente e la dai gratuitamente. E questa è la grazia di Gesù Cristo.
E in mezzo a tanti dolori, a tanti problemi che ci sono qui, a Roma, c’è gente che vive senza speranza. Ma, ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza speranza, e sono immerse in una profonda tristezza da cui cercano di uscire credendo di trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel gioco d’azzardo, nel potere del denaro, nella sessualità senza regole … Ma si ritrovano ancora più delusi e talvolta sfogano la loro rabbia verso la vita con comportamenti violenti e indegni dell’uomo. Quante persone tristi, quante persone tristi, senza speranza! Anche pensate a tanti giovani che, dopo aver sperimentato tante cose, non trovano senso alla vita e cercano il suicidio, come soluzione. Voi sapete quanti suicidi di giovani ci sono oggi, nel mondo? Ma, la cifra è alta. Perché? Non hanno speranza. Hanno provato tante cose e la società, che è crudele – è crudele! – non ti può dare speranza. E la speranza è come la grazia: non si può comprare, è un dono di Dio. E noi dobbiamo offrire la speranza cristiana con la nostra testimonianza, con la nostra libertà, con la nostra gioia. Il regalo che ci dà Dio della grazia, porta la speranza. Noi, che abbiamo la gioia di accorgerci che non siamo orfani, che abbiamo un Padre, possiamo essere indifferenti verso questa città che ci chiede, forse anche inconsapevolmente, senza saperlo, una speranza che l’aiuti a guardare il futuro con maggiore fiducia e serenità? Noi non possiamo essere indifferenti. Ma come possiamo fare questo? Come possiamo andare avanti e offrire la speranza? Andare per la strada: “Ah, io ho la speranza!”? No. Con la vostra testimonianza, con il vostro sorriso, dire: “Io credo che ho un Padre”. E l’annunzio del Vangelo è questo: con la mia parola, con la mia testimonianza dire: “Io ho un Padre. Non siamo orfani. Abbiamo un Padre”, e condividere questa filiazione con il Padre e con tutti gli altri. “Ah, padre, adesso capisco: si tratta di convincere gli altri, di fare proseliti!”. No: niente di quello. Il Vangelo è come il seme: tu lo semini, lo semini con la tua parola e con la tua testimonianza. E poi, non fai la statistica di come è andato quello: la fa Dio. Lui fa crescere questo seme. Ma dobbiamo seminare con quella certezza che l’acqua la dà Lui, la crescita la da Lui. E anche noi, non facciamo la raccolta: la farà un altro prete, un altro laico, un’altra laica, un altro la farà. Ma la gioia di seminare con la testimonianza, perché con la parola solo non basta: non basta. Parola senza testimonianza è aria. Le parole non bastano. La vera testimonianza che dice Paolo.
L’annunzio del Vangelo è destinato innanzitutto ai poveri, a quanti mancano spesso del necessario per condurre una vita dignitosa. A loro è annunciato per primi il lieto messaggio che Dio li ama con predilezione e viene a visitarli attraverso le opere di carità che i discepoli di Cristo compiono in suo nome. Prima di tutto, andare ai poveri: quello è il primo. Nel momento del Giudizio finale, possiamo leggere in Matteo 25, tutti saremo giudicati su questo. Ma alcuni, poi, pensano che il messaggio di Gesù sia destinato a coloro che non hanno una preparazione culturale: ah, no! No. L’apostolo afferma con forza che il Vangelo è per tutti, anche per i dotti. La sapienza, che deriva dalla Resurrezione, non si oppone a quella umana ma, al contrario, la purifica, la eleva. La Chiesa è sempre stata presente nei luoghi dove lavora la cultura. Ma il primo passo, sempre la priorità ai poveri. Ma anche dobbiamo andare alle frontiere dell’intelletto, della cultura, nell’altezza del dialogo, del dialogo che fa la pace, del dialogo intellettuale, del dialogo ragionevole. E’ per tutti, il Vangelo, eh? Questo di andare verso i poveri non significa che noi dobbiamo diventare pauperismi, o una sorta di barboni spirituali: no, no, non significa quello, non significa. Significa che dobbiamo andare verso la carne di Gesù che soffre, ma anche soffre la carne di Gesù di quelli che non lo conoscono con il loro studio, con la loro intelligenza, con la loro cultura … Dobbiamo andare là! Perciò, a me piace usare l’espressione “andare verso le periferie”, le periferie esistenziali. Tutti, tutti quelli, dalla povertà fisica e reale alla povertà intellettuale, che è reale, pure. Tutte le periferie, tutti gli incroci: andare là. E là, seminare il seme del Vangelo, con la parola e con la testimonianza.
E questo significa che noi dobbiamo avere coraggio. Paolo VI diceva che lui non capiva i cristiani scoraggiati: non li capiva. Questi cristiani tristi, ansiosi, questi cristiani che uno pensa se credono in Cristo o nella dea Lamentela: non si sa mai. Ma tutti i giorni si lamentano, si lamentano … E come va il mondo, guarda, che calamità, le calamità … Ma, pensa, il mondo non è peggio di cinque secoli fa, no? Il mondo è il mondo: è sempre stato il mondo. E quando uno si lamenta e va così, non si può far niente, ah, la gioventù, e così, no? – ma, voi conoscete … io vi faccio una domanda: voi conoscete cristiani così? Ce ne sono, ce ne sono, eh? Ma, il cristiano dev’essere coraggioso e davanti al problema, davanti ad una crisi sociale, religiosa deve avere il coraggio di andare avanti, di andare avanti con coraggio. E quando non si può far niente, con pazienza: sopportando. Sopportare. Coraggio e pazienza, queste due virtù di Paolo. Coraggio: andare avanti, fare le cose, dare testimonianza forte: avanti! Sopportare, portare sulle spalle le cose che non si possono cambiare ancora. Ma andare avanti con questa pazienza, con questa pazienza che ci dà la grazia. Ma, cosa dobbiamo fare con il coraggio e con la pazienza? Uscire da noi stessi: uscire da noi stessi. Uscire dalle nostre comunità per andare lì, dove gli uomini e le donne vivono, lavorano e soffrono e annunciare loro la misericordia del Padre che si è fatta conoscere agli uomini in Gesù Cristo di Nazareth. Annunciare questa grazia che ci è stata regalata di Gesù. Se ai sacerdoti ho chiesto, Giovedì Santo, di essere pastori con l’odore delle pecore, a voi, cari fratelli e sorelle, dico: siate ovunque portatori della Parola di vita nei nostri quartieri, nei luoghi di lavoro e dovunque le persone si ritrovino e sviluppino relazioni. Voi dovete andare fuori. Io non capisco le comunità cristiane che sono chiuse in parrocchia … Ma voglio dirvi una cosa, eh? Nel Vangelo è bello quel brano che ci parla del pastore che, quando torna, si accorge che manca una e lascia le 99 e va a cercare una. Ma, fratelli e sorelle, abbiamo una: ci mancano 99! Dobbiamo uscire, dobbiamo uscire da loro! Ma, in questa cultura, diciamoci la verità: in questa cultura ne abbiamo soltanto una, siamo minoranza, e noi sentiamo il fervore, lo zelo apostolico di andare e uscire e trovare le altre 99? Eh, quella è una responsabilità grande, e dobbiamo chiedere al Signore la grazia della generosità e il coraggio e la pazienza per uscire, per uscire ad annunziare il Vangelo. Ah, questo è difficile. E’ più facile restare a casa, con quella unica pecorella, eh? E’ più facile! Eh, con quella pecorella, pettinarla, carezzarla … ma a noi preti, anche a voi cristiani, tutti, il Signore ci vuole pastori, non pettinatori di pecorelle: pastori! E quando una comunità è chiusa, sempre tra le stesse persone che parlano, e così, questa comunità non è una comunità che dà vita. E’ una comunità sterile, non è feconda. La fecondità del Vangelo viene per la grazia di Gesù Cristo ma attraverso noi, la nostra predicazione, il nostro coraggio, la nostra pazienza.
Viene un po’ lunga, no?, la cosa? Eh? Ma, non è facile. E dobbiamo dirci la verità: il lavoro di evangelizzare, di portare avanti la grazia gratuitamente non è facile. Perché non siamo noi soli con Gesù Cristo. Anche c’è un avversario, un nemico che vuole tenere gli uomini separati da Dio. E per questo instilla nei cuori la delusione, quando noi non vediamo ricompensato subito il nostro impegno apostolico. Il diavolo ogni giorno getta nei nostri cuori semi di pessimismo e di amarezza, e uno si scoraggia: noi ci scoraggiamo. “Eh, non va, abbiamo fatto questo, non va, abbiamo fatto quell’altro e non va, e guarda tu quella religione come attira tanta gente e noi no …”: è il diavolo che mette questo, no? Dobbiamo prepararci alla lotta spirituale. E questo è importante. Non si può predicare il Vangelo senza questa lotta spirituale: una lotta di tutti i giorni contro la tristezza, contro l’amarezza, contro il pessimismo … una lotta di tutti i giorni. Seminare non è facile: è più bello raccogliere. Ma seminare non è facile, e questa è la lotta di tutti i giorni dei cristiani.
Paolo diceva che lui aveva l’urgenza di predicare e lui aveva l’esperienza di questa lotta spirituale, quando diceva: “Ho nella mia carne una spina di satana che tutti i giorni la sento”. Anche noi abbiamo spine di satana che ci fanno soffrire e ci fanno andare con difficoltà e spesso ci scoraggiano. Prepararci alla lotta spirituale: l’evangelizzazione chiede da noi un vero coraggio anche per questa lotta interiore, eh?, nel nostro cuore, per dire con la preghiera, con la mortificazione, con la voglia di seguire Gesù, con i Sacramenti che sono un incontro con Gesù, dire a Gesù: Grazie, grazie per la Tua grazia. Voglio portarla agli altri. Ma questo è lavoro: questo è lavoro. Questo si chiama – non vi spaventate – si chiama martirio: il martirio è questo. Fare la lotta, tutti i giorni, per testimoniare. Questo è martirio. E ad alcuni il Signore chiede il martirio della vita. Ma c’è il martirio di tutti i giorni, di tutte le ore: la testimonianza contro lo spirito del male che non vuole che noi siamo evangelizzatori.
E adesso, vorrei finire pensando una cosa. In questo tempo, in cui la gratuità sembra affievolirsi nelle relazioni interpersonali, perché tutto si vende e tutto si compra e la gratuità è difficile trovarla, noi cristiani annunciamo un Dio che per essere nostro amico non chiede nulla se non di essere accolto. L’unica cosa che chiede Gesù: essere accolto. Pensiamo a quanti vivono nella disperazione perché non hanno mai incontrato qualcuno che abbia loro mostrato attenzione, li abbia consolati, li abbia fatti sentire preziosi e importanti. Noi, discepoli del Crocifisso, possiamo rifiutarci di andare in quei luoghi dove nessuno vuole andare per la paura di comprometterci e del giudizio altrui, e così negare a questi nostri fratelli l’annuncio della Parola di Dio? La gratuità: noi abbiamo ricevuto questa gratuità, questa grazia, gratuitamente; dobbiamo darla, gratuitamente. E questo è quello che alla fine voglio dirvi. Non avere paura: non avere paura. Non avere paura dell’amore, dell’amore di Dio, di nostro Padre. Non avere paura. Non avere paura di ricevere la grazia di Gesù Cristo, non avere paura della nostra libertà che viene data dalla grazia di Gesù Cristo o, come diceva Paolo: “Non siete più sotto la Legge, ma sotto la grazia”. Non avere paura della grazia, non avere paura di uscire da noi stessi, non avere paura di uscire dalle nostre comunità cristiane per andare a trovare quelle 99 che non sono a casa. E andare a dialogare con loro, e dire loro che cosa pensiamo, andare a mostrare il nostro amore che è l’amore di Dio.
Cari, cari fratelli e sorelle: non abbiamo paura! Andiamo avanti per dire ai nostri fratelli e alle nostre sorelle che noi siamo sotto la grazia, che Gesù ci da la grazia e quello non costa niente: soltanto, riceverla. Avanti!

20 Maggio 2013

Papa Francesco ha fatto preghiere di liberazione dal Demonio in piazza San Pietro

Filed under: articoli,PAPA — giacomo.campanile @ 19:57

Siamo in piazza San Pietro, esattamente nei pressi dell’Arco delle Campane. La Santa Messa di Pentecoste (domenica 19 maggio 2013) è finita da poco. Papa Francesco si avvia – come al solito – verso i malati che hanno partecipato alla celebrazione. Il Pontefice si avvicina ad un ragazzo. Il sacerdote che lo accompagna lo presenta al Papa con qualche parola che non si riesce a cogliere. Ma l’espressione di Francesco cambia improvvisamente. Il Papa appare pensoso e concentrato e stende le mani sul giovane pregando intensamente.
Gli esorcisti che hanno visto le immagini che qui riportiamo non hanno dubbi: si è trattato di una preghiera di liberazione dal Maligno o di un vero e proprio esorcismo.

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19 Maggio 2013

Ricordati di santificare le feste. Il terzo comandamento. 2024

Filed under: articoli,PAPA — giacomo.campanile @ 09:23

Ed eccoci al terzo comandamento con il quale si chiude la prima tavola della Legge data da Dio a Mosè sul monte Sinai: “Ricordati di santificare le feste” (Es 20,8 e Dt 5,16).

Il conoscere e l’analizzare questo comandamento ci serve sia per comprenderne il suo significato originario, così come risuonava presso il popolo d’Israele, sia per la sua attuazione per noi cristiani oggi.

Il comandamento di santificare “il sabato” per il popolo ebreo era collegato al racconto della creazione:

“Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. Non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha consacrato”(Es 20, 8-11).

Proviamo a cogliere alcuni significati profondi che scaturiscono da questo terzo comandamento.

Non solo gli uomini, ma anche gli animali devono terminare la settimana di lavoro con un giorno di riposo. Questo comandamento impone di fatto un doppio obbligo: quello di lavorare durante i giorni di lavoro e quello di riposare il giorno di sabato. Si impone un’alternanza di lavoro e riposo. Il settimo giorno è il sabato in onore del Signore.

Questa richiesta del riposo del sabato va collegata con il riposo di Dio. Anche l’uomo nel settimo giorno deve cessare dal suo lavoro, così da prendere parte al riposo di Dio. Il comandamento vuole farci prendere coscienza di questo.
Prima ancora di accennare al culto che si deve rendere a Dio, c’è l’idea fondamentale che il settimo giorno Dio ce lo dà per offrirci un regolare tempo di riposo. Si tratta di un giorno messo a nostra disposizione, un tempo di libertà, perché potessimo respirare.

Israele deve prendere coscienza di essere stato schiavo in Egitto ed è stato liberato dalla mano potente di Dio. In Egitto non poteva riposare a causa della schiavitù in cui si trovava. Ora, liberato da Dio, deve far partecipe gli altri della liberazione che gli ha regalato Dio. Ma c’è anche qualcosa di più. Fino a che viveva in terra straniera Israele non poteva confessare più la sua fede dirigendosi al tempio e offrirvi i sacrifici. Adesso osservando il sabato, non passa settimana senza ricordarsi di Dio.

Ma leggiamo questo comandamento nell’ottica cristiana. È un invito a fare un raffronto su come viviamo la domenica, il giorno del Signore.

Sappiamo come i primi cristiani cominciarono a prolungare il culto del sabato alle prime ore del mattino successivo, per commemorare la resurrezione di Gesù e la riunione degli apostoli dove egli gli apparve per la prima volta.

Alla fine del 1° sec., i cristiani consacrarono alle cerimonie e al riposo l’intero primo giorno della settimana, mantenendo il rito del sabato, “l’ottavo giorno”. Con la diffusione del cristianesimo si limitò alla sola domenica il giorno di festa. La verità spirituale del sabato biblico si compie così nella domenica cristiana, giorno della resurrezione di Cristo, “giorno del Signore” per eccellenza.

In questo comandamento chiediamoci quale significato assume la domenica cristiana; cosa ci richiama questo terzo comandamento, soprattutto oggi?

È bene ricordare cosa ci dice San Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Dies Domini del 1998. La festa dev’essere per il cristiano “giorno del Signore, di Cristo, della Chiesa, dell’uomo e giorno dei giorni”. Questa è la domenica.

L’uomo rischia di lasciarsi travolgere dagli impegni e di consumare tutto il proprio tempo, cioè tutta la vita, nelle diverse attività, dimenticandosi di Dio.

Con questo comandamento Dio domanda all’uomo di lasciargli spazio nel proprio tempo, cioè nella propria vita, e invita a rendere sacro il tempo, riconoscendo Dio come centro dell’esistenza.

Ecco perché dobbiamo richiamare il valore della domenica. E continuiamo a chiamarla con il suo giusto nome, anziché week-end (“fine settimane”), cioè porzione di giorni monotoni e identici.

Pensiamo alle tante domeniche a cui i cristiani non danno più il loro giusto significato. Ci si dedica o all’eccessivo continuo lavoro o alla semplice astensione dalle occupazioni ordinarie, alla pratica degli hobby o giornate da trascorrere ai grandi centri commerciali.

Come deve essere invece vissuta la domenica? È il giorno in cui Dio ci chiede di prendere parte al suo riposo, ma è anche il tempo santo che appartiene a noi e a Dio. Ciò che è santo è anche salutare. Diventa, quindi, rimedio contro la frenesia del vivere moderno, riacquistiamo la calma. È il giorno santo perché dinanzi alle deformazioni prodotte in noi dalle ferite di ogni giorno, veniamo riportati nella condizione a cui Dio ci ha destinati. È anche il “giorno sacro”, il giorno cioè in cui partecipiamo alla santa Eucarestia domenicale; è il giorno riservato all’incontro speciale con il Signore morto e risorto, momento di forte intimità con Cristo e la sua Chiesa, sua sposa che siamo noi.

L’obbligo di partecipare alla Messa domenicale si comprende alla luce di quella profonda esperienza spirituale e religiosa. È tempo per Dio, per coglierne la presenza e mettersi in ascolto. Ma la domenica è anche il tempo da dedicare di più alla famiglia, per tornare a gustare la bellezza dello stare insieme e l’intimità degli affetti; è il tempo per la comunità, per riscoprire la solidarietà, occasione e stimolo per approfondire rapporti fraterni e sociali all’insegna della gratuità, dell’amicizia e dell’attenzione soprattutto per chi è solo, ammalato o anziano.

Santificare la festa è quindi santificare sè stessi, sostare per contemplare Dio, giorno del Signore per celebrare la pasqua della settimana, occasione privilegiata per stare in famiglia, tempo prezioso per vivere l’impegno della carità. Un tempo privilegiato per un assaggio di eternità

Papa Francesco ai Movimenti e alle Aggregazioni laicali in Piazza San Pietro

immagine19 maggio 2013 Avere il coraggio della fede senza essere cristiani inamidati, costruire una cultura dell’incontro, aiutare il prossimo soprattutto le famiglie, il cui destino è più importante dei bilanci delle banche. Questo in sintesi quanto espresso da Papa Francesco nel discorso rivolto stasera alle circa 200 mila persone che hanno gremito Piazza San Pietro per partecipare alla Veglia di Pentecoste dedicata ai Movimenti, le nuove Comunità, le Associazioni e le Aggregazioni laicali.Forti anche le parole del Pontefice sulle persecuzioni contro i cristiani nel mondo: ci sono più martiri oggi – ha detto – che nei primi secoli della Chiesa. “Almeno 150 diverse realtà ecclesiali, realtà ben conosciute e radicate, ma anche nuove realtà sorte per la chiamata alla nuova evangelizzazione. Vengono da ogni parte del mondo e attestano il grande dono che lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa in questi cinquant’anni dall’inizio del Concilio”. E’ mons. Rino Fisichella, presidente del dicastero per la Nuova Evangelizzazione, a presentare al Papa la piazza “riempita, dice, all’inverosimile”. Ciò che ha spinto quanto sono qui , continua “è ricercare la via più idonea e coerente per vivere e testimoniare il Vangelo nel mondo di oggi.
Dell’impegno a vivere coerentemente il Vangelo avevano dato testimonianza poco prima aderenti a Rinnovamento nello Spirito, Mov. dei Focolari, Cellule parrocchiali di animazione, Nuovi orizzonti, Comunione e Liberazione, Neocatecumenali, e Sant’Egidio. Parlando del superamento delle difficoltà all’interno della vita di coppia e di famiglia, del passaggio da una vita lontana dalla fede all’incontro con Cristo, dell’annuncio del Vangelo nel proprio ambiente di studio e di lavoro, dell’incontro con Gesù nei poveri. Saranno poi Paul Bhatti, fratello di Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze del governo pakistano, ucciso da estremisti islamici a 43 anni e Johm Waters scrittore e giornalista irlandese passato da anni di lontananza alla fede, a raccontare di sé di fronte al Papa: “Sono molto grato a papa Francesco per avermi dato l’opportunità di condividere, con tutti voi, i dolori e le speranze dei cristiani del Pakistan “ esordisce Paul Bhatti:
“Nel mio Paese, i cristiani sono una piccola minoranza, molto povera. .. Molte volte subiamo discriminazioni, e anche violenze. … Ma, come discepoli di Gesù, vogliamo essere uomini di pace, in dialogo con i nostri fratelli musulmani e delle altre religioni. Vogliamo testimoniare con l’amore e la misericordia la nostra fede in Gesù. E’ stata questa la testimonianza del mio fratello più giovane, Shahbaz Bhatti, che ha dato tutta la sua vita per il Vangelo”.
Per tutta la sua vita, racconta Paul Bhatti, nonostante le minacce, è stato fedele alla sua missione di essere vicino ai poveri, di testimoniare l’amore di Gesù nella società violenta del Pakistan, e le sue parole e i suoi gesti hanno dato coraggio ai cristiani pakistani. Ora tanti hanno raccolto la sua testimonianza e “vogliono continuare a testimoniare il Vangelo della mitezza, del dialogo, dell’amore per i nemici”“Questa è la storia della mia vita, una vita vissuta dentro la falsa realtà che l’uomo ha costruito per sentirsi sicuro”, dichiara John Waters raccontando come a lungo avesse creduto che Dio fosse incompatibile con la sua ricerca della libertà. Poi la scoperta di quanto una vita senza di Lui fosse insoddisfacente:
“La natura dell’uomo è una continua domanda. Tu e io siamo fatti di desiderio. Non siamo fatti per accontentarci di una soddisfazione timida e fiacca…Questo è il motivo per cui Gesù è venuto fra noi: per mostrarci tutto quello che la vita umana può essere”.
Aiutato da alcuni amici, conclude, Waters: “ho imparato che il desiderio della Grandezza di Dio non era un bel concetto astratto, ma un fatto al centro della mia struttura e della mia natura…conoscere Cristo è conoscere me stesso, capire come sono fatto e diventare libero”.
Alle 17 e 30 l’arrivo di Papa Francesco nella piazza. Per mezz’ora percorre con la jeep bianca scoperta tutti i settori stracolmi e parte di via della Conciliazione. Poi salito sul sagrato, il momento tanto atteso del dialogo tra lui e le migliaia di persone presenti. Non un intervento scritto, ma la risposta a braccio a quattro domande.
Alla prima: “Come ha potuto raggiungere Lei nella Sua vita la certezza sulla fede?” Il Papa risponde:
“Ho ricevuto il primo annuncio cristiano proprio dalla mia nonna, no?, è bellissimo, quello! Il primo annuncio in casa, con la famiglia, no? E questo mi fa pensare all’amore di tante mamme e tante nonne, nella trasmissione della fede. Noi non troviamo la fede un po’ nell’astratto, no: sempre è una persona che predica, che ci dice chi è Gesù, ti da la fede, ti da il primo annuncio… E questa esperienza della fede è importante. Noi diciamo che dobbiamo cercare Dio, andare da Lui a chiedere perdono … ma quando noi andiamo, Lui ci aspetta, Lui è prima! …. Voi parlavate della fragilità della fede: come si fa per vincerla. Il nemico più grande che ha la fragilità, è curioso, eh?, è la paura. Ma non abbiate paura! Siamo fragili, ma lo sappiamo. Ma Lui è più forte!Come possiamo comunicare in modo efficace la fede oggi? E’ la seconda domanda:”Dirò tre parole soltanto. Primo: Gesù. Chi è la cosa più importante? Gesù. Se noi andiamo avanti con l’organizzazione, con altre cose, con belle cose pure, ma senza Gesù, non andiamo, la cosa non va. La seconda parola è la preghiera. Guardare il volto di Dio, ma soprattutto, e questo è collegato con quello che ho detto prima, sentirsi guardati. La terza è la testimonianza”.

Alla domanda: “Come possiamo vivere una Chiesa povera e per i poveri? Quale contributo possiamo dare per affrontare la grave crisi di oggi? Papa Francesco risponde che vivere il Vangelo è il primo contributo che possiamo dare:

“La Chiesa non è un movimento politico, né una struttura ben organizzata, ma, come dice Gesù, è sale della terra e luce del mondo, è chiamata a rendere presente nella società il lievito del Regno di Dio; e lo fa prima di tutto con la testimonianza dell’amore fraterno, della solidarietà, della condivisione”.

di Giacomo Campanile
redazione@vivereroma.org

16 Maggio 2013

Papa Francesco. No a carrierismo nella Chiesa. I pastori siano al servizio del popolo di Dio

Filed under: articoli,PAPA — giacomo.campanile @ 05:24

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immagine«Quando un prete, un vescovo va dietro ai soldi, il popolo non lo ama e quello è un segno. Ma lui stesso finisce male…»
Nella messa a Santa Marta prima dell’udienza generale il Papa spiega che San Paolo ricorda di aver lavorato con le sue mani: «Non aveva un conto in banca, lavorava!». Poi scandisce: «E quando un vescovo, un prete va sulla strada della vanità, entra nello spirito del carrierismo e fa tanto male alla Chiesa, fa il ridicolo alla fine, si vanta, gli piace farsi vedere, tutto potente… E il popolo non ama quello!». Sono la «ricchezza» e la «vanità» le due tentazioni dalle quali devono guardarsi vescovi e preti, dice. E chiede di pregare perché siano «pastori» e non «lupi».
Il Papa denuncia il carrierismo, la «mondanità spirituale», come il pericolo più grande della Chiesa. La sua riforma si fonda su un richiamo continuo allo spirito evangelico. «Alla fine un vescovo non è vescovo per se stesso, è per il popolo; e un prete non è prete per se stesso, è per il popolo». Il servizio proprio del pastore è «proteggere il suo gregge dai lupi», spiega nell’omelia a Santa Marta. «Quando il vescovo fa così crea un bel rapporto col popolo, come il vescovo Paolo lo ha fatto col suo popolo: c’è un amore fra di loro, un vero amore, e la Chiesa diventa unita». Per questo «noi abbiamo bisogno delle vostre preghiere», aggiunge, «perché anche il vescovo e il prete possono essere tentati».  Le tentazioni sono quelle di cui scriveva Sant’Agostino, cita Papa Bergoglio: «La ricchezza, che può diventare avarizia, e la vanità». Quando un vescovo o un prete «si approfitta delle pecore per se stesso, il movimento cambia: non è il prete, il vescovo per il popolo, ma il prete e il vescovo che prende dal popolo». L’autore delle «Confessioni», ricorda il Papa, dice che costui «prende la carne per mangiarla alla pecorella, si approfitta; fa negozi ed è attaccato ai soldi; diventa avaro e anche tante volte simoniaco. O se ne approfitta della lana per la vanità, per vantarsi»  Papa Francesco invita a pregare per i proprio pastori «perché siamo poveri, perché siamo umili, miti, al servizio del popolo». Il Papa rimanda al capitolo 20 degli Atti degli Apostoli «dove Paolo dice: vegliate su voi stessi e su tutto il gregge. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé». Ed esclama ai fedeli: «Leggete questa bella pagina e leggendola pregate, pregate per noi vescovi e per i preti. Ne abbiamo tanto bisogno per rimanere fedeli, per essere uomini che vegliano sul gregge e anche su noi stessi, che fanno la veglia proprio, che il loro cuore sia sempre rivolto al suo gregge. Che il Signore ci difenda dalle tentazioni, perché se noi andiamo sulla strada delle ricchezze, se andiamo sulla strada della vanità, diventiamo lupi e non pastori. Pregate per questo, leggete questo e pregate».

di Giacomo Campanile
redazione@vivereroma.org

24 Aprile 2013

Festa di san Marco Evangelista

Filed under: articoli,SANTI — giacomo.campanile @ 22:46
immagineFesta di san Marco, Evangelista, che a Gerusalemme dapprima accompagnò san Paolo nel suo apostolato, poi seguì i passi di san Pietro, che lo chiamò figlio; si tramanda che a Roma abbia raccolto nel Vangelo da lui scritto le catechesi dell’Apostolo e che abbia fondato la Chiesa di Alessandria.La figura dell’evangelista Marco, è conosciuta soltanto da quanto riferiscono gli Atti degli Apostoli e alcune lettere di s. Pietro e s. Paolo; non fu certamente un discepolo del Signore e probabilmente non lo conobbe neppure, anche se qualche studioso lo identifica con il ragazzo, che secondo il Vangelo di Marco, seguì Gesù dopo l’arresto nell’orto del Getsemani, avvolto in un lenzuolo; i soldati cercarono di afferrarlo ed egli sfuggì nudo, lasciando il lenzuolo nelle loro mani.
Quel ragazzo era Marco, figlio della vedova benestante Maria, che metteva a disposizione del Maestro la sua casa in Gerusalemme e l’annesso orto degli ulivi.
Nella grande sala della loro casa, fu consumata l’Ultima Cena e lì si radunavano gli apostoli dopo la Passione e fino alla Pentecoste. Quello che è certo è che fu uno dei primi battezzati da Pietro, che frequentava assiduamente la sua casa e infatti Pietro lo chiamava in senso spirituale “mio figlio”.

Discepolo degli Apostoli e martirio

Nel 44 quando Paolo e Barnaba, parente del giovane, ritornarono a Gerusalemme da Antiochia, dove erano stati mandati dagli Apostoli, furono ospiti in quella casa; Marco il cui vero nome era Giovanni usato per i suoi connazionali ebrei, mentre il nome Marco lo era per presentarsi nel mondo greco-romano, ascoltava i racconti di Paolo e Barnaba sulla diffusione del Vangelo ad Antiochia e quando questi vollero ritornarci, li accompagnò.
Fu con loro nel primo viaggio apostolico fino a Cipro, ma quando questi decisero di raggiungere Antiochia, attraverso una regione inospitale e paludosa sulle montagnae del Tauro, Giovanni Marco rinunciò spaventato dalle difficoltà e se ne tornò a Gerusalemme.
Cinque anni dopo, nel 49, Paolo e Barnaba ritornarono a Gerusalemme per difendere i Gentili convertiti, ai quali i giudei cristiani volevano imporre la legge mosaica, per poter ricevere il battesimo.
Ancora ospitati dalla vedova Maria, rividero Marco, che desideroso di rifarsi della figuraccia, volle seguirli di nuovo ad Antiochia; quando i due prepararono un nuovo viaggio apostolico, Paolo non fidandosi, non lo volle con sé e scelse un altro discepolo, Sila e si recò in Asia Minore, mentre Barnaba si spostò a Cipro con Marco.
In seguito il giovane deve aver conquistato la fiducia degli apostoli, perché nel 60, nella sua prima lettera da Roma, Pietro salutando i cristiani dell’Asia Minore, invia anche i saluti di Marco; egli divenne anche fedele collaboratore di Paolo e non esitò di seguirlo a Roma, dove nel 61 risulta che Paolo era prigioniero in attesa di giudizio, l’apostolo parlò di lui, inviando i suoi saluti e quelli di “Marco, il nipote di Barnaba” ai Colossesi; e a Timoteo chiese nella sua seconda lettera da Roma, di raggiungerlo portando con sé Marco “perché mi sarà utile per il ministero”.
Forse Marco giunse in tempo per assistere al martirio di Paolo, ma certamente rimase nella capitale dei Cesari, al servizio di Pietro, anch’egli presente a Roma. Durante gli anni trascorsi accanto al Principe degli Apostoli, Marco trascrisse, secondo la tradizione, la narrazione evangelica di Pietro, senza elaborarla o adattarla a uno schema personale, cosicché il suo Vangelo ha la scioltezza, la vivacità e anche la rudezza di un racconto popolare.
Affermatosi solidamente la comunità cristiana di Roma, Pietro inviò in un primo momento il suo discepolo e segretario, ad evangelizzare l’Italia settentrionale; ad Aquileia Marco convertì Ermagora, diventato poi primo vescovo della città e dopo averlo lasciato, s’imbarcò e fu sorpreso da una tempesta, approdando sulle isole Rialtine (primo nucleo della futura Venezia), dove si addormentò e sognò un angelo che lo salutò: “Pax tibi Marce evangelista meus” e gli promise che in quelle isole avrebbe dormito in attesa dell’ultimo giorno.
Secondo un’antichissima tradizione, Pietro lo mandò poi ad evangelizzare Alessandria d’Egitto, qui Marco fondò la Chiesa locale diventandone il primo vescovo.
Nella zona di Alessandria subì il martirio, sotto l’imperatore Traiano (53-117); fu torturato, legato con funi e trascinato per le vie del villaggio di Bucoli, luogo pieno di rocce e asperità; lacerato dalle pietre, il suo corpo era tutta una ferita sanguinante.
Dopo una notte in carcere, dove venne confortato da un angelo, Marco fu trascinato di nuovo per le strade, finché morì un 25 aprile verso l’anno 72, secondo gli “Atti di Marco” all’età di 57 anni; ebrei e pagani volevano bruciarne il corpo, ma un violento uragano li fece disperdere, permettendo così ad alcuni cristiani, di recuperare il corpo e seppellirlo a Bucoli in una grotta; da lì nel V secolo fu traslato nella zona del Canopo.

di Giacomo Campanile
redazione@vivereroma.org

15 Aprile 2013

Quando è stato istituito l’obbligo del celibato per i sacerdoti?

Filed under: articoli,RECENZIONI — giacomo.campanile @ 14:40

Il Nuovo Testamento presenta una situazione chiara per i chiamati a esercitare un ministero nella giovane chiesa. Dato il contesto culturale dell’epoca, è presumibile che gli apostoli fossero sposati. Certamente lo fu Pietro, del quale si ricorda la suocera. Secondo la tradizione, l’unico apostolo non sposato sarebbe stato Giovanni.

Le lettere pastorali offrono una testimonianza più limpida. A Timoteo si raccomanda che gli episcopi siano «irreprensibili, mariti di una sola donna, sappiano guidare bene la propria famiglia e abbiano figli sottomessi e rispettosi, perché se uno non sa guidare la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?» (1Tim 3,2-5). La medesima indicazione si ha per i diaconi, che «siano mariti di una sola donna e capaci di guidare bene i figli e le proprie famiglie» (1Tim 3,12). A Tito è rivolta una raccomandazione simile: ogni presbitero, che lui dovrà stabilire nelle varie città dell’isola di Creta, «sia irreprensibile, marito di una sola donna e abbia figli credenti, non accusabili di vita dissoluta o indisciplinati» (cf Tt 1,5-6).

Anche se in questo tempo dell’era apostolica non è stata ancora chiarita la distinzione fra le varie figure nominate, i termini episcopi e diaconi, corrispondono certamente figure di ministeri ordinati. Per la loro scelta, dunque, non solo il matrimonio non è un impedimento, ma deve essere valutata la loro capacità di guidare la propria famiglia. L’indicazione di essere sposati con una sola moglie dipende dalla prospettiva condivisa nelle prime generazioni cristiane dell’unico matrimonio durante la vita terrena.

Nei secoli seguenti, l’influsso culturale dell’epoca favorì l’inserimento di una visione sacrale, che richiedeva la continenza per coloro che avevano la presidenza del culto, soprattutto dell’eucaristia. Questa idea di «purità rituale» era molto diffusa, anche al di fuori della tradizione giudaica. Pertanto, pur ordinando soprattutto uomini sposati, si cominciò a chiedere loro una continenza sempre più ampia ed estesa, e non solo nei giorni in cui avrebbero celebrato l’eucaristia. Le prime testimonianze in tal senso sembrano essere attestate dal concilio di Elvira (Spagna, inizi del IV secolo), che al canone 33 prescrive l’astensione dai rapporti coniugali per il clero sposato.

Una testimonianza più chiara l’abbiamo nella lettera del 385 di papa Siricio al vescovo di Tarragona. Il papa chiede che l’ordinazione a qualunque ministero, episcopale, presbiterale o diaconale, sia riservata a uomini sposati una volta sola. Al tempo stesso si proibisce che generino figli, perché sono tenuti a osservare la purità rituale: se sacerdoti e leviti d’Israele dovevano osservarla durante il loro servizio al tempio, i ministri della chiesa sono chiamati ad un servizio senza interruzione.

Il processo continua sotto la medesima prospettiva, attraverso vari interventi magisteriali, trovando una divaricazione fra le tradizioni orientale ed occidentale. L’Oriente cristiano continua l’ordinazione di uomini sposati, chiedendo loro di astenersi dai rapporti coniugali in prossimità della celebrazione dei santi misteri. Il celibato diventa riservato alla figura del vescovo, che nella sua persona, dedita come pastore ad una precisa chiesa locale, rappresenta simbolicamente il Cristo sposo della sua Chiesa.

In Occidente il processo matura diversamente, segnato dalla considerazione negativa dei rapporti sessuali, anche se vissuti all’interno della relazione coniugale. Papa Leone magno, raccomandando a vescovi e presbiteri di trasformare la loro vita da carnale in spirituale, chiede di non allontanare le proprie mogli, ma di vivere con esse come se non fossero le loro spose. Lo stato di ministri sposati continuò ad essere diffuso nell’alto medio evo, insieme a quello del concubinato, accettato più facilmente perché non poneva problemi di eredità alla morte del ministro. Le necessarie riforme portate avanti all’inizio del secondo millennio spinsero decisamente verso una condizione celibataria del clero latino.

Dalla riforma di Gregorio VII al pontificato di Innocenzo III si sviluppa una continua e progressiva riaffermazione della necessità celibataria per il clero. La contrapposizione con la visione protestante porterà un’ulteriore radicalizzazione della norma cattolica latina. Questa è la storia, ricca di tensioni diverse, di valutazioni che mutano, di possibili aperture al futuro.

per prendere le distanze dalla promiscuità diffusa nel mondo pagano, i cristiani diventano sempre più rigoristi in materia sessuale e il Concilio di Elvira in Spagna nell’anno 300 chiede di rinunciare ai rapporti sessuali dopo l’ordinazione sacra. “È stato deciso – recita il canone 33 – di prescrivere in modo assoluto ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi e a tutti i chierici ordinati al sacro ministero, di astenersi dalle loro mogli e di non generare figli; chiunque lo abbia fatto sia escluso dall’onore dello stato clericale”.

Insomma possono ricevere l’Ordine Sacro uomini sposati, ma dopo averlo ricevuto dovrebbero vivere in assoluta continenza, pur continuando a convivere con le mogli. Una disposizione decisamente difficile da rispettare e tanto più da controllare; d’altra parte che il provvedimento abbia avuto scarsa attuazione lo dimostrano i successivi tentativi di farlo rispettare, effettuati dal Concilio Romano del 386 e in altri sinodi e lettere di papi.

Papa Gregorio Magno in un dipinto di Antonello da Messina
Anche nei secoli successivi le prescrizioni continuano ad essere amabilmente ignorate e tra i “bambini non autorizzati” nati da preti e vescovi figurano persino papi e santi importanti: San Gregorio Naziazieno patriarca di Costantinopoli, per esempio, era figlio di un vescovo, san Patrizio figlio di un diacono e nipote di un prete e Teodoro, papa dal 642 al 649, era figlio del vescovo di Gerusalemme. Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, proveniva addirittura da un’intera dinastia di pontefici, mentre Ormisda, papa dal 514 al 523 e venerato come santo, aveva un figlio, anch’esso santo – Silverio – diventato a sua volta papa nel 537.

Per porre rimedio al fenomeno, intorno al 500 si ritiene più semplice e sicuro riservare l’ordinazione sacerdotale a uomini celibi, con l’obbligo che tali rimangano.

Di fatto però, si tratta di una regola instabile e per tutto il Medioevo moltissimi uomini di chiesa continuano a sposarsi e a fare figli impunemente, tanto che quello del celibato dei sacerdoti diventerà uno dei cardini della Riforma dell’XI secolo.

La moralizzazione delle strutture della Chiesa avviata nel 1049 da papa Leone IX prevede infatti anche una dura lotta contro quello che viene definito il “concubinaggio” dei preti. Anche il successore Vittore III, con l’aiuto di Ildebrando di Soana, si impegna a fondo per debellare il fenomeno considerato ormai una delle principali piaghe del clero e papa Niccolò II, fatto eleggere da Ildebrando nel 1058, proibisce ancora una volta ai preti di prendere moglie e intima a chi ce l’ha di abbandonarla, pena il decadimento.

Nel frattempo si consuma la rottura con la Chiesa Ortodossa, dove la questione del celibato ecclesiastico viene risolta in modo completamente diverso.

Ancora oggi gli ortodossi continuano infatti ad ordinare preti solo uomini sposati, mentre i vescovi vengono scelti esclusivamente tra i monaci: in Oriente abbiamo quindi un clero sposato e una gerarchia celibe, con una netta differenza tra preti e monaci.

Nella chiesa orientale, infatti, oltre agli ortodossi esistono anche i cosiddetti “cattolici di rito greco”, ovvero cristiani che seguono la liturgia e le prassi della Chiesa ortodossa pur riconoscendo l’autorità del Papa. I loro preti, anche se cattolici, possono essere sposati. Un altro caso è quello degli ex protestanti: sin dal 1956 Pio XII ha permesso l’ordinazione di preti anglicani sposati che si convertono al cattolicesimo, senza chiedere loro di lasciare la moglie.

In occidente accade esattamente il contrario: nel corso del Medioevo si accresce sempre di più la tendenza a clericarizzare i monaci e i frati (ordinandoli quasi tutti preti e affidandogli parrocchie) e a “monasticizzare” i preti. Di fatto, nella Chiesa Cattolica medievale guidata da molti papi monaci, il prete secolare viene trasformato quasi in una sorta di “brutta copia” del frate e diventerà sempre più difficile, per il fedele comune, distinguere il sacerdote “laico” dall’appartenente a una famiglia religiosa.

immagineIn questi giorni è uscito un bel libro di Don Renzo Lavatori sugli angeli con il titolo:” Gli angeli. Storia e pensiero” per le edizioni Marietti. Il testo è unico nel suo genere, è una sintesi teologica magistrale sul mistero dell’angelo argomento di estrema attualità.E’ la trattazione più completa e più documentata di come la figura dell’angelo sia stata vista e approfondita nella tradizione cristiana. Non è soltanto una rassegna storiografica o dottrinale, ma anche un testo in cui il lettore può entrare con intima soddisfazione nel mondo affascinante degli angeli, in modo che la loro presenza e la loro azione si incarnino nelle vicende storiche e reali sia di ogni individuo sia della umanità in genere. Il libro assicura la fedeltà ai dati della rivelazione biblica e alla dottrina della Chiesa.

Si auspica che l’autore presentI questo ottimo libro anche nella nostra città diocesi  in cui è incardinato e svolge il suo ministero nei periodi estivi.

di Giacomo Campanile

redazione@vivereroma.org

11 Aprile 2013

Ferdinando Imposimato incontra i ragazzi della scuola L. Einaudi di Roma

Filed under: articoli,Piccolo coro del Montale — giacomo.campanile @ 16:22

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Ferdinando Imposimato (Maddaloni, 9 aprile 1936) è un magistrato, politico e avvocato italiano. È presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione.

La preside Rita Sciuto dell''Istituto Professionale per i Servizi Commerciali e Turistici L. Einaudi di Roma (che si trova in via Santa Maria alle Fornaci 1 ed è un Istituto principale di II grado) ha invitato il noto senatore Ferdinando Imposimato,Si è occupato della lotta alla mafia, alla camorra e al terrorismo: è stato il giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro (1978), l'attentato al papa Giovanni Paolo II (1981), l'omicidio del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura Vittorio Bachelet, e dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. Si occupa anche della difesa dei diritti umani. Invitato all'Istituto Einaudi  per un incontro con gli studenti che si terrà giovedì 11 alle 10 nell'aula magna dell'istituto. Per denunciare gli illeciti e i delitti mafiosi, Nel 1983, il fratello Franco viene ucciso per una vendetta trasversale. Nel 1984 viene designato come rappresentante dell'Italia a Strasburgo per i problemi del terrorismo internazionale con abuso delle immunità diplomatiche e redige la "mozione finale" approvata all'unanimità dai rappresentanti dei 16 paesi dell'Europa. Nel 1986, dopo che le continue minacce di Cosa Nostra gli fanno lasciare la magistratura, diviene consulente legale delle Nazioni Unite nella lotta alla droga. Si reca più volte, per incarico dell'ONU, nei paesi dell'America Latina per i programmi di rafforzamento del sistema legale dei paesi afflitti dal narcotraffico. L'iniziativa è aperta a tutta la cittadinanza. All'evento parteciperà il prof. Giacomo Campanile con il suo piccolo coro del Montale con canti di rilevanza sociale e di denuncia contro ogni ingiustizia.

30 Marzo 2013

Il Liceo E.Montale di Roma dal Papa Francesco

Filed under: articoli — giacomo.campanile @ 08:17

http://www.vivereroma.org/index.php?page=articolo&articolo_id=399493

immagineSeicento studenti con i rispettivi docenti mercoledì 27 marzo 2013 si sono recati alla prima udienza ufficiale di papa Francesco in piazza S.Pietro, per salutare il proprio vescovo e ricevere la santa benedizione per il loro lavoro e le loro famiglie.

L’evento è stato organizzato dal mitico prof. di religione Giacomo Campanile, che sulla scia dell’entusiasmo con cui è stato accolto il nuovo papa dal popolo di Dio ha quasi per scherzo invitato una classe all’udienza del Sommo Pontefice. Subito la notizia si è sparsa a macchia d’olio tantissimi studenti e professori hanno mostrato il desiderio di partecipare a questa udienza.

Il prof. Campanile è rimasto spiazzato da questa risposta così forte, non è stato facile organizzare l’evento ma la collaborazione benevola, precisa e sicura della dirigente scolastica Rita Sciuto ha fatto si che tutto andasse nel migliore dei modi a livello organizzativo dobbiamo ringraziare la segretaria Patrizia che ha svolto la parte burocratica con celerità.

Tantissimi studenti hanno coinvolto i propri genitori e la loro famiglia, molti docenti già in pensione ricevendo la notizia si sono prenotati per un posto a piazza S.Pietro per condividere la gioia di questa manifestazione.

Il prof. Campanile facendo un calcolo approssimativo pensa che all’udienza di mercoledì sono venute almeno 700 persone che girano intorno al liceo E.Montale.

22 Gennaio 2013

Il Papa. Le divisioni tra i cristiani deturpano il volto della Chiesa

Filed under: articoli,PAPA — giacomo.campanile @ 20:19
Il Papa. Le divisioni tra i cristiani deturpano il volto della Chiesa
immagineAll’Angelus il Papa invita i fedeli all’impegno spirituale per la Settimana di preghiera per l’unitàUna delle colpe più gravi “che deturpano il volto della Chiesa” è quella “contro la sua unità visibile”, in particolare “le storiche divisioni che hanno separato i cristiani e che non sono state ancora superate”. Lo ha detto il Papa all’Angelus di domenica 20 gennaio, in piazza San Pietro, parlando della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che si celebra dal 18 al 25 gennaio sul tema “Quello che esige il Signore da noi”, tratto da un’espressione del profeta Michea.
Per il Pontefice l’appuntamento ecumenico annuale rappresenta “un momento sempre gradito ai credenti e alle comunità, che risveglia in tutti il desiderio e l’impegno spirituale per la piena comunione”. In proposito Benedetto XVI ha ricordato la “significativa” esperienza della veglia di preghiera celebrata il 29 dicembre scorso in piazza San Pietro con migliaia di giovani di tutta Europa e con la comunità di Taizé: “un momento di grazia – lo ha definito – in cui abbiamo sperimentato la bellezza di formare in Cristo una cosa sola”.
“Incoraggio tutti a pregare insieme affinché possiamo realizzare “quello che esige il Signore da noi”” ha detto quindi rilanciando il tema della Settimana di preghiera. Un tema – ha spiegato – “proposto da alcune comunità cristiane dell’India, che invitano a impegnarsi con decisione verso l’unità visibile tra tutti i cristiani, e a superare, come fratelli in Cristo, ogni tipo di ingiusta discriminazione”. Da qui l’invito del Pontefice a unirsi a lui venerdì prossimo, 25 gennaio, festa della conversione di san Paolo apostolo, quando presiederà la celebrazione dei Vespri nella basilica di San Paolo fuori le mura, alla presenza dei rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali.
In conclusione, prima di rivolgere particolari espressioni di saluto ai diversi gruppi linguistici presenti alla preghiera, il Papa ha lanciato un appello alla pace, invitando i fedeli a pregare “perché, nei diversi conflitti purtroppo in atto, cessino le ignobili stragi di civili inermi, abbia fine ogni violenza, e si trovi il coraggio del dialogo e del negoziato”.

Fonte vaticana

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